Il colore del tempo/Il secolo agonizzante
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IL SECOLO AGONIZZANTE.
I giornali vivono quanto le rose: l’espace d’un matin. Non è facile paragonare altrimenti che per la loro caducità un foglio stampato e il più bel fiore della creazione; ma, se il fiore ha vantaggi innumerevoli sul giornale, — e non agli occhi delle donne soltanto, o dei poeti, o degli innamorati, — il giornale anch’esso ne ha qualcuno sul fiore. E questo mi pare evidente: chè, morti gli emerocallidi, i petali secchi vanno a finire nella spazzatura; mentre coi vecchi fogli si possono fare tante cose: anche libri.
Io ho, — e non credo d’esser solo ad averla, — una speciale predilezione per i volumi messi insieme con articoli pubblicati qua e là, in tempi diversi, sopra varî argomenti, senza ordine prestabilito. Libri così fatti ci dànno il colore del tempo, e par quasi che arrestino l’attimo fuggente; non già perchè bello, — noi siamo, ahimè! altrettanti Fausti a questo riguardo; — ma perchè notevole, singolare ed insolito.
Chiedetene ad un libraio: vedrete che una buona metà dei nuovi volumi sono per l’appunto composti di capitoli eterogenei, messi insieme per amore o per forza, dopo una prima apparizione nei fogli periodici. Manca ai nostri scrittori la lena necessaria a concepire e condurre a buon fine le grandi opere organiche? È il bisogno del lucro, in questa nostra società, dove la concorrenza cresce ogni giorno e la lotta per la vita diviene sempre più aspra, quello che sminuzza in tal modo la produzione intellettuale? O non accade piuttosto così per la tirannia del giornale, nuovo mostro che si nutre di cervella e di midolle vive? Il costume democratico, come ha trasformato tante altre cose, non ha anch’esso contribuito a trasformare le forme del pensiero, e a mettere in voga le brevi, succose ed enciclopediche scritture a scapito delle ponderose, metodiche e particolari trattazioni?... Una sola di queste cause basterebbe alla spiegazione del fatto; tutt’e quattro insieme ne dànno pienamente ragione. Nè bisogna lagnarsene. Prima di tutto le nostre lagnanze sarebbero inutili; e poi questi libri hanno il loro carattere.
Prendiamone uno, a caso; prendiamo l’ultimo volume di Edoardo Rod, la sua nuova serie di Studî sul secolo XIX. Sfogliamola: vedremo succedersi rapidissimamente idee e figure, sentimenti e problemi che ieri attiravano tutta quanta la nostra attenzione, — e che l’attirano ancora.
I.
La rapidità e la fretta sono appunto tra i caratteri salienti di questo secolo nostro. Come noi corriamo da un capo all’altro del mondo, trascinati dall’ansante vapore; come le nostre parole volano sui fili elettrici; così tutta quanta la nostra vita morale e intellettuale precipita vertiginosamente.
Che cosa diviene, dopo qualche anno, la fama di quegli uomini che parvero dominare, che dominarono infatti, la nostra età? Guardate Vittor Hugo. Chi ottenne mai in vita un più largo, sincero e spontaneo consenso d’ammirazione? Lo chiamarono il Padre; personificò realmente il secolo, «del quale aveva professato tutte le credenze, condiviso tutte le illusioni, cantato tutte le glorie, sopportato tutte le sciagure.» Ed ecco oggi l’idolo in pezzi. Hanno dimostrato in grossi volumi, pieni di documenti, che egli non fu iniziatore, che non scoperse nulla, che non disse nulla di nuovo o di originale, che ebbe un carattere ordinario, anzi mediocrissimo; che andò assiduamente dietro al successo: non gli hanno riconosciuto altro genio se non quello delle parole: fu un parolaio, un genio verbale.
L’eleganza del verbo, intanto, non si può dire che contraddistingua il nuovo stile. Il neologismo è la forza dei nostri scrittori. Mai il vocabolario greco è stato tanto in onore; mai le desinenze in ale e in ismo sono state tanto frequenti. Questa è una delle più piccole conseguenze del trionfo della scienza. Le sue scoperte, feconde di tanti pratici adattamenti, hanno affrettato il corso della vita umana: il nostro pensiero e il nostro linguaggio acquistano caratteri scientifici. La vecchia critica è morta: oggi è in vigore la critica scientifica. Ippolito Taine ne fu il precursore; Emilio Hennequin il campione. Mentre l’antica critica letteraria badava a dare giudizî, la critica scientifica, lasciando prudentemente da parte gli apprezzamenti, cercò nei caratteri particolari delle opere «sia certi principî d’estetica, sia l’esistenza d’un certo meccanismo cerebrale nell’autore, sia una condizione definita dell’ambiente sociale.» Questa critica precedè per via di tre sorta di analisi: l’analisi estetica, l’analisi psicologica, l’analisi sociologica; essa non si contentò neppure di chiamarsi critica scientifica, volle ribattezzarsi con un nome più severo: si chiamò estopsicologia. Così un cerotto contro il sudore, che è un cerotto e non impedisce il sudore, acquista il valore d’un nuovo e raro e prezioso prodotto chimico, quando lo speziale gli dà il nome di sudol...
Emilio Hennequin morì giovane, prima d’aver potuto interamente esplicare il suo metodo: se fosse vissuto, è egli certo che ne avrebbe assicurato la fortuna? Il Rod lo crede; più prudente è forse dubitarne. La critica cominciò ad avere pretensioni e andamenti scientifici quando il positivismo trionfò in filosofia e il naturalismo in arte: non occorre dimostrare come questi fenomeni fossero strettamente collegati. Ora non siamo in piena reazione? Un altro capitolo del Rod non è dedicato al risveglio dell’idealismo? Ferdinando Brunetière non ha proclamato la «bancarotta» della scienza? Siamo arrivati a questo: che la luce del giorno, secondo un filosofo, «circoscrive il nostro orizzonte»; la notte è preferibile: essa è «un’apertura sull’infinità degli spazî e sull’infinità dei mondi.» Ma allora non bisogna buttar giù la critica obbiettiva, come stiamo demolendo il romanzo impersonale e sperimentale? Un artista italiano, del quale il Rod esamina con amore gli scritti, Antonio Fogazzaro, non deve la sua fortuna all’essersi messo a quest’opera? Ottavio Feuillet, caduto nella polvere, non torna sugli altari?
Diremo dunque che il secolo, tardi ma in tempo, ha finalmente trovato la sua strada? Non ancora! Alfredo Fouillée, dopo aver sostenuto che le tenebre della notte sono preferibili alla luce del giorno, ci mette in guardia contro i pericoli dell’idealismo; e consiglia, sì, ad agire da idealisti, ma da idealisti «senza illusioni...». Non ridete: si tratta di cose serie. E la scienza, alla quale già si dava il benservito per ricorrere invece alla fede, pare da ultimo che abbia del buono, se ad essa si volgono i rivendicatori dell’idealismo «integrale» per fondare la cité future. E che cosa si ripromette dalla scienza cotesto idealismo? Che cosa promette all’uomo? Ben poco, in verità! «I tuoi organi deboli tu li assoderai e moltiplicherai,» dice il signor Fournière; «le tue stesse ossa saranno rinnovate da una chimica che ancora non osiamo neppure immaginare. Tu arriverai, se vorrai, e bisognerà bene che voglia, a longevità che oltrepasseranno quelle dei miti ebrei. Il tuo organismo rinnovellato conoscerà altri mezzi di nutrizione e godimenti più raffinati. E mentre dominerai il tempo, conquisterai anche lo spazio. Se non troverai il mezzo di riaccendere il sole che si spegne, o di accenderne altri, lascerai questa terra invecchiata; e, alato colono, popolerai gli spazî siderei...».
Giulio Verne, come vedete, può andare a riporsi.
II.
Questi voli della fantasia, queste immaginazioni di un mondo e d’una umanità tanto migliori dei nostri, non sono sogni, vaneggiamenti, delirî? Chi può credere seriamente che le condizioni della vita, della vita fisiologica, della natura umana, si modificheranno così? Eppure, se la ragione ricusa di ammettere il mutamento, il cuore lo vuole e irragionevolmente lo aspetta! L’ottimismo fanciullesco delle aspettazioni è un modo di reagire contro la senile tristezza degli accertamenti.
Il bilancio morale del secolo nostro è in condizioni veramente disastrose. Il Fierens-Gevaert, che lo ha compilato, vi ha scritto sopra: La tristezza contemporanea; ma il deficit dei valori etici si chiama propriamente angoscia, confusione, oscurità, pessimismo.
L’êra contemporanea comincia con la rivoluzione francese: si ottennero da essa i beneficî promessi? Tanto poco si ottennero, che quel cataclisma potè essere definito «una farsa sanguinosa». Mentre il principio dell’eguaglianza tra gli uomini era scritto col vivo sangue sgorgante dalle ghigliottine, Napoleone s’incaricava di dimostrarne la fallacia; o, per meglio dire, ne incarnava la logica conseguenza. Se ogni uomo è uguale ad un altro, un ufficialetto d’artiglieria prende il posto dei re per diritto divino e si fa padrone del mondo. Autocrate repubblicano, egli è il tipo dell’umanità moderna: egoista per istinto, democratico per educazione. In nome del principio d’eguaglianza la somma dei beni va distribuita a un numero sempre più grande di concorrenti: la parte di ciascuno è pertanto sempre più piccola.
Dio era stato soppresso; Kant aveva legittimato l’operazione affermando che ciò che non si vede non esiste. La reazione non doveva tardare; ma fu peggiore della stessa azione, e non portò il rimedio sperato. Il cristianesimo di Giuseppe de Maistre è triste, cupo ed ingrato: esso ammette la necessità del male; vuole quella legge di ferro e di sangue, che sarà più tardi proclamata dal più fiero negatore del cristianesimo e dell’altruismo: da Federico Nietzsche. Nè Chateaubriand, con tutta la sua fede, si salva; al contrario: fonda la scuola dei malinconici superbi, degli egoisti annoiati e disperati.
Il romanticismo infierisce in tutta Europa. In Italia, con Giacomo Leopardi, il «male del secolo» arriva al parossismo. Il Rousseau aveva detto che la civiltà è la grande colpevole; che gli uomini, nativamente, sono buoni; il Leopardi afferma che gli uomini, malvagi naturalmente, vogliono dare a credere di esser divenuti tali per caso.
Senza bussola, intanto, il pensiero umano erra qua e là, secondo che il vento soffia da una parte o dall’altra. Primi fra tutti, il Guizot e Augusto Comte parlano dell’«anarchia intellettuale». Nel giro di poche diecine d’anni l’anarchia diventa una dottrina, i cui apostoli lanciano bombe in mezzo alla folla innocente.
Prima s’innalza la bandiera del comunismo. Il Fourier e il Saint-Simon promettono il paradiso in terra; dànno l’esempio delle chimeriche raffigurazioni dell’umanità futura: l’uomo sarà, dicono, sbarazzato dal dolore e dalla miseria, la sua statura crescerà di sette piedi, ed egli arriverà all’età di 144 anni, «dei quali 120 di esercizio attivo in amore...». Se questo linguaggio è tenuto ai creduli più ignoranti, Augusto Comte, parlando agli spiriti eletti, bandisce, come Gran Pontefice dell’Umanità, il nuovo verbo della Religione dell’Uomo. Il regno dell’uomo è di questa terra. Non bisogna alzare gli occhi troppo in alto: il Pontefice vieta insino lo studio dell’astronomia; consente soltanto che si osservino i moti dei pianeti visibili a occhio nudo... Solo i fatti importano: il positivismo dà lo sgambetto alla metafisica. E lo Schopenhauer e il suo discepolo Hartmann passano la spugna sul l’una e sull’altro; dimostrano l’inganno universale; combattono la volontà di vivere e predicono il suicidio cosmico.
Mentre costoro parlano e scrivono, gl’internazionalisti e gli anarchici cominciano ad operare. Che cosa è la patria? Già imperando Napoleone, quando i confini dei popoli si slargano, quando gli eserciti corrono da un capo all’altro del vecchio mondo, lo «spirito europeo» della signora di Staël si sostituisce allo spirito particolare delle varie nazioni; a poco a poco, col vapore e con l’elettricità, che accorciano lo spazio ed il tempo, lo spirito «cosmopolita» si sostituisce all’europeo. Non più patrie, non più società.
Il mondo unificato è felice? Le ineguaglianze sociali sono sparite? La lotta per l’esistenza è divenuta meno feroce? Il positivismo e la democrazia hanno assicurato almeno il benessere materiale? Gli appetiti sono stati eccitati, non appagati. Ed ecco i bombardatori scendere in piazza.
III.
Erano rimaste, in tanto naufragio, alcune tavole di salvezza. Avevamo l’amore. Anche questo ci manca. Noi siamo oggi posti tra i misogini, che seguono il Leopardi e lo Schopenhauer nel loro disprezzo per le donne; e tra i femministi, che lavorano a fare della donna non la compagna, ma la concorrente e la rivale dell’uomo.
E l’arte? Non era l’arte la grande consolatrice? Lo Schopenhauer e il Leopardi, negando tutte le altre cose, non avevano attestato il sovrano potere dell’arte? In arte, oggi, come in politica, non si sa da qual parte rifarsi. Il naturalismo pareva l’ultima parola; ma non appena esso tentò di assodarsi, il simbolismo lo buttò giù; ed ecco che a sua volta il simbolismo boccheggia. «Purificate la vita con la sovrana potenza dell’arte!» dicono gli esteti; Ferdinando Brunetière predica che l’arte è essenzialmente immorale!...
L’artista si sente solo. Singolare ed aristocratico, vive a disagio in mezzo alla società democratica ed uniforme. Si sente da essa odiato come inutile, come superbo; e la disprezza. Pertanto le opere sue non si rivolgono ai più, ma ai pochi iniziati. Il popolo è privato della gioia che l’artista può dare; l’artista è privato del premio che il popolo accorda. Una forma d’arte aveva preso uno sviluppo straordinario, non prima sospettato: la musica. Essa pareva l’arte democratica per eccellenza, l’arte intelligibile a tutti, il linguaggio universale; ma ecco apparire il Wagner, prototipo dei ribelli incompresi. Paragonate il Wagner e lo Schopenhauer, vedrete la loro fratellanza. Il musicista dice che la soppressione della volontà di vivere, voluta dal filosofo, è terribile ma salutare; Tristano e Isotta è un inno d’amore turbato da un capo all’altro dall’idea della morte. Lo Schopenhauer, affermando che il valore dell’individuo è illusorio, compatisce i dolori degli uomini; dalla compassione, dalla carità, il Wagner è ricondotto alla fede, allo spiritualismo di Parsifal; ma il suo simbolo è oscuro ed ermetico; l’arte sua parla più alla ragione che al sentimento, è un paradosso in azione: per ottenere da essa il massimo della commozione nervosa, bisogna spendervi intorno il massimo d’intelligenza.
Chi parlerà allora a tutti, chi vorrà farsi intendere da tutti, dagli umili, dai semplici, dai poveri di spirito? Leone Tolstoi. Ma la sua religione, il suo nuovo cristianesimo, sorge dalle vive viscere della filosofia pessimista, considera l’umanità presente come un puro nulla, nega tutta quanta la nostra scienza, nega tutta quanta la nostra arte!
E quelli che affermano l’onnipotenza della scienza non sono già più contenti! La scienza, così gaia nei primordî, durante il Rinascimento, quando il Rabelais rideva del suo riso immortale, è ora triste. I suoi pratici adattamenti, i progressi materiali, le invenzioni che hanno reso più rapida e intensa la vita, hanno pure logorato la fibra umana. La nostra razza deperisce, i nostri nervi sono in convulsione. La scienza ci ha dato l’elettricità, ma ci ha dato anche la dinamite.
E sulle origini prime e sulle cause finali del mondo e dell’uomo questa scienza orgogliosa non dice una sola parola. Essa considera come entità reali le forze cosmiche, delle quali ignora l’essenza: uno scienziato, lo Spencer, glie lo ha rimproverato. Eduardo Hartmann ha definito la creazione: «la più temeraria fantasia dell’immaginazione scientifica». In questa creazione meccanica ed automatica non più miraggi, non più aspettazioni fiduciose e consolatrici. Un vescovo d’Australia ha rifiutato di ordinare pubbliche preghiere per la pioggia, dichiarando che la meteorologia è governata da leggi inflessibili; ed ha invitato i fedeli, per evitare i danni della siccità, a migliorare i sistemi d’irrigazione....
Ma, proprio mentre la fede è negata, derisa, bollata come superstizione; mentre si bandisce l’idea divina; gli uomini, più che mai bisognosi di comprendere il gran mistero, celebrano riti folli. La religione muore, ma nasce l’occultismo, il satanismo, il magismo, lo spiritismo; le tavole girano, e le teste con esse; gli altari sono abbandonati, ma la messa nera è in grande onore...
IV.
Tale è, nelle sue grandi linee, il bilancio morale compilato dal Fierens-Gevaert. Non si può dire che egli abbia avuto la mano leggera. Pur troppo tutti questi motivi di tristezza esistono: la quistione è di valutarli. L’aritmetica non è un’opinione; ma le opinioni non si possono misurare coi numeri. Esse mutano troppo, troppo rapidamente, non solo da individuo a individuo, ma in una stessa persona.
Nei bilanci finanziarî vi sono certe somme che figurano all’entrata nello stesso tempo che all’uscita: esse si annullano reciprocamente e lasciano immutato il rapporto fra l’attivo e il passivo. Le contraddizioni, in fatto di opinioni, di credenze, di fedi, sono come chi dicesse le partite di giro dei bilanci morali. Ora le contraddizioni del pensiero moderno sono continue, flagranti. Se noi mettiamo all’attivo la scienza, ripromettendoci tutto da lei, e poi la mettiamo al passivo, disperandone, le due partite si elideranno, e la scienza resterà quella che è. Il misogino e il femminista, l’altruista cieco e l’egoista spietato si equivalgono: le donne e la morale restano quelle che sono.
Guardate ciò che avviene nell’arte, in un’arte speciale: quella del romanzo. Nel romanzo trionfa l’esoticismo di Pietro Loti e il cosmopolitismo di Paolo Bourget. Ma anche qui c’è una contraddizione evidente. Uno scrittore appena ieri sepolto fra l’universale rimpianto, e oggi più che mai vivo nelle opere, ha ottenuto ed ottiene la maggiore, la più pura ammirazione, per avere candidamente osservato e riprodotto il suo cantuccio natale. Mentre altri trionfa descrivendo i costumi giapponesi e la vita dei grandi alberghi cosmopoliti, Alfonso Daudet conquista la gloria descrivendo il Mezzogiorno, scoprendo Tarascona, creando Tartarin e Numa Roumestan. C’è dunque posto per tutti.
Torniamo alla filosofia; consideriamo il caso dello Schopenhauer. Lungamente disconosciuto, costui fu ed è onorato come pochi altri. Vuol forse dire che il pessimismo è l’ultima nostra parola? Sarebbe una cosa tutta negativa; ma, non riuscendo ad affermar nulla, avremmo pure une fiche de consolation sapendo almeno negare. E il secolo, cominciato coi turbamenti, con le delusioni e con le malinconie, potrebbe recitare compunto il credo disperato del filosofo di Francoforte. Se non che: studiate la sua vita, leggete il suo epistolario: vedrete che egli stesso operava contrariamente alla sua fede; i suoi atti e le sue idee facevano a pugni. «Egli che voleva conoscere la vita, il mondo, l’universo», sono parole del Rod, «trascurava poi di conoscere sè stesso; egli che additava la volontà di vivere come la sorgente di tutti i mali, e che faceva consistere nel lavorare a distruggerla lo scopo supremo della morale, manteneva poi accuratamente la volontà sua propria, senza diffidenza, senza accorgersene, con una specie di candore; egli che scopriva con occhio penetrante l’insieme delle illusioni delle quali siamo vittime, le accoglieva per conto suo: chiaroveggente quando ne stava lontano, cieco appena si accostava ad esse».
Ma questo dissidio è forse in lui solo? Non accade altrettanto in ciascuno di noi? Gli estremi non sono tanto vicini che si dànno la mano? Di estremi, di contraddizioni, di antinomie non è piena tutta quanta la storia dell’umanità? E per cento, per mille, per diecimila individui che amano gli eccessi, e non stanno fermi in uno solo, ma trascorrono dall’uno al contrario, non vi sono milioni di uomini di buon senso che rifuggono da tutti?
Il Fierens-Gevaert aspetta un nuovo Messia che venga a salvare il nostro povero mondo. Aspettiamolo pure: sarà il benvenuto, se non lo crocifiggeranno come il primo. Ma consoliamoci nel frattempo pensando che gli uomini sani continuano a credere e ad amare, semplicemente. E, a chi ben guardi, il secolo decimonono non è poi tanto singolare quanto sembra; si può dimostrare che somiglia non poco al diciottesimo, e si può scommettere che il ventesimo gli somiglierà.
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- Testi in cui è citato Jules Verne
- Testi in cui è citato Hippolyte Fierens-Gevaert
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