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I rossi e i neri/Primo volume/XXXII

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XXXII

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XXXII.

Nel quale i lettori non genovesi impareranno chi fossero Barudda e Pippia

Noi lasceremo adesso il padre Bonaventura alle sue cure, e terremo dietro al Bello; il quale, dopo aver fatto una lunga sosta nella sala da giuoco della bottega da caffè del Gran Corso, dopo aver salutata la Violetta e chinata pazientemente [p. 298 modifica]la testa a tutti i suoi mattutini capricci, dopo essersi bisticciato a tavola colla sua cara metà e aver misurato una mezza serqua di ceffate alle sue guance carnacciute, se n’è uscito zufolando dal tetto maritale, per andarsene a fumare un mezzo sigaro fuori di Porta Pila, tanto per far giungere l’ora di andare dai Servi, dove avrebbe potuto, all’imbrunire, far l’ambasciata di padre Bonaventura.

Gli stava a cuore di render servizio al gesuita. I lettori che ci hanno seguitato fin qui, sanno che legami corressero tra i due. Bonaventura conosceva tutte le marachelle del Bello, e lo teneva come la biscia all’incanto. Talvolta, poi, quantunque non volesse confessarlo al Collini, gli lasciava cadere di bei contanti tra le mani, in premio de’ suoi servigi, e segnatamente per quest’ultimo gli aveva promesso un largo beveraggio. Su questo faceva assegnamento il Bello, ed anche sulla metà di quelle duemila lire che il gesuita gli aveva a snocciolare per la magna impresa del Guercio.

I denari non duravano molto nelle tasche del Garasso. Contrariamente a quella tal borsa della favola, dove tanti ne toglieva il felice padrone, altrettanti ne germogliavano dal fondo, quella del nostro Adone, più egli ce ne metteva, più sempre era vuota. Laonde, si sarebbe potuto paragonarla a que’ terreni sabbiosi che appaiono asciutti e screpolati mezz’ora dopo il temporale, a cagione del sole che, dardeggiando assiduo dall’alto, li va prosciugando di continuo. E il sole del Bello era la Violetta, quella Violetta che l’aveva stregato, per la quale si metteva sotto i piedi le gioie sacramentali, e torceva gli occhi dalle bellezze stantìe dell’amorosa consorte.

La Violetta era una di quelle donne che non si sa donde siano venute, nè dove vadano a finire; talvolta condotte al male dalla turpe miseria, più spesso dal lusinghevole esempio del lusso delle loro sorelle in Eva; fuorviate qualche volta da Alcibiadi spiantati, presso cui riempiono gl’intervalli (ahi troppo lunghi!) di più superbi amori; più spesso da logori Cresi, che esse consolano della freddezza o del tedio domestico; che poscia, avvezze al mercimonio, passano di mano in mano senza arrossire, come le cartelle del debito pubblico, e, ragguagliate da principio a cento, valgono ottanta da capo, oscillano insomma, oscillano sempre tra il più e il meno, tra il meno e il più, secondo i capricci del caso e la credulità della gente.

Costei ci aveva i suoi trenta suonati; però lasciamo argomentare a voi se non avesse oscillato. Aveva già dato [p. 299 modifica]il pretesto ad una separazione di coniugi; mandato due cassieri in Isvizzera ed un mercantuzzo in prigione per bancarotta fraudolenta; spennacchiati cinque o sei figli di famiglia, e messo un tutore al punto di non poter rendere i conti ai pupilli. Il resto si omette per brevità.

Vi basti sapere che da qualche tempo era scaduta un tantino, e aspettava la rivincita dal mondo ingrato, vivendo in un quartierino modesto, che si apriva a pochissimi; andando di rado per le vie, ma sempre contegnosa come una vedovella che non vuol sentir parlare di Cupido se non è accompagnato dal suo collega Imeneo: mostrandosi nei teatri a tutte le prime rappresentazioni, e non accettando, da quei pochissimi che abbiam detto, altro che fiori e cartocci di zuccherini; segno che li teneva a stecchetto. Nessuno sapeva dond’ella cavasse i danari, per menar quella vita; si facevano chiacchiere di molte, e senza dare nel segno. Era ciò che ella voleva; il resto sarebbe venuto da sè.

Questa cartella che s’industriava a crescer di prezzo, in un mondo il quale non cura che il valsente, al cospetto di uomini i quali stimano e ragguagliano tutto a lire e centesimi, virtù, vizio, dolore e piacere, era posseduta segretamente, o, per dir meglio, era lei che possedeva il Garasso. Egli, corto ingegno ed uomo volgare, non sarebbe mai venuto a capo d’indovinare i fini riposti di quella donna, che lo chiamava biondino e lo comandava a bacchetta. Essa lo accoglieva e lo rimandava quando le mettesse conto; gli teneva il broncio, e col broncio la porta chiusa, per intiere settimane; poi lo racconsolava con mezze carezze. Ed egli durava quella vita, metteva fuori quattrini, e gli pareva ancor grazia. Quella fragranza, anche viziata, di donna elegante, era una certa novità che egli non aveva sentito mai, egli stropicciatosi per tutta la sua gioventù con gente da taverna e da bisca. In quella casa si sentiva odor di giaggiolo; colà passeggiava su d’un tappeto di lana, in mezzo a pareti coperte di carta felpata, e sedeva su d’un canapè foderato di velluto, mezzo seta e mezzo cotone.

Qualche volta (e questo era avvenuto per l’appunto in carnevale) la Violetta non aveva reputato disdicevole alla sua dignità di indossare le umili vesti della popolana, e imbacuccata nel mèzzaro far le notturne scappate con lui, gongolante e pomposo, nelle festicciuole della bordaglia. Quella era una degnazione! Se la signora Momina l’avesse veduta, e avesse potuto sollevare la maschera di quella femmina che posava audacemente il suo braccio su quello del suo [p. 300 modifica]maritino, certo sarebbe morta d’apoplessia. Ma egli era così felice a sentirlo sotto il suo, quel braccio delicatamente tornito! Quella bocca mezzo nascosta dal pizzo della maschera, sapeva bere con tanta grazia lo sciampagna apocrifo delle trattorie! E quando aveva bevuto, sapeva dirgli tante tenerissime cose! In vino veritas, avevano sentenziato gli antichi, e gli antichi la sapevano lunga. Dunque essa lo amava, non amava altri che il suo biondino, essa, corteggiata, desiderata da tanti pezzi grossi, che le recavano inutilmente i fiori e i cartocci di zuccherini!

Da parecchi giorni la maliarda ci aveva delle voglie pazze. Il suo salottino non le andava più a’ versi, e bisognava metterlo a nuovo, sacrificando il vecchio velluto rosso ad un fresco ed elegantissimo tessuto verde a cordelloni. Abbiamo dimenticato di dirvi che la Violetta era bionda, epperò il verde le andava a capello.

Il biondino non diceva mica di no; ma in quel mese egli aveva già speso molto per lei, e la vena del giuoco, da cui cavava una parte de’ suoi guadagni, dava uno scarso zampillo, a cagione dell’estate che sparpagliava i merlotti fuori del nido. Ora non è a dire se i denari del gesuita venissero a taglio, e se per guadagnarli egli ci andasse di buone gambe.

Con questi pensieri in capo, come gli parve ora da ciò, rifece la sua strada, e giunto ai quattro canti di Portoria tirò da mancina per la piazza di Ponticello e pel borgo de’ Lanajuoli fino alla via dei Servi, dove andò ad infilare un buio portone, il quale era sormontato da una nicchia, con entro una Madonna di gesso, tinta di giallo, e onorata di una lanterna dalla pietà del vicinato. Un’altra lanterna splendeva nell’androne, tanto per lasciar leggere, sulla tela trasparente che le stava tesa sul maggior lato, la scritta seguente: «Teatro del Forte in gamba. - Questa sera si recita. - Entrata: dieci centesimi».

Il Bello si affrettò per una scala umidiccia e logora dal lungo uso, col passo spedito di un uomo assai pratico del luogo. Al primo pianerottolo una lucerna a riverbero, appiccicata al muro, rischiarava il cartellone dello spettacolo, che diceva così:


DON GIOVANNI BASTARDO D'AUSTRIA
con Barudda padre guardiano e Pippía converso
nel monastero di San Giusto.


Il teatro era al primo piano, e ci s’entrava sollevando una cortina unta e bisunta, proprio di rincontro alla lucerna [p. 301 modifica]e al cartellone che v’abbiam detto. Figuratevi un camerone, una stamberga dalle pareti ruvide, disuguali, il cui intonaco, nelle sue frequenti sfaldature, mostrava sei o sette mani di bianco datevi su da altrettante generazioni, con uno zelo degno di miglior causa. Lo zelo dell’ultimo padrone si chiariva altresì da certe strisce di carta tinte di terra rossa, che la pretendevano a simulacri di colonne, e da certi sgorbi d’ogni colore che volevano parer fregi, festoni, fioroni, ed altri consimili ornamenti. Dalle nere travature del soffitto pendeva una specie di lampadario spento, che sembrava piuttosto un arnese da pigliar mosche, e che si accendeva solo nelle grandi occasioni, vogliam dire allorquando la sala diventava una festa da ballo, e il palco del teatrino si tramutava in orchestra. La luce fioca che stenebrava il camerone, si spandeva per consueto dai fungosi lucignoli di due lumi a stella, le cui spere di latta pendevano dalle pareti, l’una di rincontro all’altra, e non venivano a capo di confondere i loro riverberi nel mezzo della sala.

Nè vanno dimenticati due cartellini, scritti a stampatello, l’uno de’ quali accennava alla vendita di birra e gassosa, e l’altro significava il divieto di certi servizi che avrebbero potuto danneggiare l’intonaco. I lettori discreti intenderanno la perifrasi. Il pavimento era di mattoni, che, stropicciati un tal poco, svolgevano in aria una finissima polvere rossigna; ma il Forte in gamba li risciacquava diligentemente ogni giorno, per non levare addirittura il respiro al colto pubblico che veniva ogni sera a sedersi e a far baccano sulle dieci panche zoppe e sconnesse della platea.

Il Forte in gamba, così detto per ironia, e contento del suo battesimo per modo che egli stesso s’era pigliato quel nome e messolo per insegna del suo teatro, era un uomo sui quarantacinque, o in quel torno, dal viso buffonescamente arcigno, dal mento sporgente, dai capegli rabbuffati che gli uscivano per tutti i versi da un vecchio berretto della guardia nazionale. E non dimentichiamo, ad onore del suo soprannome, che aveva le gambe fuori di sesta. Era egli il primo attore della sua compagnia di fantocci; suo figlio l’aiutante; sua moglie, od altro che fosse, faceva le parti di donna; in tre parlavano per dieci. Qualche volta l’uditorio strepitava; la ragazzaglia scontenta scagliava sul palcoscenico i turaccioli delle bottiglie stappate e le bucce delle melarance mangiate. Ma allora, bisognava vedere! Il dramma s’interrompeva; la prima donna restava lì, colle braccia in aria; il primo amoroso in ginocchio davanti a lei, ma collo [p. 302 modifica]smalto degli occhi verso gli spettatori; e da una cortina di fianco alla scena sbucava il berretto di guardia nazionale colla zazzera scompigliata dell’impresario, e una voce sgarbata tuonava all’assemblea.

- Furfanti! canaglia! Or ora vi accomodo io....

- Forte in gamba! Forte in gamba! - gridavano i ragazzi. - Badate che non vi si rompano gli esse. -

Gli esse erano le gambe del nostro primo attore, e non è a dire come gli cuocesse lo scherno.

- Ah, sì, pendagli da forca? Gli esse? Ora ve li do io in quel servizio, gli esse! E tu che ridi, e mi fai le fiche, figlio di.... aspetta a me!

- Non son io. Forte in gamba, non son io che ho tirato! - urlava il ragazzo mal capitato, a cui l’impresario, uscito dalla sua tana, ministrava una correzione esemplare. - È quell’altro.... il figlio della Rossa.

- Sì? il figlio della Rossa? Orbene, tu pagherai per lui e per te! -

E lì una gragnuola di busse, un baccano, un diavoleto. Il Forte in gamba, che era arrogante come tutti i segnati da Dio, l’avrebbe fatta a tu per tu con Sansone, e soleva dire che non aveva paura nemmeno di cento. Bisognava sentirlo, quando, invece di ragazzi, erano uomini fatti che gli davano la baia!

- Malandrini! tagliaborse! Andate in chiesa a fare il vostro mestiere, a guadagnarvi la protezione di Sant’Andrea, che vi farà rivedere il sole a scacchi. Zitto là, mascalzone! È questa la scuola che t’hanno data in Oneglia? Voglion ridere de’ fatti tuoi i mùggini della Siberia, quando ballerai la monferrina sul Molo vecchio! Tacete, voi, stradina, giubilata del Laberinto, buona a nulla, nemmeno a far la pappa al diavolo, nella cucina delle streghe! -

Queste gentilezze (delle quali i lettori non genovesi potranno intendere qualcosa, quando sappiano che a Sant’Andrea erano le carceri, sul Molo vecchio le forche, a Oneglia il penitenziario, e al Laberinto, sulle mura delle Grazie, l’infimo ritrovo di.... tutto quel che vorrete) queste gentilezze, diciamo, ed altre simiglianti, non avevano mai conseguenza di busse. Si rideva, si sghignazzava, si faceva rimando d’ingiurie, fino a tanto che il Forte in gamba, sentendosi stracco di lingua, non reputasse miglior partito rientrar nelle quinte co’ suoi fantocci e ripigliar lo spettacolo al punto in cui lo aveva lasciato.

E adesso che avete potuto congetturare, dai battibecchi dell’impresario coll’ [p. 303 modifica]udienza, che razza di gente bazzicasse in quella stamberga, non sarà male che diciamo alcun che delle rappresentazioni. Il teatro del Forte in gamba era celebre, come il suo padrone, in tutto il popoloso quartiere dei Servi, e in altri circostanti, che gli mandavano ogni sera il loro contingente di spettatori. Colà si recitavano drammi stupendi, come il Guerrin meschino, i Reali di Francia, la Bella Maghelona, Ginevra di Brabante, ossia il Trionfo della virtù, e commedie da sbellicarsi dalle risa, come i Tre gobbi, il Flauto magico, la Serva padrona, ed altre imitazioni di commedie e d’opere buffe dei maggiori teatri, ma sempre, nelle commedie e nei drammi, introducendo per amore o per forza i due personaggi di Barudda e Pippía, senza i quali il dramma non sarebbe stato un dramma, e la commedia non sarebbe stata una commedia, pei frequentatori del teatro. Il Forte in gamba s’era qualche volta arrisicato a calzare il coturno, cioè, intendiamoci, a calzarne i suoi fantocci, rappresentando qualche tragedia, come l’Oreste dell’Alfieri; ma in questo caso Oreste era Barudda, e Pilade, l’amato Pilade, assumeva il nome e le spoglie del collega Pippía.

Chi erano questi personaggi? Oramai s’è indovinato; erano maschere del teatro popolesco di Genova. Ma quello che molti non sapranno ancora, e che bisognerà dire, si è che queste erano, e sono pur tuttavia ignobili maschere, e da non potersi dicevolmente raccomandare ad ogni ragion di lettori.

Barudda, il più notevole dei due, parla continuamente furbesco, e vi accompagna sempre le parole, anzi le sillabe, con suoni sconvenevoli. Gli è un tipo di screanzato. Ha un viso tozzo, avvinato, bitorzoluto, e va quasi sempre in maniche di camicia. Pippía non è altro che un suo scolaro degnissimo; mingherlino, pallido (come il morticino dei vecchi fiorentini) col viso tirato a costa di spatola; va sulle pedate del sozio, quanto a morale, ma in genere non gli contende il privilegio dei suoni anzidetti; del resto parla furbescamente come lui, ma con un vizio di pronunzia che gli fa mettere la lettera Ve dappertutto. Egli, verbigrazia, vi dirà ova in cambio di ora, e per dirvi vengo vi dipanerà un vvvv....engo, da non finirla più.

E questi due personaggi senza legge nè fede, quantunque chiusi nella ristretta cerchia d’un quartiere di Genova, hanno tre o quattro stamberghe per sè, dove attirano quella udienza che abbiam detto, e tutti i curiosi più arrisicati di altre [p. 304 modifica]classi, i quali volendo guadagnarsi il titolo di «Ligure istrutto nella sua patria» non si peritano di portare in quei luoghi il loro cappello a staio, che non sempre ne esce sano. Il lettore conosce certamente di fama alcuni di questi teatri; quello del Forte in gamba, celebre ai tempi di cui raccontiamo, è chiuso da un pezzo, nè sappiamo il perchè. Habent sua fata Baruddae.

La rappresentazione del Don Giovanni, bastardo d’Austria era cominciata da un pezzo, quando il Bello entrò nello stanzone. Le prime panche erano stipate di gente: ma tra perchè tutti erano intenti allo spettacolo e non mostravano altro che la collottola, e perchè una fitta nube di polvere e di fumo ingombrava la sala, il nostro eroe non venne a capo di distinguere alcuno degli spettatori.

Egli era andato verso la parete, dove era vuoto il sommo d’una panca. Colà, messosi a cavalcioni, colle spalle al muro, aspettò che la nuvola si diradasse, o che i suoi occhi, avvezzati alla mezza luce della stamberga, gli facessero servizio migliore.

Una femmina, che stava seduta in un angolo, si alzò come lo vide e mosse alla volta di lui. Costei, che non doveva essere stata brutta alcuni anni addietro, ma che le consuetudini di una mala vita avevano sciupata anzi tempo, male in arnese, discinta, con le trecce rossigne scompigliate dagli atti maneschi della pubblica benevolenza, era la tavoleggiante del luogo, e veniva a chiedergli, con aria di vecchia conoscenza, se volesse da bere.

- Sì, - disse il Garasso, dandole un pizzicotto sulle guance avvizzite, - portami una mezza bottiglia di birra, ma che faccia spuma.

- Non dubitate. Bello, - rispose la femmina, schermendosi destramente dalle sue carezze, - è birra numero uno.

- Come il tuo primo amante, che Dio l’abbia in gloria?

- Che? lo fate già morto?

- E seppellito da vent’anni, Maddalena.

- Eh, lo so pur troppo, di non esser più bella, nè giovine! Ma un tempo c’è stato che non parlavate così neppur voi.

- Sì, - soggiunse il Bello, - quando non avevo ancor fatto gli occhi. Ma, a proposito d’occhi, dov’è il tuo innamorato, ch’io non lo vedo?

- Se li avete ora, cercatevelo! Io non l’ho mica in tasca. - Tra queste chiacchiere, Maddalena aveva presentato al Bello il vassoio di ottone, con suvvi il bicchiere e la mezza bottiglia [p. 305 modifica]di birra. Allo scoppio del turacciolo che saltò in aria, parecchi spettatori si volsero, ma tra quelle facce patibolari, il nostro eroe non riconobbe quella del Guercio che andava cercando.

- Che non ci fosse! - diss’egli tra sè. - Per solito egli non manca mai. Ho fatto male a dar la baia a Maddalena. -

Con questo pensiero in capo egli si volse alla femmina, porgendole il bicchiere con atto di popolesca cortesia.

- Maddalena, bevete.

- Non ho sete, io.

- Bevete, via, non mi tenete il broncio.

- Io non l’ho con nessuno.

- Oh sì, l’avete con me, con un vecchio amico....

- Tutti amici ad un modo, quando mi pagano.

- Orbene, io vi pagherò la mezza per intiera, purchè facciamo la pace. Suvvia, Maddalena; non vedete che ho fatto per celia? Ditemi, quando sentiremo le denunzie nella chiesa dei Servi? Il Guercio vi ha pure promesso di darvi presto l’anello!

- Oh, siete tutti d’una pasta, voi altri uomini! Così non avessi mai dato retta ad alcuno! Non avrei logorata la mia giovinezza, e sarei rispettata un pochino di più.

- Non pensate a queste sciocchezze, Maddalena; il Guercio vi vuol bene. L’altro giorno ancora me lo diceva; se faccio tanto di guadagnare certi quattrini, vo’ metter su casa e sposarmi la Rossa.

- Non li guadagnerà mai, - rispose Maddalena rabbonita, - e non metterà su casa, e non troverà mai il giorno nè l’ora di mantener le promesse.

- Voi vedete tutto nero; e se egli sapesse che voi ci avete così poca fede....

- Ohè, da poppa! - tuonò improvvisamente una voce stentorea dalle prime panche. - Fate silenzio! -

Una risata universale tenne dietro al comando. Maddalena confusa volse le spalle, e andò a rincantucciarsi sollecita. Il Bello stette fermo, come se non avessero detto a lui, e poichè non gli era dato saper nulla di ciò che voleva, si fece a guardare la scena.

L’uditorio quella sera non era contento del Forte in gamba, perchè già si era al secondo atto, e Barudda e Pippía non avevano ancora mostrato il grugno. Questi erano tiri non infrequenti dell’accorto impresario, il quale non amava spendere ogni sera i pregi singolari di quella artistica coppia, e di tanto in tanto metteva fuori certi drammi, nei quali [p. 306 modifica]Barudda e Pippía non avevano che una particina da nulla. Ma allora l’uditorio, desideroso più che mai di sentirli, faceva baccano, e per la sera seguente si era certi di averli in scena dal principio alla fine del dramma.

Il Bello, come dicemmo, si fece a guardare la scena, dove Filippo II, vestito con quello sfarzo che i lettori potranno argomentare, stava dichiarando l’amor suo alla prima donna. La quale, non volendo saperne di lui, e messa alle strette dalle troppo vivaci espressioni della sua regia benevolenza, gli diceva: - scostatevi, sire; io sono un’ebrea.

- Un’ebrea! - gridava il re, che odorava il Sant’Uffizio. E non potendo impallidire, poichè non glielo avrebbe consentito il colore ad olio, nè la sovrapposta vernice, balzava indietro come uomo che si avveda di aver posto il piede sulla coda d’un serpe.

Ma l’udienza, che non partecipava agli scrupoli nè alle paure del re, gli dette apertamente dell’asino.

- E di che diamine avete paura, signor re? - gridava uno degli spettatori.

- Ve’ come gli è sbollita, a quel re! - soggiungeva un altro.

- Ce ne vorrebbe uno che conosco io; e vedere se si tirerebbe indietro come lui! -

Questi ed altri consimili erano i discorsi; ma quinci e quindi uscivano, al ricapito del povero Filippo II, altri suoni, che Dante si sarebbe provato a descrivere con qualche vigorosa terzina, ma che noi non ardiremo neanche accennare in un periodo di umilissima prosa.

Il monarca di quello Stato su cui non tramontava mai il sole (come fu detto nello stile cortigiano del suo tempo) faceva intanto la più trista figura del mondo. Voleva parlare, e le sue parole erano soffocate dal tumulto popolare. Anche la prima donna era sgomentata, e agitava le braccia verso la platea, quasi chiedendo, in nome del rispetto dovuto al bel sesso, un po’ di silenzio. Ma sì, altro che silenzio; la burrasca ingrossava.

- Vada via il re, e venga Barudda!

- Sì, Barudda e Pippía!

- Signori, mi avete già rotte le scatole, - rispose dai cieli del palcoscenico la voce dell’impresario.

- Le romperemo a te. Forte in gamba, - ribattè dalle prime panche della platea un’altra voce, che fece rizzar la testa al Bello; - le romperemo a te, se non ci dai Barudda e Pippía. Quelli sono amici che si può starli a sentire, perchè [p. 307 modifica]non hanno tante fisime, come il tuo re, che il diavolo lo porti.

- Guercio, un po’ di pazienza! - disse il Forte in gamba, senza uscire dal suo nascondiglio.

- La pazienza l’hanno i frati!

- Bravo! e Barudda, che è frate nel monastero di San Giusto, ha la pazienza che manca a voi altri. Aspettate che la scena sia nel convento, e lo vedrete.

- Fatecelo vedere fin d’ora, - interruppe dal suo posto il Bello, - tanto da assicurarci che non l’avete messo in pegno per pagar le tasse.

- Sì, benissimo detto, fatecelo vedere! -

Come i lettori intenderanno, l’attenzione dei tumultuanti s’era un tratto rivolta al nuovo interlocutore. Era ciò ch’egli voleva, poichè in quella occasione gli occhi, o, per dire più veramente, l’occhio buono del Guercio si volse a lui e riconobbe l’amico. E l’amico gli fece un cenno che voleva dire: son qua e mi occorre parlarvi.

Frattanto, a chetare il tumulto comparve Barudda al proscenio, e senza riguardo alcuno per Filippo II e per la prima donna, salutò l’udienza con uno dei soliti suoni, per vibrare i quali egli non aveva neppur bisogno di farsi arco alle labbra col pollice e coll’indice tesi.

Quello era il quos ego di Nettuno ai venti scatenati, e bastò a ricomporre ogni cosa. Un applauso universale accolse il prediletto personaggio, che si affacciava alla ribalta in tonaca da frate; poi fu un silenzio, universale del pari, per starlo ad udire.

Noi non abbiamo la sciocca presunzione di metter qui la predica di Barudda in tutta la sua nativa energia; che a far tanto ci vorrebbero molte cose; verbigrazia la facoltà di scrivere in vernacolo, con tutti i traslati, con tutte le licenze del gergo, con tutte le esorbitanti libertà del trivio, e la potestà di condire ogni frase coi larghi partiti dell’armonia imitativa, che è propria alla maschera di Barudda. I lettori discreti si contentino di un pallido compendio.

- Mascalzoni! screanzati! feccia di furfanti! Non rispettate dunque più nulla? nemmeno il Sire, che si è scomodato pei vostri grugni? Badate a voi, buone voglie, pendagli da forca! Se la va nell’orecchio all’assessore, vi manda tutti in galera senza processo. Belle cose, bravissimi! Io me ne stavo tranquillo a dire il breviario....

- In cantina, - interruppe una voce dalla platea.

- Ah! mangiate la foglia, birbe matricolate? Orbene, sì, [p. 308 modifica]stavo a berne un nitro in cantina, e mi avete fatto perdere il filo del salmo.

- E Pippía? - domandò un altro.

- Pippía sta in cucina, presso i fornelli, a picchiarsi il petto e a pregare per la dannazione delle anime vostre. Il cuoco ha fatto una salsa nella quale vorrei cuocervi tutti, quanti siete, figli di galeotti, nipoti di impiccati, che mastro Nicola abbia presto a darvi la pedata anche a voi! Mi avete visto, ora? mi avete sentito? Andate in vostra malora; quando verrà il mio giro, mi vedrete da capo. Sire, Lei continui a dire le sue, e se fanno un’altra volta baccano, faccia calare il sipario. Addio, dunque, mascalzoni! Vi voglio bene. Amo meglio i morti che i vivi.

- Ovvva! - sclamò una voce dalle quinte, che fu tosto riconosciuto esser quella del socio Pippía.

Barudda diè fine alla predica con un altro e più romoroso de’ suoi amabili suoni, al quale uno spettatore rispose per tutti: «buon pro’ vi faccia!» e se ne andò pe’ fatti suoi.

Così ebbe fine l’episodio, o, come dicono in Parlamento, fu chiuso l’incidente. Intanto il Guercio aveva saltato le panche, ed era venuto di costa al Garasso, che lo aspettava.

- Oh, eccovi qui, buona lana! - disse il Bello.

- Presente! - rispose l’altro. - Volete che andiamo a bagnarci il becco?

- S’intende. Ho da parlarvi a lungo.

- E anch’io, perdinci!

- Che ve ne pare? - disse il Bello. - Andiamo dalla Piccina? Laggiù ci si sta come papi.

- No, non ho tempo da perdere. Andremo qui presso, a dare una scorsa all’Acquasola. Tanto, per me la è tutta strada. E poi, lassù non avremo cattivi vicini. Che cosa ne dite? -

Il Bello, sulle prime, aveva arricciato il naso a quella proposta del Guercio. Ma egli aveva anche posto la mano sulla tasca, come per tastare qualcosa che v’era dentro, e il buon esito della sua ispezione lo aveva raffidato; però rispose al compagno:

- Come vorrete, amicone. Andiamo all’Acquasola. - Sull’uscio della stamberga trovarono Maddalena, a cui il Guercio, passando rasente, diede con garbo popolesco un colpo di spalla.

- Socia, vi saluto.

- Ed io vi contraccambio; - rispose asciutto la femmina. [p. 309 modifica]

- Che cosa avete, stasera? - chiese il Guercio, fermandosi sui due piedi.

- Andate là, che siete un bell’arnese! - disse Maddalena. - Mi avevate promesso di venire a casa, e andate già coi compagni.

- Nena, vi ho promesso, ma l’uomo propone e il diavolo dispone. Ho una faccenda per le mani, che mi preme.... e il Bello vi dirà.....

- Sì, sì, il vostro compare bugiardo.... Voi altri uomini vi sapete spalleggiare come va. Una mano lava l’altra....

- E tuttedue lavano il viso; - soggiunse il Bello ridendo. - State di buon animo, Maddalena; quando avremo dato sesto alle cose nostre, il Bastiano vi sposerà, ed io verrò alle nozze. Bastiano era il nome del Guercio. Maddalena non rispose altrimenti che con una crollata di spalle, la quale voleva dire: «se dessi retta a voi altri, dovrei credere che adesso è giorno chiaro».

I due compari non istettero più oltre a disputare con lei, ed infilarono le scale. Noi terremo dietro a costoro, poichè da Barudda e Pippía abbiamo spremuto quel tanto che si poteva, e colla ganza del Guercio non abbiamo nulla a strigare.