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Il Quadriregio/Libro terzo/II

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II. Delle cagioni onde viene la superbia, e come ella è vizio principale

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
II. Delle cagioni onde viene la superbia, e come ella è vizio principale
Libro terzo - I Libro terzo - III
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CAPITOLO II

Delle cagioni onde viene la superbia, e come ella è vizio principale.

     Una giornata inverso l’oriente
salía la strada, ed al merizo è vòlta
poi anche una giornata similmente.
     Poi inver’ la parte, ove lo sol s’occolta,
5gira altrettanto a modo che le scale
si fan nel campanile alcuna volta;
     poi verso il corno anche altrettanto sale.
Cosí per sette giri insú si monta
al regno glorioso ed immortale.
     10Su questa via quando Palla fu gionta,
mostrò a me quant’ella insú sublima,
piú bella assai che qui ’l dir non racconta.
     E questa via, che noi salimmo in prima,
è stretta ed erta e quanto piú su viene,
15tanto è piú larga e piana inver’ la cima.
     In mezzo al gir, che ho detto, si contiene
la trista valle, ove sua signoria
co’ suoi giganti Satanasso tiene.
     Alquanti insú con noi venían per via;
20ma eran pochi rispetto agli assai
d’un’altra gente, che alla ’ngiú venía.
     Insú andando, il viso mio voltai,
e vidi insú levato il gran superbo
ed a seder, come prima, el trovai.
     25Ahi! quanto si mostrava a me acerbo
e quanto egli pareva d’ira pieno,
io nol potrei giammai spiegar con verbo.

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     Intorno intorno spargeva il veneno;
e i suoi irsuti peli eran serpenti,
30ch’a lui mordeano il volto, il collo e ’l seno.
     Ed ei le labbra si mordea co’ denti,
come fa alcun che se medesmo turba;
e con tre bocche soffiava tre venti,
     i quali andavan dietro a quella turba
35che ’ngiú venía, e percotea lor tempie,
come il vento Austro, quando il mar conturba.
     Quasi vessica che di vento s’empie,
cosí quel vento infiava le lor teste
e le lor viste dispettose ed empie.
     40Poich’eran fatte assai maggior che ceste,
sí come lucciol spargean le parole
e di quelle fregiavan le lor veste.
     E, come nuovo arnese mostrar sòle,
a farsi fama, il nuovo mercatante,
45quasi invitando chi comperar vòle;
     cosí mostravan certe merci sante,
e ’l vento, che dal mostro si deriva,
soffiando, le portava tutte quante.
     Io ammirando dissi:— O Palla, o diva,
50deh, dimmi, che dimostran queste cose?
Che io ’l sappia e che altrui lo scriva.
     — Questi tre venti— a me la dea rispose—
sonno il fomento e sonno la cagione,
perché le genti son superbiose.
     55Il primo vento è della nazione,
per la qual molti mostrano eccellenza
e voglion soprastar l’altre persone.
     Ma questa loda è sol della semenza,
onde è disceso, ché virtú s’apprezza
60appo li saggi e vera sapienza.
     L’altro vento, che soffia, è la ricchezza
la qual, se megliorasse il possessore
e seco avesse la vera fermezza,

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     meritarebbe loda ed anco onore;
65ma, perché le piú volte il buon fa rio,
enfia qui il capo e poco ha di valore.
     Se il terzo vento saper hai desio,
è quel che toglie il grazioso dono,
che ne dá la natura ed anche Dio.
     70Benché da sé sia prezioso e buono,
vostre virtudi se ne porta il vento,
quando da Dio conosciute non sono.
     — Da che di questo— dissi— m’hai contento,
dimmi, perché ’l superbo è tanto grande,
75e perché enfia e fregia il vestimento?
     — Il ragionar che fai, mentre tu ande
— rispose quella— per questa salita,
mi piace, ed io farò quel che domande.
     Superbia è grande, che è la prima ardita
80contra la mental legge e la divina,
e prima fa che non sia obbedita.
     A tutti gli altri vizi ella cammina
e va dinanti e fagli a Dio ribelli
e fa che la sua legge ognun declina:
     85però è maggior tra’ vizi falsi e felli.
Or ti dirò, e fa’ che tu ben odi,
perché si fregia e gonfia li cervelli.
     Superbia puote essere in tre modi,
sí come si dimostra dalla Musa,
90la qual hai letta e che tu tanto lodi.
     Prima è superbia nella mente inchiusa:
questa odia li maggior, questa presume
pomposa, ingrata ed obbedir recusa.
     Ed a’ difetti suoi non vede lume
95e pon mente agli altrui ed è perversa,
iniuriosa e con altier costume,
     con suoi equali, con li qual conversa,
discorde ed arrogante; e lor dispregia
ed onteggiando li minori avversa.

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     100L’altra è in bocca, quando ella si pregia,
vantando con parole e con iattanza,
che son le lucciol, delle qual si fregia.
     L’altra è ne’ fatti a dimostrar che avanza;
ed alcun questo mostra in santitade,
105come gl’ipocriti hanno per usanza.
     Nella scienza alcuno o in beltade
mostra eccellenza, e chi in adorno manto,
chi ne’ conviti o in altra vanitade.
     E questo vizio or è cresciuto tanto,
110che nella mensa e nel vestir non puote,
piú che ’l vassallo, il signor darsi vanto.
     Ora superbia fa le borse vòte
all’avarizia, e Venere e la gola,
ne’ servi, in ornamenti e nelle dote.
     115Cesar, del qual cotanta fama vola,
prodigo fu chiamato nel convito,
perché die’ piú ch’una vivanda sola.
     Ora la vanitá, non l’appetito,
e la superbia gran vivande chiede
120e ’l banco d’oro e d’argento fornito.
     Ed ha Mercurio, Orfeo e Ganimede,
che serva e suoni e che quell’altro mesca
innanti a Iove, mentre a mensa siede.
     O farisei, il mio dir non v’incresca,
125ché non vi tocca e non vi s’apparecchia
con sumpti e fasti il letto ed anche l’ésca.
     Il mondo, che nel vostro far si specchia,
per vostro esemplo lassa questo vizio,
sí che la lunga usanza non s’invecchia.
     130A questo diede esemplo il buon Fabrizio,
che moderava giá ’l triunfo a Roma,
e Scipion scusoe quasi ogni offizio.
     Ora messere e maestro si noma,
sol che tre fave egli abbia nel tamburo,
135che risuonin parole a soma a soma.—

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     Ben mille poi trovai nel cammin duro,
ch’avíen del viso infiata sí la pelle,
che ciascun occhio in lor facea oscuro.
     Io dissi ad uno:— I’ prego che favelle,
140e di’ chi fusti e perché tu non vedi
la terra e ’l cielo e l’altre cose belle.—
     Rispose:— Se del nome mi richiedi,
detto fui Alardo e fui ’n Parigi artista
e tanto a vanitá ivi mi diedi,
     145ch’io curai solo a parer buon sofista;
e cosí fen quest’altri, che stan meco:
però a ciascuno è qui tolta la vista,
     ché ’n sapienza ognun fu vano e cieco.—