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I rossi e i neri/Primo volume/XI

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XI

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XI.

Dove si viene in chiaro del segreto di Aloise

In quel mentre, giunse il servo ad annunziare che la carrozza era innanzi all’uscio di strada. La qual nuova, com’è agevole il credere, interruppe il dialogo dei due amici; e il lettore, a cui ne dolesse, non ce l’apponga a noi, sibbene al servitore, che è venuto in mal punto.

Due minuti dopo, Aloise e Pietrasanta salivano in quella vettura di rimessa, fatta venire dal servo, e i due cavalli che v’erano attaccati partivano al trotto verso la Nunziata. Il Montalto era rimasto sovra pensieri, e non badava nemmeno alla lunga e popolosa strada che percorreva, la quale è l’arteria principale, l’arteria aorta di Genova, e piglia tanti [p. 84 modifica]nomi diversi ad ogni suo gomito, da via Balbi fino a piazza San Domenico, e di là fino alle porte della Pila.

Giunti all’aperto, il Pietrasanta cominciò uno dei soliti discorsi bizzarri, ai quali Aloise stava attento, secondo l’umore, e rispondeva o non rispondeva, secondo la voglia.

Il discorso importante, quello al quale Aloise di Montalto aveva a stare più attento che mai, cominciò dopo il paese di Quarto, allorquando al girare di una piccola lingua di terra che s’inoltra sul mare, videro un palazzo di campagna, di forme magnifiche e di stile severo, murato sul pendio di un colle, poco lontano dalla strada maestra.

— Ecco là; — disse il Pietrasanta, accennando del dito, — quella è la dimora estiva del tiranno di Quinto.

— È davvero un bel luogo di villeggiatura! — rispose Aloise.

— Che te ne pare, Aloise? — esclamò l’altro. — Oggi siamo proprio perseguitati dai Torre Vivaldi.

— Oh bella! Se veniamo noi stessi a passare dinanzi a casa loro!...

— Orbene! La montagna che si muove verso Maometto; Maometto che si muove verso la montagna; il miracolo non è sempre lo stesso? Vuoi che andiamo a vederla, questa villa Vivaldi?

— E a Nervi? — chiese Aloise, così pro forma.

— A Nervi ci andremo poi per riposare i muscoli. E poi, che cosa c’importa di vedere, colà? Abbiamo detto a Nervi, come avremmo detto al Giappone, per fare una passeggiata, e siamo padroni di mutare l’itinerario. E poi, sentimi, due passi a piedi ti faranno anche bene.

— Sei tu mai stato alla villa Vivaldi?

— Io no; ma che importa? Ci aprirà il giardiniere.

— Andiamo dunque.

— Andiamo. Ehi, cocchiere! — gridò il Pietrasanta. — Lasciate la strada maestra e prendete quell’altra a sinistra. Vogliamo andare alla villa Vivaldi, là da quel cancello verde che vedete. —

Il cocchiere obbedì e la carrozza fu in breve davanti al cancello di ferro fuso, sormontato da uno stemma partito di rosso e d’argento, col capo d’oro all’aquila nascente di nero, coronata e rostrata d’oro.

Due forti scampanellate chiamarono il giardiniere, il quale, veduti i due signori, e indovinandoli d’alto bordo, si affrettò ad aprire, e a riceverli col cappello in mano, dinanzi allo smontatoio della carrozza. [p. 85 modifica]

— Amico, — disse il Pietrasanta, — vorremmo entrare, con vostra licenza, a vedere un poco questa magnifica villa.

— Oh, sono padroni! — rispose l’altro con due inchini; e fattili entrare davanti a sè, richiuse il cancello.

Il palazzo Vivaldi era superbamente piantato sul colmo d’un poggiuolo, e vi si andava per un lungo e spazioso viale a dolcissimo pendio, chiuso ai lati da due file di rosai e di tamerici. L’architettura esterna era la consueta di quasi tutti i palazzi delle nostre campagne: soltanto si notava che quattro finestre del piano nobile, le ultime a manca, si allargavano a forma di loggia, custodita da grandi vetrate che s’intelaiavano nei colonnati; e le ultime quattro a destra cadevano entro le linee perpendicolari di una torre che usciva da quella parte del palazzo, rompendo ad angolo due acque del tetto.

Il piazzale dinanzi al gran portone arcato era coperto di ghiaia; i viali ai due lati andavano a dare in un muro che serviva di riparo a due di quelle belle spalliere di aranci e di limoni, che hanno fatto dire al Goethe il famoso verso: «Kennst du das Land wo die Citronen blühen?» Alle spalle del palazzo correva una stradicciuola campestre; laonde, per collegarlo col prato e col bosco della villa, scendeva dal pian nobile dell’edifizio un cavalcavia, fatto a foggia di gradinata, con le sue sontuose balaustrate di marmo.

Un gigantesco platano sorgeva a fianco della gradinata, ombreggiando quella specie di terrazzo per cui si entrava nella gran sala del pian nobile. In mezzo al prato, che era vastissimo, rallegrava gli occhi del riguardante un laghetto di forma ovale, coi margini di marmo bianco, entro il quale cresceva la ninféa, spandendo le sue larghe foglie vellutate a fior d’acqua, e navigavano a loro posta due cigni. L’orizzonte era precluso da ogni parte da filari di querci, sotto i quali correvano a cerchio spaziosi ed ombreggiati sentieri.

Tutte queste cose, sul finir di febbraio, sebbene mancassero i colori smaglianti della vegetazione primaverile, davano immagine di magnificenza principesca, e lasciavano argomentare che paradiso terrestre fosse la villa Vivaldi nei mesi di estate.

Il Pietrasanta, in quella che andavano girando per ogni luogo, aveva fatto amicizia col giardiniere, e ragionava con lui di tutte le belle cose che si presentavano alla loro ammirazione.

— Veda! — gli diceva il giardiniere, fermandosi presso [p. 86 modifica]una specie di querce e facendone notare la corteccia cedevole ma tenace, questo è l’albero del sughero, che è così raro dalle nostre parti.

— Buono per far turaccioli! — notò giudiziosamente il Pietrasanta. — E i sedili, che gli adornano il tronco, accanto a questa gran tavola rustica, che cosa significano?

— Ah! — rispose il giardiniere, con un piglio dottoresco, — questa è la Corte d’Amore.

— La Corte d’Amore! Che diamine di Corte è ella?

— È il luogo dove la signora marchesa viene a sedersi. Tutte le Vivaldi hanno sempre avuto il costume di venire a passare sotto quest’albero le ore calde della giornata. I miei vecchi hanno sempre veduto la medesima cosa; ed anche adesso, quando la signora marchesa è in campagna, ci sta tre o quattr’ore ogni giorno.

— Scusatemi, Giacomino, — disse il Pietrasanta, che già sapeva il nome del giardiniere, — ma non mi sembra poi una gran cosa da meritare un nome così bello e una così nobile preferenza.

— Oh, perchè lo vede così nudo. Ma nella buona stagione c’è tutto il verde dintorno; la signora marchesa poi fa rimettere a posto tanti altri sedili di maiolica, stendere un gran tappeto su questa tavola di lavagna, e una bella tenda fra gli alberi, per custodirsi meglio dai raggi del sole. Io poi ci porto dei fiori; la cameriera ci porta dei libri e il telaio da ricamo della marchesa; il servitore dei rinfreschi per tutti i signori che vengono qui a far conversazione con Sua Eccellenza.

— Ah! mi ricordo, — disse Pietrasanta, volgendosi ad Aloise, — che il piccolo Riario mi parlava di un certo ritrovo, dove si faceva crocchio intorno alla bella marchesa. La Corte di Amore! Il nome è bello, e probabilmente la presenza della signora farà bello anche il luogo.

— Ora, se le loro Signorie vogliono vedere la grotta....

— La grotta! C’è una grotta? Sicuro che vogliamo vederla.

— Va pure; — disse Aloise, — io non ti seguo.

— Perchè? Sei forse stanco?

— Sì, un po’; ma non te ne dar pensiero. Ti aspetterò qui seduto sull’erba, e tu mi porterai le novelle dell’antro muscoso.

— E delle stalattiti. Perchè, — soggiunse il Pietrasanta, volgendosi al giardiniere, — ci saranno anche le stalattiti; non è egli vero, Giacomino?

— L’ha da vedere, Vossignoria, che grotta! — rispose [p. 87 modifica]questi. — Non se ne trova una così bella, anco a farsela naturale.

— E voi dovete esserne tanto più superbo, — disse il Pietrasanta, — in quanto che nemmeno il Creatore, l’unico che se le possa far naturali, potrà superarvela. —

Il giardiniere si accorse di averla detta grossa, ma non sapeva come rimediarci. Però, tutto confuso, chiese perdono a Dio di quell’atto di superbia, e precedette il Pietrasanta nel fitto delle piante, per dove si andava alla grotta. Era un uomo dabbene e timorato di coscienza, il giardiniere dei Torre Vivaldi, e pensava con raccapriccio a quello che gli avrebbe potuto dire il padrone, se lo avesse inteso bestemmiare a quel modo.

Intanto Aloise, appena i due furono scomparsi, in cambio di sedersi sull’erba, siccome aveva detto di voler fare, andò a posarsi su d’uno di que’ sedili di sasso, e precisamente su quello che era a’ pie’ dell’albero presso la tavola, piantando i gomiti sulla lavagna e rimanendo col capo chino tra le palme.

Il giovine stette in quella postura un bel tratto, pensando e sospirando; poi, come uomo che ha preso una deliberazione, si alzò ed andò per ogni lato a cercare. Che cosa cercava? Un coccio di maiolica, un mozzicone di lavagna, qualche arnese, insomma, da potergli servire per iscrivere su quella superficie levigata della tavola.

Trovò finalmente il fatto suo, e si pose con fanciullesca gravità a segnare un nome a lettere maiuscole, sulla lavagna. Il filo del coccio si corrodeva nello sfregamento, ma Aloise calcava sempre più forte, e tornava sulle lettere per modo da scavarle più profonde, sicchè non potessero più cancellarsi.

Il nome che egli andava cosiffattamente incidendo (i lettori si saranno già apposti) era quello di «Ginevra», della bella marchesa di Torre Vivaldi.

Ecco dunque posto in chiaro il segreto di Aloise. Il giovine marchese di Montalto amava quella gentildonna che nostri lettori non conoscono ancora se non per la bizzarra dipintura che ce ne ha fatto quel capo scarico del Pietrasanta.

Raccontiamo una cosa che parrà strana a molti, ma che è vera come l’istessa verità, e che taluni conosceranno a prova. L’amore di Aloise per la bella marchesa di Torre Vivaldi contava già sei anni di vita, e l’innamorato non aveva detta anche una parola alla donna de’ suoi pensieri. [p. 88 modifica]

Appena sei anni innanzi Antoniotto Della Torre aveva tolto in moglie la bella Ginevra, ultimo rampollo dell’antica casata dei Vivaldi. Insieme con la mano della fanciulla, che era in un monastero a compiere la sua educazione, c’erano cinque o sei milioni di sostanza, e il patto che il marito assumesse il nome della famiglia, che si sarebbe estinto colla persona di Ginevra.

La giovinetta andò sposa al Della Torre, senza pure averlo veduto; ma lo aveva veduto il tutore, e bastava. Sono questi i matrimoni che da noi si dicono di convenienza, parola che vorrebbe dissimulare il tornaconto, e non ne viene a capo. Antoniotto era ricco; la Vivaldi era ricchissima, nobilissima e bellissima per giunta; laonde non è a dire se il tornaconto c’era, e perciò il matrimonio fu combinato alla spiccia, e la fanciulla uscì dalla cella solitaria del monastero per andar difilata alla stanza nuziale.

Per tutta Genova s’era fatto un gran ragionare di queste nozze, Antoniotto Della Torre era uomo di mezza età, di umor cupo ed ambizioso; ma in fin dei conti era nobile e ricco, e nessuno trovò a ridire sulla deliberazione del tutore, il quale, a dirvela in confidenza, in quella che concedeva la mano della sua pupilla ad uno de’ suoi consorti, acconciava le sue faccende particolari, e tra l’altre, dando il capitale, non rendeva strettissimo conto dei frutti. Dice l’adagio che una mano lava l’altra, e tuttedue lavano il viso.

E bisognava aver veduto che nozze! Canzoni e sonetti ne furono scritti e stampati a dozzine. V’ebbe tra gli altri un poeta il quale, pigliando l’inspirazione dagli stemmi delle due famiglie, scrisse che un più ragionevole nodo non si sarebbe potuto stringere mai, trattandosi di un’aquila che ne «impalmava» un’altra. Immaginate che aquilotto avrebbe dovuto nascere da quelle auspicatissime nozze! E tuttavia non era nato un bel nulla, e i voti del poeta erano rimasti più sterili della sua fantasia, la quale almeno, se non de’ suoi parti, poteva insuperbire delle sue sconciature.

Appena celebrate le nozze, gli sposi erano partiti per un lungo viaggio, siccome è debito di persone le quali intendono la dignità del loro stato, e possono mettere la loro ambizione nell’appendere il nido dei loro amori eterni all’alcova di un albergo parigino. Gran dolcezza di ricordi vuol essere, pei giorni futuri! Ma infine, perchè no? Se non dolci, saporiti di certo. — «Angelo mio, ti rammenti di quella sôle à la Normande?» — «Sì, amico mio, [p. 89 modifica]era eccellente; e quella bisque aux crevettes?» — «Adorabile, hai ragione, adorabile! Me ne viene ancora l’acquolina alla bocca.»

Il ritorno dei Torre Vivaldi a Genova fu salutato come un fatto di rilievo. La donna, vissuta nella solitudine del convento, era a mala pena conosciuta di nome; però la sua sfolgorante bellezza, circondata da tutti gli agi del suo grande stato, destò l’ammirazione universale, nè più nè manco di una cometa sopraggiunta d’improvviso nel nostro sistema planetario. Tutti fecero a gara per avvicinarsi alla bella Giunone dell’Olimpo ligustico, e beati gli Dei e semidei, ai quali lo stato loro, i titoli sonanti e la larghezza del censo, consentivano di starle vicini ed entrare in dimestichezza col fortunato Giove. Il quale lasciava ammirare, lasciava corrersi la gente dattorno; accoglieva tutti, faceva buon viso ai giovani, come ai maturi. Più tardi ci occorrerà il dire quel che egli fosse, quali i suoi pensieri e i disegni. Basti per ora il sapere che egli, sempre un po’ chiuso nel segreto della propria ambizione, usava tener corte bandita e regnare su tutta la gente che lo sfarzo del suo vivere e la superba bellezza della moglie gli tiravano in casa.

Quando la marchesa Torre Vivaldi comparve per la prima volta nel teatro Carlo Felice, fu una meraviglia universale. I re franchi non furono mai levati sugli scudi con tanto entusiasmo, quanto ne fu posto da quella curiosa e volubile assemblea a salutarla regina. Ella sì, poteva dire come Cesare, «veni, vidi, vici»; perchè tutti gli sguardi si volsero a lei, e non se ne distolsero per tutta la sera, sebbene ci fossero, di là dai lumi della ribalta, una bella cantante ed una ballerina fatta a pennello.

Aloise di Montalto era quella sera in teatro, e stava appunto in platea, dando le spalle a quel palchetto di prima fila dov’era comparsa la splendida gentildonna, con una veste scollata di stoffa azzurrina, che lasciava scorgere i purissimi contorni del collo e degli òmeri, e le braccia ignude. Una luna falcata le ornava i capelli, pettinati alla foggia di Diana; il collo e i polsi scintillavano lontano per una magnifica collana e per due braccialetti di brillanti; ma gli occhi della marchesa, ombreggiati dall’arco superbo delle ciglia, scintillavano d’una luce più vivida, e l’alabastro delle carni abbacinava gli occhi dei riguardanti, assai più dell’oro e dei brillanti, sebbene questi rifrangessero per tutte le loro faccette e con tutti i bagliori colorati dell’iride, la luce di cento doppieri. [p. 90 modifica]

— Come è bella! — dicevano tutti. Ma più delle labbra parlavano gli occhi estatici, un mormorio di universale ammirazione e i cannocchiali puntati a gara su quel palchetto di prima fila. Diana non guardava nessuno; pareva quasi non avvedersi di tutte quelle lenti ustorie rivolte sulla sua persona, e non distoglieva lo sguardo dalla scena se non per ricambiare una parola col marito e coi tre o quattro amici che si davano lo scambio nel palchetto, come i soldati in sentinella; tutti ragguardevoli personaggi, ai quali si leggeva in volto la vanità dello stare e del farsi vedere accanto a quella regina, eletta così prontamente dal suffragio universale.

Un uomo solo contraffaceva co’ suoi modi alla curiosità della folla, ostinandosi a non guardare dove tutti guardavano; e la cosa riusciva tanto più notevole in quanto che egli era pochi passi discosto dal palchetto, e la sua bionda cuticagna faceva troppo forte contrasto con gli occhi sbarrati di tutti i suoi vicini, verso la bella signora.

— Guarda, Aloise, — gli avevano detto alcuni amici, — guarda che stupenda bellezza!

— Guardate voi altri, se vi garba, — aveva egli risposto; — io bado alla scena.

— E perchè non vuoi dare un’occhiata di qua, dove c’è la bella Vivaldi, tornata l’altro dì da Parigi?

— Oh bella! perchè non mi par necessario.

— È uno dei soliti capricci; lasciatelo fare! — aveva soggiunto il Pietrasanta, che era nel crocchio.

— Un capriccio! Sarà; — disse di rimando Aloise, — ma io penso che sia ragionevole come tante altre cose, alle quali si usa dar questo nome. O che? Per la semplice ragione che una bella donna è venuta in teatro, tutti dobbiamo voltarci per adorarla? È bella, voi dite; tanto meglio.... per suo marito. Io, per me, sto attento alla musica, la quale è fatta per tutti; e, poichè voi altri guardate altrove, penso sia cantata e suonata soltanto per me. —

Aloise non aveva potuto risponder sempre di questa conformità alla gente. Per quella sera si incaponì a non guardare; ma alcune sere dopo, essendo egli in un palchetto a far visita ad una signora, sua mezza parente, gli venne chiesto come gli paresse la marchesa Torre Vivaldi.

— Dov’è, — soggiunse egli. — Io non l’ho anche veduta.

— Come? — disse allora la dama; — siete venuto qui sul davanti e non avete veduto quella bella signora che è due numeri più indietro di noi?

— Ah, sì, la vedo. È molto bella. — E non disse altro. [p. 91 modifica]

Senonchè, per uno di quei tali contrasti che occorrono così frequenti nella umana natura, dopo essersi fitto in capo di non guardar mai quella ottava meraviglia del mondo, si fece a guardarla fin troppo. Se qualcuno gli avesse fatto notare quella sua contraddizione, egli non avrebbe voluto capacitarsene; ma, anche senza addarsene, i suoi occhi correvano spesso verso quella bella figura.

Quella sera la marchesa Ginevra era modestamente vestita di nero, con la vita aggiustata alla persona, le spalle e il collo interamente coperti, e nessun altro ornamento tranne certe frappe aperte sulle maniche, alla foggia del cinquecento. I suo capelli castagni erano tirati indietro, e la severità di quella acconciatura era temperata soltanto da due riccioli lunghi, che le scendevan dietro alle orecchie, andandosi a confondere col nero della veste.

Il giovine Montalto non avrebbe voluto guardarla tanto; ma che farci? Il fascino era troppo forte, e tutti i più fermi proponimenti che egli andava facendo in cuor suo, cedevano ad ogni tratto innanzi a quella potenza di attrattiva che era negli occhi ed in ogni lineamento di quel volto mirabile.

Temendo però che altri si avvedesse della sua debolezza, si alzò, e congedatosi dalla signora, uscì da teatro. Fu quella un’impresa da eroe, sebbene egli, per sentirsene l’ardimento, avesse avuto mestieri del sopraggiungere d’un nuovo visitatore, al quale, o subito o poco dopo, avrebbe dovuto cedere il posto.

Il povero giovane era entrato tranquillo in teatro, e ne usciva profondamente turbato. Da quella sera la naturale mestizia del suo animo si rabbuiò fino all’umor nero, e il giorno dopo incominciarono le passeggiate solitarie ai Giardinetti dell’Acquasola, da dove si scorgeva il tetto, nient’altro che il tetto, di un palazzo della Strada Nuova, sontuosa dimora della marchesa Ginevra. Colassù almeno egli poteva fermarsi, e contemplare a suo bell’agio quel tanto di spazio murato in cui viveva la bellissima donna.

Queste cose s’intenderanno molto più agevolmente quando si pensi che Aloise aveva diciott’anni, e che quello era il suo primo amore.

Timido com’era, egli non avrebbe ardito mai farsi presentare in quella casa. La sua fantasia entrava liberamente dal tetto; ma le sue gambe avrebbero ricusato di salirne le scale. Non già che una donna gli facesse paura; la sua educazione gli aveva insegnato benissimo quella scioltezza di modi con cui s’entra in casa altrui; e tante volte ne aveva [p. 92 modifica]fatto sperimento! Ma quella non era una donna come tutte le altre, poichè egli se ne era innamorato; epperò tremava al solo pensiero di metter piede in sua casa, e di farsi leggere negli occhi il segreto del cuore.

D’altra parte, perchè sarebbe andato ad accrescere la schiera dei curiosi? Si sarebbe ella avveduta? avrebbe ella osservato un ragazzo come lui? Il vero amore, in un giovinetto inesperto, riesce così impacciato ne’ suoi modi, che spesso dà nel ridicolo, e una donna giovine, bella ed ammirata da tanti, è più facilmente disposta a farne le grasse risa, che non a mostrarsene grata. Ed Aloise, il quale era giovine d’anni, ma adulto di mente, le intendeva benissimo, tutte queste cose, e non ne pigliava argomento a sperare.

Così scorse il tempo. La marchesa Ginevra, passato l’inverno, era andata in campagna, dove incominciò da quell’anno a passare i sei mesi della bella stagione. Inoltre, per due inverni consecutivi andò col marito a Parigi, e il povero innamorato visse come gli venne fatto, non cavando altro conforto che dalla sua giovinezza e dallo studio.

L’amor suo, seguendo l’esempio della natura, aveva i suoi periodi di sopore, e soltanto la presenza dei Torre Vivaldi a Genova lo faceva riavere, ma inasprendo sempre maggiormente la piaga. Intanto gli anni correvano. Aloise di Montalto viveva solitario, immerso ne’ suoi studi, alternando le Pandette con la musica, l’economia politica colle lettere. I soli passatempi della sua malinconica ma robusta giovinezza, erano il cavalcare e la scherma. Di questo modo egli s’era fatto da per sè un tal uomo che molti stimavano e tutti poi rispettavano, sebbene pochi lo amassero, a cagione della sua contegnosa alterezza.

Ma questa in fin de’ conti vale assai più del fare sbracciato e arrendevole, col quale vi studiate di piacere al volgo, e non ne accattate il più delle volte che spregio. Aloise, anche asciutto nei modi come era giudicato, non poteva negarsi che fosse un perfetto cavaliere; e molte donne gli avevano posti gli occhi addosso per cominciare il solito romanzo: molti uomini, poi, di quelli che la sanno lunga, avrebbero voluto tirarlo dalla loro, come un ottimo strumento alle comuni ambizioni. Ma egli si schermiva da quelle e stava lontano da questi; e il riserbo, più ancora che le sue virtù, lo faceva crescere dieci cotanti nella estimazione universale. La qual cosa potrebbe addursi come una testimonianza a pro’ di quell’adagio, secondo il quale la potenza di un uomo sta per un terzo nell’essere e per due nel parere. [p. 93 modifica]

Noi pensiamo ora di non aver altro da aggiungere al ritratto morale del giovine, che s’era battuto con Lorenzo Salvani, che andava a passeggiare sul belvedere dei Giardinetti e che incideva il nome di Ginevra su d’una tavola di lavagna nella Corte d’amore della villa Vivaldi.

Quando il Pietrasanta e il giardiniere tornarono dalla grotta, Aloise era già andato fuori del viale ad aspettarli in mezzo al prato, affinchè essi, vedendolo da lontano sui margini del laghetto, intento a guardare i cigni, non passassero più dinnanzi alla tavola, sulla quale avrebbero potuto scorgere una pericolosa testimonianza de’ fatti suoi.

L’amico fece una lunga cicalata sulle oscure bellezze della grotta, che noi tralasceremo per amore di brevità, e poco stante ambedue se ne ripartirono, dando una larga mancia al giardiniere: il quale li aiutò a salire in carrozza scusandosi con abbondanza di parole del non aver fatto entrare il veicolo sul piazzale del palazzo, come sarebbe stato dicevole con persone tanto ragguardevoli.

— Non ve ne date pensiero! — disse quel pazzo di Enrico Pietrasanta. — Noi viaggiamo nel più stretto incognito, e non amiamo le cerimonie. —

Il Pietrasanta, celiando, diceva la verità. Infatti, pochi minuti prima quando il giardiniere aveva presentato loro l’albo dei visitatori, Aloise di Montalto s’era fatto sollecito a pigliar la matita, e dopo avere ammiccato al compagno, scriveva sull’albo due nomi strani: Goffredo Rudel e Percivalle Doria.

— Che cosa t’è frullato in capo, — chiese Pietrasanta, quando furono per istrada, — di mettere que’ due nomi in cambio de’ nostri?

— Bravo! E volevi far sapere ai padroni di casa che i nostri noi, come tu hai il vezzo di dire, sono stati a visitare la loro villa?

— E che male ci sarebbe stato, che i nostri noi lasciassero risapere che ci sono venuti?

— Nessun male, Enrico mio; ma non c’è nessun utile a farlo risapere. E poi, non l’hai detto tu stesso poc’anzi, che i nostri noi viaggiano nel più stretto incognito? —

In questi ed altri ragionari della medesima risma, si giunse a Genova, e il Pietrasanta accompagnò a casa l’amico.

Il servitore attendeva con impazienza il ritorno di Aloise, al quale si affrettò a dire, appena fu entrato:

— C’è qui il maggiordomo del nonno di Vostra Eccellenza, il quale ha gran premura di parlarle. — [p. 94 modifica]

In molte case nobili di Genova i servitori non hanno ancora perduto l’uso di dare dell’Eccellenza al padrone. In altri luoghi d’Italia, in cambio di smetterlo, si dà quel titolo a tutti, come il governo darebbe una croce di cavaliere. La qual cosa non fa male a nessuno, e un’usanza val l’altra.

— Mio nonno! — esclamò Aloise, volgendosi al Pietrasanta. — E che diamine vuole mio nonno da me?

— Vorrà forse far testamento, — rispose l’amico.

— Oh, questo l’avrà già fatto, e penso che non abbia neppure molto pensato al suo nipote. Ci ha certi figuri d’attorno!

— Basta, va a vedere che cosa vuole. È anche l’unico modo di saperlo.

— Tu parli come un savio della Grecia! — disse Aloise; ed entrò difilato in un’altra camera dove il maggiordomo del vecchio banchiere Vitali stava ad attenderlo.

Fu grande la meraviglia del marchese di Montalto quando seppe che suo nonno, il quale era sempre a letto ammalato, lo scongiurava che andasse da lui, ma non di giorno, sibbene in punto di mezzanotte, ora prediletta degli innamorati, dei congiurati e delle fantasime.