Il Trentino italiano
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PROBLEMI ITALIANI
CESARE BATTISTI
DEPUTATO DI TRENTO
IL TRENTINO
ITALIANO
RAVÀ & C. EDITORI - MILANO
Se la storia e la geografia d’Italia fossero un po’ meno ignote a molti Italiani, la causa delle terre irredente non avrebbe oggi bisogno di apostoli e di propagandisti.
Purtroppo vi sono invece dei grandi giornali che nell’anno di grazia 1915 parlano di Trento e Trieste definendole terre d’oltr’Alpe; v’è ancora chi crede che fra Trento e Trieste ci sia tutt’al più un ponte come fra Buda e Pest; vi sono testi scolastici di geografia largamente diffusi in cui si sentenzia che solo gli abitanti delle classi colte nel Trentino si sono conservati per tradizione italiani...
Pazientino quindi i lettori se, volendo discorrere del Trentino, delle sue aspirazioni, dei suoi diritti, ci rifacciamo dalla storia e dalla geografia.
Trentino e Alto Adige.
Non basta ripetere il ritornello poetico che i confini d’Italia sono le Alpi e il mare; giova dare anche un’occhiata ad una carta geografica per constatare che dentro la cerchia delle Alpi ci sono terre dell’Italia fisica non incluse nell’Italia politica per una superficie di oltre ventimila chilometri quadrati; terre italiane non solo geograficamente perchè mandano le loro acque nell’Adriatico, perchè aperte alle brezze italiche e coperte di vegetazione meridionale, ma italiane di lingua, di storia, di tradizioni, di affetti.
Uno dei più notevoli fra questi territori è quello che si incunea fra la Lombardia e il Veneto ed è costituito dal bacino alpestre dell’Adige e dalle testate di altri importanti fiumi: il Chiese, il Sarca, il Brenta.
Questo territorio poggia sul grande arco alpino nel punto centrale, ove la depressione del Brennero — ianua barbarorum — apre alle genti d’oltr’Alpe il più rapido e uno dei più importanti varchi verso l’Italia.
Poderose catene lo recingono ai fianchi. A occidente sono le giogaie che dall’Oetz si riallacciano, mediante il passo di Resca, ai piloni del Cevedale e dell’Adamello; a oriente quelle che dal Venediger si abbassano al valico di Toblacco per rialzarsi al massiccio della Marmolada, per poi scindersi e l’una e l’altra in ulteriori diramazioni e più modesti contrafforti che si spingono a sud fino alla pianura del Po.
Questo territorio è diviso nettamente in due sezioni, l’una settentrionale, l’altra meridionale, da due giogaie secondarie, che lo solcano a mezzo, dipartentesi l’una dall’Adamello, l’altra dalla Marmolada per toccarsi in Val d’Adige presso Salorno.
Di queste sezioni la superiore ha la forma di un quadrilatero, la inferiore di un poligono. Quello è il territorio dell’Alto Adige, in politica detto Tirolo meridionale; questo risponde all’attuale Trentino.
Entro il quadrilatero vivono oggi duecentomila abitanti dei quali centosessantamila tedeschi e quarantamila italiani; nel poligono vi è una popolazione di trecentosettantasettemila abitanti, italiani tutti, tolta quella percentuale minima (4%; in cifra assoluta 13.477 tedeschi e 2624 di altre nazionalità), che è data quasi esclusivamente da stranieri artificialmente importati (impiegati, soldati, ecc.) e che è inferiore al numero dei tedeschi e degli stranieri di Milano o di qualsiasi città commerciale d’Italia.
Scarsi ed elevati sono i passi che dividono l’Alto Adige dalle regioni limitrofe della Svizzera, del Tirolo, della Carinzia; una sola — quella di Salorno — a nord di Trento è l’apertura veramente notevole che dal Trentino mette nell’Alto Adige; mentre i lati del Trentino che si insinuano tra Lombardia e Veneto sono traversati da otto grandi arterie stradali, da due linee ferroviarie, una lacuale, da cinque rotabili secondarie e da una ventina di mulattiere e sentieri.
Storia di Trento e sua nobile italianità. |
La storia di queste regioni alpine risponde in modo mirabile alla loro geografia.
I romani accumularono in esse i loro presidii, convinti della necessità di volgere tutta la regione alpina a guardia della civiltà contro la barbarie teutonica.
Tridentum, splendidum municipium, era il cuore, il centro di irradiazione latina non solo per l’attuale territorio trentino, ma per tutto l’Alto Adige, che fu in breve completamente romanizzato.
Sfortunate furono le irruzioni barbariche finchè furono in potere di Roma le Alpes tridentinae. Ma allorchè declinò l’impero romano, gli elementi romanizzati furono respinti dal quadrilatero verso l’esagono, dall’Alto Adige cioè verso il Trentino.
L’opera snazionalizzatrice fu però così lenta e incompleta che nessuno dei governi succedutisi — Ostrogoti, Bizantini, Longobardi, Franchi e gli stessi imperatori germanici — osò mai staccare il territorio di Bolzano da quello trentino. In questo l’elemento italico non fu mai intaccato o oscurato; nè mai scomparve del tutto nella zona dell’Alto Adige, fino alla Val Venosta e fino alla Chiusa di Bressanone, ove vivono tutt’ora i quaranta mila italiani sovraccennati e dove gli italiani furono, per non breve tempo, gli elementi prevalenti.
La situazione del Trentino durante le invasioni barbariche può esser stata non molto differente da quella delle altre regioni settentrionali d’Italia; certo fu di molto peggiore nei secoli successivi, allorchè gli imperatori del sacro romano impero, onde aver libero accesso alla penisola, ebbero costante mira di affidare il territorio trentino — traverso il quale compirono ben settantadue spedizioni! — a principi-vescovi di lor fiducia.
All’azione degli imperatori si aggiungeva quella dei conti del Tirolo, che, insediatisi nella Val Venosta, fatti potenti per la parentela prima, per la fusione poi con la casa imperiale, servendosi di numerosi castellani, attratti a sè e con la forza e con l’astuzia, ingaggiarono una lotta terribile contro l’italianità della regione.
Malgrado questo prevalse l’azione del libero comune foggiato sui comuni dell’Alta Italia e con la coltura e con l’arte si diffuse e mantenne il pensiero italico.
Trento seppe serbare il nome, il confine, la lingua d’Italia; influì decisamente sulla civiltà della superiore regione atesina e fu barriera all’elemento germanico per la sottostante regione italica.
Opera questa degli abitatori, nutriti di vivida romanità, ma potentemente aiutati dalla duplice diga di monti che proteggono Trento dal Nord e costituiscono due vere anticamere, due vestiboli all’ingresso d’Italia.
Così che, quando Napoleone volle nel 1809 segnare come estremo confine del Regno d’Italia il confine linguistico, potè, senza alcuna coercizione nazionale, includere nel Dipartimento dell’Alto Adige, oltre al Trentino, il territorio di Bolzano fino alla Chiusa di Bressanone, mentre meditava di trasportarlo in tempi più propizi al Brennero stesso.
Il Trentino, rimasto così, per otto secoli, autonomo sotto il dominio di principi-vescovi, da tutti ambito, da nessuno protetto, taglieggiato di continuo da eserciti amici e nemici, tornava nel grembo della famiglia italiana. Ma fu breve ritorno. La storia recentissima è nota. Tramontato Napoleone, il Trentino ebbe contemporaneamente sul collo tre padroni: il Tirolo, l’Austria e la Confederazione germanica. Contro il triplice giogo (che purtroppo permane ancor oggi, perchè l’azione liberamente concessa dall’Austria alle associazioni pantedesche di Germania vale più del vincolo, ora cessato, della Confederazione stessa) il Trentino lottò fieramente, documentando coi sacrifici e col sangue la propria incorruttibile italicità: che ebbe in premio la pubblica lettera di Garibaldi attestante la riconoscenza ai trentini caduti nelle battaglie del Risorgimento1, e che aveva già avuto nel secoli anteriori due altre documentazioni che sono come i titoli nobiliari del popolo trentino: la Tavola Clesiana, l’editto, scolpito in bronzo, con cui Claudio imperatore confermava la cittadinanza agli abitanti delle valli trentine, e il patto di Waldo con cui le popolazioni del Perginese facevano nel 1166 patto di difesa e di offesa comune con Vicenza.
Se la missione storica di cui maggiormente può gloriarsi il Trentino fu quella di esser stato per secoli la diga all’irrompente invasione teutonica, esso fu nello stesso tempo fattore non ultimo della coltura e civiltà italica. Elaborò un suo volgare di perfetta impronta latina e con proprio valore organico. Alle lettere italiane e all’arte dette in tutti i secoli forti intelligenze: dallo scultore Alessandro Vittoria a Francesco Guardi e Giovanni Segantini pittori, dal filosofo Acconcio ad Antonio Rosmini, da Andrea Maffei a Giovanni Prati, poeta del Risorgimento. Non vi fu movimento letterario o scientifico nè scuola d’arte italiana cui il Trentino non abbia dato qualche rappresentante. Per dir solo degli ultimi centocinquanta anni, l’enciclopedia fu degnamente rappresentata da Carl’Antonio Pilati, le scienze naturali sul finire del XVIII secolo ebbero cultori valorosi nei Fontana, nello Scopoli, nel Borsieri, l’erudizione storica nel Tartarotti, il classicismo trovò un banditore in Clementino Vannetti; l’arte drammatica in Gustavo Modena, il romanticismo in una schiera di poeti minori attorno al Prati, il Gazzoletti, la Lutti. Gli atenei d’Italia ebbero negli ultimi decenni decoro dal Canestrini, dal Malfatti, dall’Inama, dal Sighele, mentre l’arte dei suoni e dei colori hanno oggi due superbi rappresentanti in Bartolomeo Bezzi e in Riccardo Zandonai.
Italicamente si svolse sempre la vita dei comuni. Trento e Rovereto chiamavano dalle altre regioni d’Italia i lor sindaci, e fu sindaco di Trento Gian Domenico Romagnosi.
Italica è l’arte di cui si adornano tutte le città ed anche i più minuscoli borghi.
Insigni monumenti italici sono non solo il duomo e i molti palazzi e il castello di Trento, dipinto dai più celebri artisti del cinquecento, e le torri e i municipi di Rovereto e di Riva e i vetusti castelli e le chiesette trecentesche e cinquecentesche del Trentino e le danze macabre che adornano i cimiteri dell’alta montagna, ma anche le chiese e i palazzi che si incontrano nell’Alto Adige, a Bolzano e nei sobborghi contermini, ove le stradine a portici arieggiano quelle delle città venete.
Tutto è italico: il cielo, il costume, la tradizione, la lingua, gli affetti. Italica è anche la delinquenza, in vivissimo contrasto con quella delle regioni tedesche e fornita delle caratteristiche passionali della delinquenza italiana.
La questione trentina e la nazione italiana. |
Tutte queste cose si sapevano assai bene in Italia durante gli anni del Risorgimento; si vennero dimenticando poi.
L’italianità del Trentino fu riconosciuta da Re Vittorio Emanuele II, che accolse sempre favorevolmente le deputazioni dei trentini e dava compimento alle promesse con l’invio dell’esercito regio che nel 1866, mentre Garibaldi era alle porte di Riva, giungeva a pochi chilometri da Trento.
L’italianità del Trentino ebbe posteriormente nuova documentazione ufficiale durante le trattative di pace per opera del Conte Nigra e di Emilio Visconti Venosta e in trattattive ulteriori tentate dal governo nel 1868 e 69.
Nel 1878 la questione trentina strappava qualche parola di consenso al Ministro Cairoli, ma non trovava un difensore nè convinto nè abile nel generale Curti, rappresentante d’Italia a Berlino. Negli anni posteriori il governo di Roma non spese più, che si sappia, una parola forte. Venne l’epoca dell’antirredentismo governativo. La causa di Trento e Trieste rimase solo affidata ai partiti popolari. Ebbe l’aiuto di Garibaldi, dell’Avezzana, di Imbriani e rifulse nel martirio di Oberdan. Poi venne la Triplice. Anche l’Italia popolare cominciò a dimenticarci. L’Italia fu l’umile ancella di Berlino e di Vienna. Mancò agli irredenti ogni aiuto. Mancò in breve la ricordanza. A tener vivo l’irredentismo pensò sola l’Austria!
Gli italiani di Trieste e di Trento accanto al programma massimo delle loro rivendicazioni ne formularono uno minimo che l’Austria avrebbe potuto accogliere. Chiesero il rispetto alla lingua italiana, il pareggiamento effettivo alle altre nazionalità, poche cattedre universitarie e l’autonomia del Trentino. L’Austria, accettando, avrebbe forse formato dei cittadini pacifici e soddisfatti di un governo straniero, come i nizzardi o i ticinesi.
L’Austria negò tutto. Escogitò invece nuove torture, nuove persecuzioni, e la sonnolenta Italia dovette ridestarsi all’udire i colpi del bastone tedesco, lacerante le carni dei fratelli italiani. Ma furono sobbalzi, furono sussulti momentanei. Da Roma si imponeva alla stampa, alla grande stampa di sopprimere ogni notizia d’oltre confine. La Triplice si rinnovava regolarmente. Passavano inavvertiti al pubblico italiano i rivolgimenti interni della monarchia, preannuncianti non lontane trasformazioni. La annessione austriaca della Bosnia Erzegovina, senza compensi per l’Italia, suscitava la nobile protesta di Alessandro Fortis, che era però dimenticata dopo ventiquattro ore. Solo negli ultimissimi anni alcuni giornalisti (le dita di una mano sono di troppe per contarli) dopo aver sentito per la centesima volta che gli studenti italiani erano bastonati a sangue, e i regnicoli sfrattati da Trieste e i cittadini di Fiume accusati di delitti commessi dalla polizia ungherese, e i trentini ferocemente burlati con la eterna promessa dell’autonomia, pensarono a esplorare le terre irredente, divenute per l’Italia terre ignote, come quelle che i cartografi antichi indicavano con la scritta: hic sunt leones, implicitamente affermando che eran terre nelle quali bisognava avventurarsi solo con grande circospezione.
Ragioni che impongono la liberazione del Trentino: |
L’annuncio della guerra dell’Austria alla Serbia, la conflagrazione terribile scatenatasi in tutta Europa hanno così trovato l’Italia moralmente (non altrettanto, per fortuna, deve dirsi sotto l’aspetto militare) impreparata, disorientata di fronte al problema di Trento e Trieste. Vi sono generazioni intere che non solo non hanno respirato un’atmosfera di simpatia verso i fratelli irredenti, non solo sono state prevalentemente dirette all’osservazione di problemi affatto divergenti da quelli nazionali, ma sono state private di quelle nozioni elementari di storia e geografia d’Italia che, per ragioni di cultura, all’infuori delle tendenze politiche, dovrebbero essere patrimonio di ogni italiano.
Conosciuto il Trentino quale fu, quale è e quale apparve agli uomini del Risorgimento, giova porsi la domanda: Esistono ancora o no le ragioni per cui in Italia e governo e popolo concordemente, unanimemente affermarono fino al 1866 la necessità assoluta della annessione del Trentino allo stato italiano?
O sono successi avvenimenti per cui oggi il problema di Trento, il problema delle provincie irredente in genere, non meriti più l’attenzione degli italiani?
È facile dimostrare che nè per l’Italia nè pel Trentino il problema irredentista può dirsi sorpassato.
I dieci lustri trascorsi hanno cementato, non diminuito, le ragioni per cui si impone il completamento dell’unità nazionale. Esaminiamole, prima nei riguardi generali d’Italia, poi del Trentino.
La ragione suprema è quella del sangue; è la ragione nazionale. Allorchè il Piemonte si mise alla testa del risorgimento d’Italia non partì dal criterio che nazionalmente una provincia fosse preferibile all’altra. Lo stesso ideale si affermò tanto per la Lombardia come per Trieste, pel Trentino e pel Veneto come per la Sicilia. Tutti i figli d’Italia dovean esser redenti. Erano ugualmente nemici d’Italia il governo borbonico, quello degli Absburgo e quello dei papi. Avvenimenti luttuosi, dolorosi impedirono il compimento dell’unità. Dal dominio absburghese si poterono strappare solo alcune provincie. Altre rimasero ancora sotto il duplice rostro. Quegli avvenimenti dolorosi furono deprecati come una calamità della patria, come un’onta che si dovea cancellare per l’onore delle armi, per la dignità nazionale. Le cause stesse per cui l’unità rimase incompiuta devono rappresentare un nuovo stimolo a riprenderne l’opera.
L’Italia ha sperimentato in sè gli immensi vantaggi del nuovo assetto politico. È essa stessa un esempio vivente del beneficio morale, civile, economico che ogni nucleo umano ritrae quando riesce a evolversi secondo le proprie leggi e i propri bisogni intimi, secondo le necessità biologiche del proprio genio creativo all’infuori di ogni artificio e coercizione altrui.
Di fronte a questa evidente realtà è mai possibile che gli italiani non vedano come i benefici di un’unità completa saranno per tutti maggiori di quelli conseguiti con un’unità parziale? Maggiori per lo sviluppo, diremo così, interno dello stato, maggiori per la sua influenza all’estero. E gli Italiani, che con l’unione in unico stato hanno visto la patria loro avviata a sempre più alti destini, vorranno contendere questi benefici ai fratelli ancora irredenti?
Chi oggi è tiepido per la causa dei fratelli irredenti — quando lo sia in buona fede — è tiepido perchè spera che si possa ottenere Trento e Trieste con la diplomazia; o perchè ritiene che l’Italia possa accontentarsi dello statu quo facendo tacere ogni trasporto di fraterno affetto; o infine perchè spera che i problemi nazionali non abbiano bisogno di una soluzione a sè, ma possano risolversi in blocco assieme ai più vasti problemi sociali umanitari.
Lo sperare che l’Austria ceda graziosamente all’Italia Trento e Trieste, o sia pure il solo Trentino, è come credere che una tradizione secolare statale, dinastica, religiosa possa da un giorno all’altro spontaneamente mutarsi, anzi rovesciarsi. Chi conosce l’Austria e sa l’altezzosità delle esplicite dichiarazioni che a tale riguardo fecero più volte Francesco Giuseppe e l’assassinato arciduca, comprende che questa è la più folle delle speranze.
Il credere che pei begli occhi della neutralità italiana, le nazioni belligeranti vogliano dare all’Italia il compenso delle terre irredente è altrettanto ingenuo. Nel momento in cui, per conseguire o conservare l’integrità nazionale, versano torrenti di sangue e il popolo belga e il serbo e il francese, sarebbe semplicemente ignobile il presentarsi al congresso europeo a chieder compensi in veste di sensali. Non può neppur aver diritto di parola chi ha assistito indifferente al macello dei più deboli.
Chi ritiene che l’Italia possa adattarsi allo statu quo, ignora non solo che la vil pace di oggi può significare la guerra offensiva che Austria e Germania ci intimerebbero domani (e di ciò diremo più sotto); ma dimentica che l’irredentismo, riaccesosi ora nelle terre irredente e rifiorito, se Dio vuole, in tutta la penisola, non può esser destinato a scomparire se non col trionfo. Sarebbe domani l’alleato di tutti gli altri irredentismi di Europa che non avessero trovato (e di ciò sarebbe colpevole anche l’Italia!) l’agognata soluzione; ma anche da solo sarebbe un elemento dissolvitore, un elemento perturbatore che porterebbe o a gravi conflitti interni o a urti esterni in momenti probabilmente intempestivi con grave danno per l’Italia e con la deprecazione dell’Europa civile che guarderebbe con orrore il riaffacciarsi della guerra.
Chi infine — ed è questa la tesi di molti socialisti — crede ormai sorpassato il periodo delle rivendicazioni nazionali e addita l’internazionalismo come la panacea di tutti i mali, merita compassione come chi nega la luce perchè è cieco.
Non solo l’internazionalismo ha in questo tragico momento mostrato la sua immaturità col non aver saputo impedire la guerra europea; ma aveva già antecedentemente rivelato la sua impotenza perchè nello stato internazionale per eccellenza, l’Austria, non era riuscito a formulare, pur disponendo di poderose organizzazioni e di un quinto dei mandati parlamentari, un programma nazionale accettabile e realizzabile per la tutela dei diritti delle singole nazionalità.
Del resto chi ha letto cum grano salis i sacri testi del socialismo, ha diritto di ripetere, finchè questi testi non saranno rinnegati e distrutti, che ogni opposizione al costituirsi delle unità nazionali equivale ad opposizione e lotta al socialismo stesso, giacchè le unità nazionali sono il presupposto logico e necessario dello sviluppo della civiltà borghese-capitalistica e per ciò del socialismo stesso. Come la famiglia, la tribù, il comune furono il naturale avviamento all’organizzazione della regione e quindi della nazione, così le nazioni rappresentano un’affermazione di solidarietà già vastissima e il passo necessario verso l’unificazione dell’umanità.
Ci è lecito quindi concludere che le ragioni nazionali, che militavano per l’unità della nazione cinquant’anni or sono, resistono tutt’oggi; e a maggior ragione si impongono ora che l’effettuazione del programma nazionale italiano coincide con l’interesse della civiltà minacciata dall’egemonia militare teutonica e con la difesa delle patrie — Polonia, Serbia, Rumenia — che tendono ora a costituirsi e completarsi.
Ragioni militari e ragioni economiche. |
Accanto alle supreme ragioni nazionali sussistono oggi intatte, come nel 1866, quelle di ordine militare ed economico.
Il Menabrea, plenipotenziario del Re d’Italia a Vienna durante i negoziati di pace svoltisi nell’ottobre del 1866, così scriveva al Ministro degli affari esteri a Firenze: «Gettando uno sguardo su una carta delle provincie venete si potrà convincersi che i confini attuali non saprebbero affatto rispondere alle esigenze di una buona frontiera. Su una gran parte del suo sviluppo il confine non segue le linee naturali come le cime dei monti e i corsi d’acqua. Le teste di parecchie piccole vallate che si aprono verso l’Italia e che hanno con l’Italia i loro rapporti naturali e necessari, si trovano al contrario unite a paesi dell’altro versante delle Alpi coi quali, il più spesso, esse non hanno comunicazione diretta. Io devo particolarmente citare tutta la frontiera che circonda questa parte d’Italia rimasta austriaca e che in Austria si designa impropriamente sotto il nome di Tirolo italiano, ma che è realmente nella sua più gran parte formata dall’antico principato di Trento e comprende inoltre il Comune di Rovereto e la Valsugana».
Analogo parere aveva espresso nel 1860 il generale Govone, incaricato dal Conte di Cavour di scrivere due memoriali destinati al governo inglese per dimostrare la necessità del possesso de Veneto per l’Italia. Il Govone rilevava come il Trentino e il Tirolo del Sud (Alto Adige) in mano all’Austria costituissero sempre un grande pericolo per il giovane Regno e distruggessero fra Italia ed Austria ogni equilibrio di forze in caso di guerra, quand’anche il Veneto fosse redento.
Non consta che alcuno scrittore italiano di cose militari abbia espresso in seguito parere diverso. L’Austria, dominando dalla piazza forte di Trento e dai posti avanzati sul confine tutte le valli che sboccano nei piani di Lombardia e del Veneto, ha completamente in mercè l’Italia, per quanto questa profonda milioni nelle fortificazioni di frontiera. L’elemento tedesco — traducendo in atto l’antico concetto germanico ed imperiale — ha ognora in suo potere le chiavi per un’avanzata verso il mezzogiorno.
Il pericolo sarà eliminato solo quando il confine politico arrivi ad includere tutti indistintamente gli abitanti italiani che sono sul versante meridionale delle Alpi, e tanto più il nuovo confine sarà militarmente sicuro quanto più si spingerà al nord. Duplice ne sarà il vantaggio: la linea di frontiera godrà anzitutto del naturale baluardo formato da alte catene alpine con pochi valichi; secondariamente sarà più breve dell’attuale di quasi due terzi. Oggi l’Austria ha verso l’Italia, nella regione trentina, un confine di 316 chilometri. Qualsiasi linea possa esser scelta al nord di Trento non supererà i 150 chilometri. Evidenti appaion quindi la maggior facilità e il minor dispendio nella difesa. Nè chi abbia presente la sfrontatezza con cui si videro a principio e durante la guerra violati i patti internazionali dagli imperi centrali e le tendenze aggressive dell’imperialismo tedesco potrà disconoscere la necessità di un confine ben guarnito e sicuro.
Impellenti e importanti sono pure le ragioni economiche. L’Italia ha bisogno di tutto il suo mare, come ha bisogno di possedere tutta la catena orientale e tutto il versante meridionale delle Alpi.
Nell’economia della penisola le Alpi rappresentano un indispensabile elemento di integrazione. Costituiscono esse coi loro ghiacciai e nevai, coi laghi alpini e prealpini, il serbatoio distributore delle acque; coi loro pascoli e col manto selvoso forniscono ricchezza e contribuiscono a moderare i climi; nelle loro viscere racchiudono tesori di metalli e di marmi; nei loro recessi offrono asili di pace e di frescura.
Come nelle zone prealpine una coltura razionale e integrale di fondi esige che lo stesso proprietario abbia pascoli sull’Alpe e campi e prati nelle valli; ed ovunque chi ha un podere ha interesse di essere in possesso del bosco attiguo o della sorgente che scaturisce in un campo vicino; — così, nella più vasta economia di tutta la penisola, occorre che sotto un solo governo sia tutta l’Alpe e tutta la pianura cui essa fa corona, mentre all’Italia mancano oggi brani d’alpe lombarda, atesina, veneta e manca gran parte dei piani friulani e tutta la marina di Trieste. Non parlava senza fondamento (ed il suo ragionamento è applicabile a molti altri campi) quell’idrologo che, a proposito delle inondazioni, affermava esser possibile la sistemazione dei corsi d’acqua alpini solo al patto che un unico magistrato delle acque abbia a presiedere al governo dei singoli bacini fluviali, dell’Adige, del Piave, del Brenta, ecc.
La storia ricorda inoltre come fino verso il 1860 il Trentino fosse una provincia fiorentissima per lo sviluppo industriale e per molte altre risorse naturali. Lo era per i benefici che ritraeva dall’unione col Veneto e col Lombardo. Col 1860 e col 1866 il confine politico fu spostato. Il Trentino non ebbe più come sfogo, come mercato per la sua produzione, la pianura padana e vide una alla volta intisichire, estinguersi tutte le sue industrie: i setifici, le ferriere, le fabbriche di vetro, ecc. Perfino la pastorizia, che cresceva prosperosa sfruttando nella stagione mite i pascoli del Trentino e inviando le mandre a svernare nella Lombardia, fu ridotta a magre proporzioni dai decreti del governo austriaco che non tollerò più questo scambio fra l’alpe e il piano e impedì agli armenti, con pretesti sanitari prima, con leggi militari poi, il passaggio del confine. Quanti e quanti pastori dovettero rassegnarsi ad alienare con immense perdite le loro greggie! Quanti lavoratori che avevano abbondante occupazione nel Trentino non dovettero abituarsi a batter le vie dell’Oceano!
I danni furono notevoli e al di là e al di qua del confine politico. Il Trentino, tagliato fuori dalla politica austriaca da ogni rapporto col resto d’Italia (quando non basta la politica doganale v’è la politica... di polizia che vieta l’entrata nel paese ai gitanti che non sieno tedeschi, come vieta l’esportazione di energia elettrica nel Regno) fu condannato alla miseria, all’anemia. Miseria ed anemia destinate a sparire con reciproco progresso e sviluppo quando l’Italia abbia conseguito il suo naturale confine.
Riassumendo: persistono in Italia — non spiaccia l’insistente nostra ripetizione — ancor oggi tutte le ragioni di carattere ideale, politico, militare ed economico per cui l’annessione di tutte le terre irredente era stata accolta col consenso del popolo nel programma di Re Vittorio Emanuele II.
Il Trentino quale è oggi. Le |
E nel Trentino?
Non si può dire oggi: il Trentino nazionalmente è quello che era negli anni del Risorgimento. No, oggi il Trentino è infinitamente migliore.
Il nascente regno non poteva negargli allora la mano redentrice non foss’altro perchè aveva dato alle prime congiure italiche il Modena, all’apostolato nazionale il Prati e alla difesa di Roma repubblicana un’intera legione, alle carceri di Mantova e Kufstein fiore di patriotti, ai Cacciatori delle Alpi il Bronzetti, ai Mille di Marsala i moschettieri e agli eserciti liberatori delle Marche e dell’Umbria e alle legioni garibaldine del 66 centinaia di soldati.
E anche dopo il 1866 aveva continuato a dare alla patria tributo di sangue. A Villa Glori, a Monterotondo, a Mentana, a Porta Pia si batteron da valorosi molti figli di Trento.
Venne il 1878, l’anno fatale del congresso di Berlino, che toglieva al Trentino ogni speranza e dava all’Austria baldanza per infierire su di esso con maggiore veemenza. Trento e il Trentino iniziarono allora una lotta ostinata, paziente per difendersi da mille e mille sopraffazioni, per impedire che si rubasse loro la dolce lingua di Dante, che si distruggesse nel cuore del popolo l’innata fierezza montanara, l’amore alla indipendenza, alla libertà, alla madre Italia. Da questa lotta che sostenne da solo (invano attese aiuto dai fratelli del Regno!) esso uscì vincitore, ritemprato, ringagliardito, più italiano che mai!
V’erano nel 1866 nel Trentino, come vi erano nel Lombardo e nel Veneto, fra le masse contadinesche molti elementi estranei al sentimento nazionale, per loro natura conservatori, inclini a cieca ubbidienza al potere governativo, sobillati sopratutto da emissari austriaci, da preti e da spie. Ma si accrebbe la coltura (il Trentino — e questo è merito tutto suo, non del governo — ha oggi solo il 3,3 per cento di analfabeti nella popolazione superiore ai dieci anni); l’emigrazione, specie quella transoceanica, risvegliò le plebi agricole; i progressi economici e le conquiste militari dell’Italia, descritta dai poliziotti austriaci come una terra di pezzenti curva sotto l’onta di Lissa, ravvivarono in molti le antiche speranze e di nuove ne infusero nei dubbiosi e negli scettici; talchè a poco a poco la gramigna dell’austriacantismo e dell’anti-italianismo andò estirpandosi.
Ora non vi è nel Trentino nessun partito che non sia nazionale.
Nazionali sono i liberali che furono i fondatori più attivi delle istituzioni di cultura e di difesa nazionale, come la Lega Nazionale e dei circoli sportivi con indirizzo patriottico.
Nazionali i socialisti che non solo si associarono alla lotta per l’autonomia del Trentino e per l’università italiana, ma in questi momenti assunsero assai spesso parte direttiva, cercando di popolarizzarli e di impedire che l’agitazione rimanesse nella ristretta cerchia rappresentata dai liberali. Giovi qui ricordare che fu un deputato socialista di Trento, Augusto Avancini, che ad una grossa comitiva di tedeschi, scesa nel Trentino con scopo dimostrativo per organizzare l’azione pangermanista, intimava di ritornare, preludendo alla clamorosa cacciata di quegli intrusi.
Nazionali sono i diecimila contadini che da poco hanno costituito il partito leghista, un partito radicale rurale, per ribellarsi all’influenza del clericalismo.
Nazionali sono in buona parte anche le masse contadine dirette dai clericali. Alla loro testa, è verissimo, commisti ad uomini di fede italiana, come il deputato Conci, vi sono non pochi altri attacchi alla greppia austriaca; ma questi signori, per non perder terreno devono, da una decina di anni, far giorno per giorno delle concessioni. Il loro giornale ha dovuto abbandonare il nome di Voce Cattolica per assumere quello nazionale di Trentino; le loro associazioni hanno smessa l’usanza di inviar omaggi all’imperatore e si qualificano come nazionali; nell’opera di difesa linguistica, contro l’introduzione di scuole tedesche elementari, lo stesso clero ha preso posizione di battaglia. Per ultimo in non poche vertenze s’è constatata la disapprovazione della massa del partito verso quei capi che cedettero al governo. Dimostrativo per l’indirizzo della massa clericale è il fatto che recentemente, alla Dieta di Innsbruck, tutta la deputazione trentina clericale, malgrado infinite pressioni del Luogotenente votava la sfiducia al governo e negava l’approvazione delle leggi militari provinciali; leggi di nessuna o poca entità finanziaria, ma di grandissimo valore morale. E’ notorio che alcuni capoccia clericali non volevano staccarsi dal governo; fu il grosso dei deputati, composto di contadini, che impose la direttiva agli altri.
Ma su tutta la popolazione il massimo propagandista nazionale fu sempre il governo austriaco con i suoi metodi polizieschi, con l’aiuto offerto alle società straniere antiitaliane, con le sue parzialità a danno degli italiani, con la dittatura militare. Se, malgrado ciò, qualcuno non aveva ancora aperti gli occhi, venne a distruggere ogni cecità lo sterminio, barbaramente voluto, della gioventù trentina sui campi di guerra, nella Galizia e nella Serbia.
Si sono d’altronde imposti a più riprese confronti troppo eloquenti fra la miseria crescente nel Trentino e lo sviluppo delle regioni confinanti, fra la pesante legge militare austriaca e quella assai più umanitaria e razionale italiana, fra il regime di polizia e il regime di libertà, fra la trascuranza che l’Austria ha per gli emigranti e la provvida legge italiana sull’emigrazione.
Oggi la prova più eloquente dello stato d’animo della popolazione trentina è data dal grande numero degli arrestati per offese all’Austria e per sospetto di tradimento.
Fra essi prevalgono i contadini; come numerosissimi sono i contadini e gli operai fra i profughi riparatisi nel Regno, non solo per scampare alla barbarie austriaca, ma per compiere domani il proprio dovere di soldati d’Italia.
Tutto il Trentino freme oggi impaziente nella attesa della liberazione.
Sente d’esser degno di essa; sente che questa è la grande ora; sente che difficilmente potrebbe resistere più oltre contro l’opera imbastarditrice del governo e ai fratelli italiani lancia il grido: Ora o mai più!
Per noi e per l’Italia: guerra!
E mentre implora per sè l’aiuto, sente il dover ricordare agli italiani che non da ieri, nelle scuole, nella stampa, nelle caserme, nel Parlamento l’Austria vive meditando e preparando la guerra all’Italia. Solo l’imprevisto assassinio dell’Arciduca ereditario, odiatore implacabile degli italiani, riuscì a dare alle tendenze guerresche e antiitaliane dell’Austria non, come qualcuno s’illude, una direttiva differente, ma una differente attuazione cronologica. «Oggi si difende il monarca e la patria sui campi di Russia e di Serbia; domani la vendetta sarà contro la vile Italia». Queste parole con cui gli ufficiali salutano le truppe partenti non sono che l’inversione di quanto proclamavano ieri.
La «passeggiata militare a Milano» fu e rimane la frase preferita dell’ufficialità austriaca dietro cui sta in agguato tutto il teutonismo. Quando la catastrofe di Messina portò lo sgomento e il lutto nella penisola, il capo dello Stato Maggiore austriaco generale Corrado von Hötzendorf, proponeva e propugnava la marcia dei suoi soldati contro l’alleata. Il tentativo si ripetè al tempo della guerra di Tripoli. Nel Parlamento un ex ministro, il Kramarz, vien da anni ripetendo con catoniana costanza: «Indeboliamo l’Italia», mentre un pagliaccio pangermanista, l’on. Malik, grida con voce di scherno: «Tripoli-Trapoli» ogni qualvolta sente un accenno all’Italia. Nelle caserme la designazione di feindliche Truppen (truppe nemiche) è destinato all’esercito italiano. In odio a questo si insegnano ai soldati le più insolenti canzonette. Nè si tratta di spavalderie di singoli soldati o di singoli politicanti; no, questi che abbiamo solo accennato in alcune poche delle loro infinite quotidiane espressioni, sono ben saldi e fondamentali propositi nonchè delle sfere militari di tutte le altre che stanno più prossime al trono e al governo dell’Austria. E questi propositi corrispondono troppo bene al comune sogno teutonico del Drang nach Süden, della irruzione tedesca dalle indifese Alpi italiane alla conquista della pianura del Po. Chi conosce le Alpi tridentine o quelle del Cadore o di altre regioni del Veneto e della Lombardia, sa bene quanto spesso e quanto addentro anche nei confini attuali del Regno, i pionieri del pangermanismo affermino la loro presenza e i loro ideali di prepotenza invaditrice col motto di cui imbrattano tutti i luoghi dove arrivano: Mit Herz und Hand für Alpenland: Col cuore e col braccio per le Alpi nostre! E questo Alpenland dilaga verso la pianura padana.
Le società che oggi profondono nel Trentino l’oro snazionalizzatore, quelle che organizzano le oasi del Gardasee hanno il loro centro di irradiazione a Berlino. A Trento la Germania ha già mandato i suoi ufficiali di Stato Maggiore. Con quanta bramosia appetisca Trieste caposaldo della grande linea di dominio germanico: Amburgo-Adriatico, è noto. «L’eterno barbaro», non mai sazio di rapina, proseguirà imperterrito finchè non sian mozzati gli artigli e i rostri alle aquile di Austria e Germania.
Lo vuole la patria, lo vuole la civiltà.
Se l’Italia ha vecchi che ricordano la tradizione garibaldina, se ha giovani che fra i doveri dell’umanità comprendono l’aiuto ai fratelli e alle genti oppresse, se ha cittadini che sentono la minaccia perenne rivolta dal Nord alle terre e al mare nostro, finchè non siano libere per sempre le alpi d’Italia dalle aquile austro-tedesche, il verso del Carducci deve oggi diventare inno della nazione:
Pe’l sangue degli eroi, pe’ franti petti |
Note
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Indirizzo di Giuseppe Garibaldi ai Trentini
Nella lotta santa sostenuta dall’Italia contro i suoi oppressori da tanto tempo, uno dei più brillanti episodi e più gloriosi, si è certo quello decorso in questi ultimi tempi.Vi fu un cenno onorevole di gratitudine per quelle provincie che meglio risposero all’appello del prode campione dell’indipendenza «Vittorio Emanuele», e che mandarono sui campi delle patrie battaglie la gioventù animosa a suggellare col sangue il patto sublime d’unione nazionale, meritevole oggi del plauso dell’Europa. Nessuno peraltro ricordò il Trentino! Quella nobile parte della nostra penisola, che ad onta di dugento mila mercenari dell’Austria che la calcano e la depredano, non mancò di far sentire coraggiosamente una voce di giubilo al trionfo della causa italiana, di reprobazione e di ribrezzo alla fetida dominazione austriaca.
Eppure modesti, come lo sono generalmente gli uomini di cuore, i Trentini continuano silenziosi a dividere, come divisero nel passato, le fatiche e le speranze comuni. Essi diedero nella campagna passata buon numero di valorosi ufficiali e soldati, e al martirologio nostro, nomi, che mi commuovono nel pronunciarli, e che certamente onorano il nostro paese al pari dei più illustri.
Il nome del trentino Bronzetti durerà nella memoria dei posteri quanto i fasti gloriosi della nostra storia, e sarà il grido di guerra dei bravi Cacciatori delle Alpi nelle pugne venture contro gli oppressori dell’Italia.
Furono centinaia i concittadini di Bronzetti che si distinsero nella sacra guerra, ed una parola non s’è alzata a segnalarli alla gratitudine nazionale! Valga la mia debole voce a supplire in parte all’involontario obblio, ed a ricordare un ramo dei più nobili e più generosi della famiglia italiana, su cui posano meritamente le nostre speranze di redenzione.
Modena, 10 settembre 1859.
GIUSEPPE GARIBALDI.
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