Il Trionfo del Tempo

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Francesco Petrarca

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Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. XII


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IL TRIONFO DEL TEMPO

POEMETTO

DI

FRANCESCO PETRARCA


Dell’aureo albergo con l’Aurora innanzi
Sì ratto usciva ’l Sol cinto di raggi,
3Che detto aresti, e’ si corcò pur dianzi.
     Alzato un poco, come fanno i saggi,
Guardoss’intorno, ed a se stesso disse,
6Che pensi? omai convien che più cura aggi,
     Ecco, s’un’uom famoso in terra visse,
E di sua fama per morir non esce;
9Che sarà della legge che ’l ciel fisse?
     E se fama mortal morendo cresce,
Che spegner si doveva in breve; veggio
12Nostra eccellenza al fine; onde m’incresce.

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     Che più s’aspetta, o che puote esser peggio
Che più nel ciel ho io che ’n terra un uomo,
15A cui esser egual per grazia cheggio?
     Quattro cavai con quanto studio como,
Pasco nell’Oceano, e sprono e sferzo,
18E pur la fama d’un mortal non domo.
     Ingiuria da corruccio, e non da scherzo,
Avvenir questo a me; s’io foss’in cielo,
21Non dirò primo, ma secondo o terzo.
     Or conven che s’accenda ogni mio zelo
Sì, ch’al mio volo l’ira addoppi i vanni:
24Ch’io porto invidia agli uomini, e nol celo
     De’ quali veggio alcun dopo mill’anni
E mille e mille più chiari che ’n vita;
27Ed io m’avanzo di perpetui affanni,
     Tal son, qual era anzi che stabilita
Fosse la terra; dì è notte rotando
30Per la strada rotonda, ch’è infinita.
     Poi che questo ebbe detto, disdegnando
Riprese il corso più veloce assai,
33Che falcon d’alto a sua preda volando,
     Più dico: nè pensier porria giammai
Seguir suo volo, non che lingua o stile;
36Tal che con gran paura il rimirai.
     Allor tenn’io il viver nostro a vile
Per la mirabil sua velocitate,
39Via più ch’innanzi nol tenea gentile.

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     E parvemi mirabil vanitate
Fermar in cose il cor che ’l tempo preme;
42Che mentre più le stringi, son passate.
     Però chi di suo stato cura, o teme,
Provveggia ben, mentr’è l’arbitrio intero,
45Fondar in loco stabile sua speme.
     Che quand’io vidi ’l tempo andar leggiero,
Dopo la guida sua, che mai non posa,
     48I’ nol dirò, perchè poter nol spero.
I’ vidi il ghiaccio, e lì presso la rosa,
Quasi in un punto il gran freddo, e ’l gran caldo
51Che pur udendo par mirabil cosa,
     Ma chi ben mira col giudicio saldo
Vedrà esser così, che nol vid’io;
54Di che contra me stesso or mi riscaldo,
     Seguì già le speranze, e ’l van desio;
Or ho dinanzi agli occhi un chiaro specchio
57Ov’io veggio me stesso, e ’l fallir mio.
     E quanto posso al fine m’apparecchio
Pensando ’l breve viver mio, nel quale
60Sta mane era un fanciullo, ed or son vecchio,
     Che più d’un giorno è la vita mortale
Nubilo, breve, freddo, e pien di noja,
63Che può bella parer, ma nulla vale?
     Qui l’umana speranza, e qui la gioja,
Qu’i miseri mortali alzan la testa,
66E nessun fa quando si viva o moja.

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     Veggio la fuga del mio viver presta,
Anzi di tutti; è nel fuggir del sole
69La ruina del mondo manifesta,
     Or vi riconfortate in vostre fole,
Giovani, e misurate il tempo largo;
72Che piaga antiveduta assai men dole.
     Forse che ’ndarno mie parole spargo;
Ma io v’annunzio che voi sete offesi
75Di un grave, e mortifero letargo,
     Che volan l’ore, i giorni, e gli anni, e i mesi
E inseme con brevissimo intervallo
78Tutti avemo a cercar altri paesi.
     Non fate contra ’l vero al core un callo,
Come sete usi; anzi volgete gli occhi
81Mentr’emendar potete il vostro fallo.
     Non aspettate che la Morte scocchi,
Come fa la più parte: che per certo
84Infinita è la schiera degli sciocchi,
     Poi ch’i’ ebbi veduto, e veggio aperto
Il volar, e ’l fuggir del gran pianeta,
87Ond’i’ ho danni, e ’nganni assai sofferto;
     Vidi una gente andarsen queta queta
Senza temer di tempo, o di sua rabbia.
90Che gli avea in guardia istorico, o poeta,
     Di lor par più che d’altri invidia s’abbia;
Che per se stessi son levati a volo
93Uscendo for della comune gabbia.

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     Contra costor colui che splende solo
S’apparecchiava con maggiore sforzo,
96E riprendeva un più spedito volo,
     A’ suoi corsier raddoppiat’era l’orzo,
E la Reina di ch’io sopra dissi,
99Volea d’alcun de’ suoi già far divorzo,
     Udì dir non so a chi, ma ’l detto serissi;
In questi umani, a dir proprio, ligustri,
102Di Cieca oblivione oscuri abissi,
     Volgerà ’l Sol non pur anni, ma lustri,
E secoli vittor d’ogni cerèbro,
105E vedrà il vaneggiar di questi illustri,
     Quanti fur chiari tra Penèo, ed Ebro,
Che son venuti, o verran tosto meno!
108Quant’in sul Xanto, e quant’in val di Tebro!
     Un dubbio verno, un instabil sereno
È vostra fama, e poca nebbia il rompe;
111E ’l gran tempo a’ gran nomi è gran veneno,
     Passan vostri trionfi, e vostre pompe,
Passan le signorie, passano i regni,
114Ogni cosa mortal tempo interrompe.
     E ritolta a’ men buon non dà a’ più degni,
E non pur quel di fuori il tempo solve,
117Ma le vostr’eloquenze, e i vostri ingegni.
     Così fuggendo, il mondo seco volve,
Nè mai si posa, nè s’arresta, o torna;
120Fin che v’ha ricondotti in poca polve.

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     Or perchè umana gloria ha tante corna,
Non è gran maraviglia, s’a fiaccarle
123Alquanto oltra l’usanza si soggiorna.
     Ma cheunque si pensi il vulgo, o parle,
Se ’l viver vostro non fosse sì breve,
126Tosto vedreste in polve ritornarle.
     Udito questo (perchè al ver si deve
Non contrastar, ma dar perfetta fede)
129Vidi ogni nostra gloria al Sol di neve.
     E vidi ’l tempo rimenar tal prede
De’ vostri nomi, ch’i’ gli ebbi per nulla;
132Benchè la gente ciò non sa, nè crede,
     Cieca, che sempre al vento si trastulla,
E pur di false opinion fi pasce,
135Lodando più ’l morir vecchio, che ’n culla,
     Quanti felici son già morti in fasce!
Quanti miseri in ultima vecchiezza!
138Alcun dice; Beato è chi non nasce.
     Ma per la turba, a’ grandi errori avvezza,
Dopo la lunga età sia ’l nome chiaro,
141Che è questo però che sì s’apprezza?
     Tanto vince, e ritoglie il tempo avaro:
Chiamasi fama, ed è morir secondo;
144Nè più che contra ’l primo è alcun riparo.
     Così ’l tempo trionfa i nomi, e ’l mondo.