Il giuocatore/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Camera da giuoco nel casino.
Florindo al tavolino da giuoco con lumi e carte,
numerando denari; poi Brighella.
Florindo. Chi è di là?
Brighella. Illustrissimo.
Florindo. Che ora è?
Brighella. Per dirghela, illustrissimo, me son indormenzà un pochetto, e no so che ora sia.
Florindo. Andate a vedere che ora è?
Brighella. La servo. (Che bella vita! Da ieri a vintidò ore1 fina adesso, che l’è sentà al tavolin). (parte, poi torna)
Florindo. Cinquecento zecchini in una notte non è piccolo guadagno, ma poteva guadagnare assai più. Se teneva quel sette, quel maledetto sette, se lo tenevo, era un gran colpo per me. Mi ha detto quel sette fra il dare e l’avere altri mille zecchini. Ho quel maledetto vizio di voler tenere i quartetti, e sempre li do, e sempre li pago. Ah, bisogna ch’io ascolti le suggestioni del cuore; quando li ho da tenere, mi sento proprio lo spirito che mi brilla nelle mani, e quando hanno a venir secondi, la mano mi trema; da qui avanti mi saprò regolare.
Brighella. Sala che ora è? (toma di nuovo)
Florindo. Ebbene, che ora è?
Brighella. L’è ora de smorzar i lumi, avrir le finestre, e goder el sol.
Florindo. Come? E giorno?
Brighella. Zorno chiaro, chiarissimo.
Florindo. Oh diavolo! Ho passata la notte senza che me ne sia accorto.
Brighella. Mah, quando la va ben, se tira de longo senza abbadar all’ore.
Florindo. Oh maledetta la mia disgrazia!
Brighella. Hala perso?
Florindo. Non ho perso. Ho vinto cinquecento zecchini, ma a che servono?
Brighella. La ghe dise poco?
Florindo. Oh, se tenevo un sette! Maledetto quel sette!
Brighella. (Ecco qua, i zogadori no i se contenta mai. Se i perde i pianze, se i guadagna i se despera, perchè no i ha guadagna tutto quel che i voleva. Oh, che vita infelice l’è quella del zogador!) (da sè) Cossa volela far? Un’altra volta.
Florindo. Oh, in quanto a questo poi, m’impegno che questi giuocatori li voglio spogliar tutti.
Brighella. Lustrissimo patron, no bisogna fidarse tanto della fortuna.
Florindo. La fortuna mi vuol bene; fa a modo mio. Anche l’anno passato averò vinto altri mille zecchini.
Brighella. Lo so benissimo, e la me permetta che diga, che so anca che la i ha spesi presto.
Florindo. Benissimo, li ho spesi, e per questo? Denari vinti al giuoco si possono spendere allegramente.
Brighella. Za, quando i se vadagna, i se spende allegramente; e po co se perde, bisogna pagar, e s’intacca la cassa.
Florindo. Oh via! Mi farete voi cattivo augurio? Sono un giuocator fortunato, ma sono anche un giuocatore che sa regolarsi, e vinco perchè ho prudenza.
Brighella. Ma quel maledetto sette?
Florindo. Oh quel sette, quel sette! Mai più tengo il sette.
Brighella. E l’altro zorno, che i l’ha sbancada do volte, che ponto avevela contrario?
Florindo. L’altro giorno li avevo tutti contrari.
Brighella. Vedela, che no bisogna fidarse tanto della fortuna!
Florindo. Oh, non mi state a seccare.
Brighella. No parlo più per cent’anni.
Florindo. Tenete questi quattro zecchini, ve li dono per l’incomodo della notte.
Brighella. Grazie a vussustrissima.
Florindo. Oggi voglio dar da desinare in casino.
Brighella. La sarà servida.
Florindo. Ma voglio sia un desinare magnifico.
Brighella. Per quante persone?
Florindo. Dieci, dodici, quattordici, e che so io.
Brighella. Quanti piatti?
Florindo. Ora non ho volontà di discorrere. Il sonno principia a molestarmi. Per oggi fate voi da maestro di casa; spendete senza riguardo, ch’io pagherò.
Brighella. Benissimo, la lassa far a mi, che la sarà servida pulito2.
Florindo. Ho guadagnato, posso spendere. Mandatemi il mio servitore Arlecchino.
Brighella. El dorme.
Florindo. Svegliatelo, e fate che venga qui.
Brighella. E quei denari li portela via?
Florindo. No; voglio meglio riscontrarli, e poi li consegnerò a voi. Mandatemi Arlecchino. (sbadiglia)
Brighella. (El casca dal sonno. Nol pol più; el pol dormir quieto e senza travaggio, per el zogo el patisse. Oh che bella vita!) (da sè, parte)
SCENA II.
Florindo solo.
Vi sono dei zecchini, che calano almeno sei o sette grani l’uno. Li voglio separare, e metterli da parte. (sbadigliando) Se perderò questi, saranno i primi. Non posso tener gli occhi aperti. Quattro e due sei. Oh, questo è molto piccolo, sette e tre... (insonnato) dieci... Ora il sonno m’inquieta. Dieci... dieci... e due... dodici. (s’addormenta sul tavolino)
SCENA III.
Arlecchino e detto.
Arlecchino. (Viene anch’egli assonnato) Gran vita miserabile xe questa, aver da servir un zogador, che fa patir la notte ai so poveri servitori. Eccolo là; el dorme a st’ora, quando i altri se leva dal letto. Oh quanti bei quattrini su quel tavolin! Me vien squasi voia de far quel che non ho mai fatto. Un per de quei zecchinetti i me darave la vita. Me vôi provar. Ma no vorave che el se desmissiasse3. (s’accosta bel bello, e fa diverse positure per osservare se dorme; allunga le mani, e Florindo dormendo si muove) Corpo de mi, el se sveia; ma nol se move più. El s’averà insunià. Pussibile che anca in sogno el me veda? Me vôi tornar a provar. (torna ad accostarsi bel bello al tavolino. Prende una manata di zecchini, li vuol nascondere, e non sa dove) Oh belli! oh cari! Veramente ghe n’è vegnù un po troppi; ma no so cossa dir. Quel che la sorte ha fatto, sia ben fatto. Vorave sconderli, acciò noi me li trovasse, ma no so dove metterli. Le scarselle le ho tutte rotte; i perderò. Farò cussì, li metterò per adesso in te le scarpe; e po col tempo li logarò in qualche altro logo. (li va mettendo nelle scarpe, ed in questo mentre Florindo si risveglia; Arlecchino s’intimorisce, e si lascia cadere due zecchini in terra. Prestamente s’alza diritto, per non dar ombra al padrone, e col piede cuopre li due zecchini cadutigli.)
Florindo. Arlecchino, che cosa fai?
Arlecchino. Son qua pronto per servirla. (senza muoversi dal suo posto)
Florindo. Vieni qui; accostati, che ti ho da parlare.
Arlecchino. La parla pur. La comandi che, grazie al cielo, ghe sento anca da lontan.
Florindo. Ma voltati almeno verso di me, ascoltami.
Arlecchino. Son qua, l’ascolto. (si volta un poco, senza levar il piede)
Florindo. Io non ho volontà di alzar la voce. Perchè non ti avvicini qui al mio tavolino?
Arlecchino. Ghe dirò, signor, mi son un omo assae delicato. Gh’è quei denari sul tavolin. Se m’accosto... non vorria mai che se disesse... basta, son un servitor onorato.
Florindo. Eh, lascia queste scioccherie. Accostati, dico.
Arlecchino. In verità, la prego a despensarme; la parla, la comandi, ma no me movo certo.
Florindo. Che pazienza ci vuole con costui! Hai ragione che ho vinto. Se avessi perso, ti bastonerei. M’alzerò io, e verrò da vossignoria gentilissima. (s’alza)
Arlecchino. La me farà una grazia singolarissima.
Florindo. (Accostandosi ad Arlecchino) Vossignoria vada subito alla casa della signora Gandolfa, sorella del signor Pantalone de Bisognosi. Faccia sapere alla signora Rosaura, che io la riverisco, che desidero sapere come sta, e mi porti subito la risposta.
Arlecchino. La sarà servida.
Florindo. Animo, va subito a far quest’ambasciata.
Arlecchino. Adesso anderò. Subito. (si confonde per ragione delli due zecchini, che tiene sotto il piede)
Florindo. Ma fino che tu stai lì, non vai.
Arlecchino. È verissimo.
Florindo. Dunque parti.
Arlecchino. Partirò.
Florindo. Va subito.
Arlecchino. Adessadesso.
Florindo. Va ora, che ti venga il malanno. (gli dà una spinta, lo fa muovere, e vede in terra li due zecchini)
Arlecchino. (Timoroso per la scoperta.)
Florindo. Amico, quei due zecchini come si trovano lì?
Arlecchino. Mi no so niente da galantomo.
Florindo. Ora capisco, perchè non ti potevi muovere.
Arlecchino. Adesso la capisso anca mi; siccome la calamita tira el ferro, quell’oro el me tirava in t’una maniera, che no me podeva mover de là.
Florindo. Bravo, spiritoso! Briccone, dammi que’ due zecchini.
Arlecchino. Oh! un signor della so sorte, che ha tanti bei zecchini su quel tavolin, el se degna d’una freddura che se trova in terra?
Florindo. Dammeli, temerario.
Arlecchino. Ah! pazenzia. (li leva di terra, e glieli dà)
Florindo. (Finalmente ho vinto, posso anche usare una generosità con costui, che per me ha patito la notte. Questi due zecchini mi saranno caduti in terra). (da sè) Tieni. (ad Arlecchino, dandogli i due zecchini)
Arlecchino. A mi?
Florindo. Sì, a te. Tieni.
Arlecchino. Cossa comandela che ghe ne fazza? (prendendoli)
Florindo. Te li dono.
Arlecchino. Grazie alla so bontà. La me li dona veramente?
Florindo. Sì. Acciò che tu sii attento e fedele.
Arlecchino. L’osserva. Per non saver dove metterli, i metto drente de sta scarpa.
Florindo. Non hai tasche da metterli?
Arlecchino. Le son tutte rotte, li metto qua per no perderli. La favorissa. Me donela veramente i zecchini, che ho messi drente de sta scarpa?
Florindo. Sì. Te li dono.
Arlecchino. Tutti?
Florindo. Tutti.
Arlecchino. Grazie. (Cussì sti zecchini poderò dir che el me li ha donadi, e che no i ho robadi). (da sè, parte)
SCENA IV.
Florindo solo, che passeggia alquanto senza parlare, poi dice.
Ah quel sette, quel sette! Ecco qui, se non era quel sette, avrei questo tavolino pieno d’oro. Ma quello che non ho fatto, lo farò. Se arrivo a vincere diecimila zecchini, non giuoco più. Dieci mila zecchini impiegarli al quattro per cento, fanno una rendita di quattrocento zecchini l’anno. Ma che cosa sono quattrocento zecchini? Ottocento fìlippi; una minuzia. Colla mia fortuna, colla mia buona regola posso vincere altro! Non potrei vincere trentamila zecchini? Centomila zecchini? Sì, facilmente. Mettiamo solamente ch’io vinca un giorno per l’altro cento zecchini il giorno, in un anno sono più di trentasei mila zecchini, ma dei giorni vincerò altro che cento zecchini! Basta; in un anno io mi posso far ricco. Voglio comprar un feudo, voglio acquistarmi un titolo, voglio fabbricar un palazzo magnifico e ammobiliarlo all’ultimo gusto; voglio farmi correr dietro tutte le femmine della città. Giuoco da uomo, conosco il mio quarto d’ora, ed è impossibile che a lungo andare io non vinca.
SCENA V.
Brighella e detto.
Brighella. Illustrissimo.
Florindo. Che c’è, caro Brighella?
Brighella. Una maschera domanda de ela.
Florindo. Una maschera? Vuol giuocare?
Brighella. L’è una maschera donna.
Florindo. Donna? È sola?
Brighella. Veramente le son do: ma credo che una sia la padrona e l’altra la serva.
Florindo. Chi diavolo possono essere?
Brighella. Mi credo che la sia la signora Rosaura colla so camariera.
Florindo. Bisognava dirle ch’io non ci sono.
Brighella. Mo perchè? No èla una, che ha da esser so muier?
Florindo. Sì, e per questo non voleva che mi ritrovasse al casino.
Brighella. Za tutti sa che el zoga. Nol se pol sconder.
Florindo. Ma! Mi par impossibile che sia la signora Rosaura; a quest’ora in maschera una figlia savia e civile? Sua zia, alla quale l’ha data in custodia il signor Pantalone suo padre, non lo permetterebbe assolutissimamente4. Può esser che sia la signora Beatrice.
Brighella. Chi èla mo sta siora Beatrice?
Florindo. Non la conoscete?
Brighella. Mi no, da galantomo.
Florindo. È quella virtuosa di musica, che è venuta a cantare nell’opera tre anni sono, e a mio riguardo ha tralasciata la professione.
Brighella. Ah, l’è quella che ho sentido a dir tante volte che in tre anni averà costà a vussustrissima più de diesemille ducati.
Florindo. Se ho speso qualche cosa per lei, l’ho fatto perchè è una donna assai propria.
Brighella. Sento a chiamar; sarà le maschere. Volela che le fazza vegnir?
Florindo. Fatele venire. Vedremo chi sono.
Brighella. Volela lassar quei bezzi sul tavolin?
Florindo. No, tenete. Questi cinquecento zecchini, in queste due borse, riponeteli; questi dugento li terrò io in tasca.
Brighella. Quelli la li vol perder.
Florindo. Oh, questi hanno a servire per uccel da richiamo. Con questi dugento zecchini non passano tre mesi che ne faccio almen trentamila.
Brighella. El ciel ghe daga la grazia; ma la guarda ben...
Florindo. Non mi fate cattivo augurio.
Brighella. Oh, no digo gnente. (Castelli in aria). (da sè, parte)
SCENA VI.
Florindo solo.
M’impegnerei con dieci zecchini farmi ricco in brevissimo tempo. Basta andar sotto un banco grosso. Metter quattro soli zecchini. Fante a quattro zecchini; se me lo dà, paroli5; subito paroli sono quattro, e quattro otto, e quattro dodici. Sulla seconda tutti ventidue, e paroli; ma no, è troppo; alla pace, alla pace. Sì, alla pace, sono ventidue e ventidue quarantaquattro, e dodici cinquantasei. Sul terzo punto venti zecchini; e se me lo dà, e se il punto è in fortuna, tutti sul quarto taglio. Ma se me lo tiene? Oh, non lo può tenere; dice il proverbio: Si tertia venerit, de quarta non dubitabis. Sono regole infallibili.
SCENA VII.
Rosaura e Colombina mascherate, e detto.
Rosaura. Si può riverire il signor Florindo? (si smaschera)
Florindo. Oh signora Rosaura, voi qui? E chi è quell’altra maschera?
Colombina. Colombina, per servirla. (si smaschera)
Florindo. Ma come a quest’ora? Che favori sono questi?
Rosaura. Sono tre giorni che da me non vi lasciate vedere, ed io, impaziente di rivedervi, vengo in traccia di voi.
Colombina. Guardate se è buona la mia padrona. Correr dietro ad un uomo! Se si principiasse a usare questa bella moda, povere noi! Oh sì, che si metterebbero gli uomini in una maledetta superbia.
Florindo. Signora Rosaura, io vi ringrazio infinitamente della bontà che avete per me, ma come avete fatto a uscir di casa a quest’ora?
Rosaura. Ho detto a mia zia, che andar voleva a visitare stamane una sua figliuola6 maritata, ed ella mi ha data la permissione di uscire, e di andar a mio beli’agio con Colombina.
Colombina. Signor sì, sotto la custodia mia. Di me si possono fidare, perchè sanno che donna prudente ch’io sono.
Rosaura. Mia zia mi vuol bene, e sapete che vuol bene anche a voi. Ella ha penato in questi tre giorni, egualmente che io. Vi nomina a ogni momento, e mi fa piangere sempre più.
Florindo. Povera signora Gandolfa! È una vecchia di buon cuore.
Colombina. Io credo sia innamorata di voi, più di sua nipote.
Florindo. Fatemi la finezza d’accomodarvi. (siedono)
Rosaura. Crudele! Star tre giorni senza venirmi a vedere!
Florindo. Credetemi, non ho7 potuto venire.
Rosaura. Ma per che causa?
Florindo. Gli affari miei me lo hanno impedito.
Rosaura. Caro signor Florindo, possibile che non vogliate lasciar il giuoco?
Florindo. Oh, l’ho lasciato, non giuoco più.
Rosaura. Mi è stato detto che tutta la scorsa notte avete giuocato.
Florindo. Ah! È stato un impegno. Ma sentite, ho guadagnato cinquecento zecchini; ma zitto, che nol sappia nessuno.
Colombina. Capperi! cinquecento zecchini?
Rosaura. Godo della vostra fortuna, ma non vorrei che giuocaste più.
Florindo. Oh, certamente non giuoco più.
Colombina. Orsù, la mia padrona è venuta qui per bere la cioccolata.
Rosaura. Oh, non badate...
Florindo. Sì, volentieri, subito. Ehi... (chiama)
Colombina. Lasciate, lasciate, anderò a ordinarla io.
Rosaura. Io non voglio cioccolata.
Colombina. Se non la volete voi, la beverò io. (parte)
SCENA VIII.
Rosaura e Florindo.
Rosaura. Caro Florindo, mi parete di poco buon umore.
Florindo. No, anzi son allegro, ho vinto cinquecento zecchini.
Rosaura. Ma averete patito la mala notte; siete un poco pallido, siete abbattuto.
Florindo. Oibò, non è vero. (sbadiglia)
Rosaura. Voi avete sonno.
Florindo. No davvero. Prendiamo il tabacco. (prende il tabacco, e ne dà a Rosaura)
Rosaura. Buono assai questo rapè.
Florindo. Tenete. (gli dà la scatola)
Rosaura. No, vi ringrazio.
Florindo. Tenete, vi dico.
Rosaura. Non ve ne private voi.
Florindo. Oh, che a me non mancano scatole. Ne ho ordinate due d’oro; ne darò una a voi. (sbadiglia)
Rosaura. Vi ringrazio; la prendo perchè ho da essere vostra sposa; ma quando si concluderanno queste nozze?
Florindo. Presto. (sbadiglia)
Rosaura. Voi avete sonno.
Florindo. No. (strofinandosi gli occhi)
Rosaura. Mio padre bramerebbe due cose. La prima, che voi lasciaste il giuoco: la seconda, che si stabilisse8 il nostro matrimonio.
Florindo. Sì, si stabilirà. (appoggiandosi al tavolino)
Rosaura. E il giuoco lo lascerete?
Florindo. Sì. (si va addormentando)
Rosaura. Voi siete un giovane pieno d’ottime qualità, ma credetemi che il giuoco vi rovina. Tutti dicono che non abbadate alla vostra casa, che trascurate i vostri interessi, che perdete i denari ed il tempo, ed io certamente per causa del giuoco non posso lodarmi di voi... Signor Florindo... Oh meschina me! Si è addormentato. Poverino! Non avrà dormito la notte, non ho cuore di risvegliarlo.
Florindo. Sette. Non v’è9 altro. (dormendo e sognandosi)
Rosaura. Egli sogna.
Florindo. Sette, no, no. (come sopra)
Rosaura. Anche dormendo il giuoco lo tormenta.
SCENA IX.
Brighella e detti.
Brighella. Signor...
Rosaura. Zitto. (sottovoce a Brighella)
Brighella. Cossa vol dir? (sottovoce)
Rosaura. Florindo dorme. Poverino, non lo svegliate.
Brighella. E pur bisognerà desmissiarlo.
Rosaura. Per qual causa?
Brighella. Per causa soa de ela. Ho visto dal balcon vegnir verso de sto casin sior Pantalon so sior padre. Se el vien qua e che el la trova, la vede che desordene.
Rosaura. Oh povera me! Se mi trova, sono perduta.
Brighella. Desmissiemolo.
Rosaura. No, no, lasciatelo dormire. Io partirò. E Colombina dov’è?
Brighella. In camera de mia muier.
Rosaura. Presto, presto, vado via. Se l’incontro colla maschera, non mi conoscerà.
Brighella. No la vol desmissiar sior Florindo?
Rosaura. No, non vi è tempo da perdere. Salutatelo da parte
mia, e ditegli che, se mi vuol bene, venga da mia zia a ritrovarmi, (si pone la maschera, e parte)
Brighella. Che putte de garbo! A torzio10 in maschera a trovar i morosi? Sior Pantalon crede de averla messa in seguro a metterla in casa d’una so zia, ma al dì d’ancuo le zie le son troppo caritatevoli per le ragazze.
SCENA X.
Beatrice mascherata, e detto.
Brighella. Come! Un’altra maschera?
Beatrice. Galantuomo.
Brighella. Signora?
Beatrice. Dov’è il signor Florindo?
Brighella. Eccolo là che el dorme.
Beatrice. Non ha dormito la scorsa notte?
Brighella. Oh, la se figura! L’ha studià tutta la notte.
Beatrice. Come ha studiato?
Brighella. Tutta la notte colle carte in man.
Beatrice. E chi è quella maschera, che ora è partita da questa camera?
Brighella. Mi no so gnente.
Beatrice. Non sapete nulla? Mi maraviglio di voi, che tenete mano a questa sorta di contrabbandi.
Brighella. Mi son un omo onorato, e quando la vol che ghe diga la verità, ghe la dirò, che no me ne importa un bezzo. Chi no vol che le se sappia, no le ha da far. Quella l’era una tal siora Rosaura Bisognosi, promessa co sior Florindo per muier.
Beatrice. Promessa in moglie a Florindo?
Brighella. Senz’altro; l’è cussì.
Beatrice. (Ah traditore! Mi tiene nella speranza di sposarmi, e poi m’inganna?) (da sè)
Brighella. I me chiama. Bisogna che vaga; comandela andar ancor ela?
Beatrice. Voglio parlar con Florindo.
Brighella. Poverazzo! La lo lassa un poco dormir.
Beatrice. Sì, lo lascierò dormire. Aspetterò che si svegli.
Brighella. Se vien zente, no sta ben...
Beatrice. Se verrà gente, me n’anderò.
Brighella. No vorria che vegnisse sior Pantalon; anderò a veder, e se el vegnirà, l’avviserò. (parte)
SCENA XI.
Beatrice e Florindo che dorme.
Beatrice. Anima scellerata! Così mi manca di fede? Meriterebbe che io lo facessi passar dal sonno alla morte. Ah, che ancor l’amo, ancor non posso credere ch’ei mi tradisca. Mi ha promesso, mi ha giurato. Voglio attendere ch’ei si risvegli, e mostrando non saper nulla, ricavare con arte da lui medesimo la verità. (siede)
SCENA XII.
Brighella e detti.
Brighella. Signora, la vada via.
Beatrice. Perchè?
Brighella. L’è qua el socero de sior Florindo.
Beatrice. Il suocero?
Brighella. Signora sì: quello che ha da esser suo suocero.
Beatrice. Ah traditore! Non vo’ scoprirmi.
Brighella. Sior Florindo, la se sveia.
Florindo. I miei denari, i miei denari. (svegliandosi)
Brighella. Cossa è sta?
Florindo. Oimè, i miei denari.
Brighella. Coss’è, s’insonielo?
Florindo. Sì, mi pareva che mi avessero sbancato, mi portavano via li denari.
Brighella. La se desmissia, che vien el sior Pantalon.
Florindo. Il signor Pantalone?
Brighella. Sior sì, la destriga sta maschera, che intanto procurerò de trattegnirlo. (parte)
Florindo. Presto, non sentite che è qui vostro padre? Ritiratevi in quella camera. (a Beatrice, credendola Rosaura)
Beatrice. (L’indegno non mi conosce). (da sè)
Florindo. Sì, mia cara Rosaura, nascondetevi. Eccolo ch’egli viene.
Beatrice. (Lo seconderò, per meglio rilevare la verità). (la chiude in una camera)
SCENA XIII.
Pantalone e Florindo.
Pantalone. (Ola? Zogo e macchina11? Ho trova un bon zenero). (da sè) Servitor obbligatissimo, mio patron.
Florindo. Riverisco umilmente il signor Pantalone.
Pantalone. Chi la vol trovar, bisogna vegnir al casin.
Florindo. Perchè? Io son qui per accidente.
Pantalone. Xe tre zorni, che a casa soa no i la vede.
Florindo. Sono stato in campagna.
Pantalone. In campagna? A mi me xe sta dito che l’è sta sempre al casin, e che l’ha zogà zorno e notte, e che l’ha vadagnà per disgrazia una bona somma de zecchini.
Florindo. Hanno detto male, non è vero; e poi non so chi sieno questi graziosi che misurano i miei passi, e vogliono entrare ne’ fatti miei.
Pantalone. Zente che ghe vol ben, zente alla qual preme la so reputazion, e ghe despiase che per causa del zogo el se rovina cussì miseramente.
Florindo. Ma io non giuoco più.
Pantalone. La senta, sior Florindo, mi son un omo che parla schietto, e no son capace nè de simular, nè de adular. Ela m’ha fatto domandar mia fia, ho avudo qualche difficoltà a dir de sì, no per la so casa, che la stimo e la venero infinitamente, ma per causa del so zogar. I nostri amici comuni, che ha trattà con mi per sto matrimonio, i m’ha assicurà che l’ha lassà assolutamente12 el zogo, e mi su sto riflesso me son lassà indur13 a sottoscriver el contratto, e a darghe mia fia, e a darghe quindese mille ducati de dota. Sta mattina per el fresco me xe sta dito: sior Florindo zoga, sior Florindo fa la so vita al casin, sior Florindo xe tornà quel che el giera. Mi non ho volesto cercar i amici, mi non ho volesto parlar co nissun. Vegno da ela a drettura, e ghe digo che son seguro che l’ha zogà, che non occorre sconderse e dir de no; e che se el gh’ha intenzion de seguitar a zogar, strazzeremo el contratto, e mia fia no la voggio precipitar, e i mi bezzi no li voggio buttar via.
Florindo. Signor Pantalone, anch’io son uomo sincero, e voglio dirvi la verità. Questa notte ho giocato, ma vi prometto che non gioco mai più.
Pantalone. Ste promesse, ste promesse la le ha fatte a centenera de volte, e sempre semo tomai da capo. El vizio xe in te le vissere; e nol se pol lassar, e se dise colla bocca no zogherò più, ma nol se dise col cuor. Za dei bezzi de zogo no se ghe ne cava costrutto; come che i vien, i va. Co se guadagna, i se butta via, co se perde, se suspira. I se tien per moltiplicarli, e in t’una sentada14 i se destruze. Quel che se guadagna in diese volte, se perde in una, e le vincite che fa i zogadori, le xe pezo assae delle perdite; perchè le perdite le serve per disingannarli, e le vincite le serve per allettarli, per lusingarli e per incantarli sul zogo. Questo xe el destin solito dei zogadori: sempre inquieti, colla testa sempre confusa, pieni de speranze e pieni de vizi. Collerichi, bestemmiadori, odiosi co i venze, ridicoli co i perde, senza amici, circondai da stoccadori15 e da magnoni, negligenti, malinconici, malsani, e finalmente distruttori delle so casa e traditori de se stessi, del proprio sangue e della propria fameggia.
Florindo. Signor Pantalone, voi mi avete atterrito. Voi mi avete posto dinanzi agli occhi uno specchio, in cui vedo chiaramente lo stato miserabile del giuocatore. Vi protesto di non giuocar mai più; ora vi consegno li cinquecento zecchini, e non giuoco certamente mai più.
Pantalone. Voggia el cielo che el diga la verità. Se el lo farà, sarà meggio per elo.
Florindo. Mi preme infinitamente la vostra buona grazia e quella della mia cara sposa.
Pantalone. A proposito della sposa. Sior Florindo caro, vegnimo a un altro tomo. Se promesso con mia fia, disè de volerghe ben, la ve preme, e po tendè a delle frasche? Ve devertì colle donne al casin? Me maraveggio dei fatti vostri. Zogo e donne? Do bone prerogative per un putto che se vol maridar. El zogo xe mal, eppur me vorria lusingar, che volendo ben a mia fia, per amor lo lassessi, ma co gh’avè pratiche, a mia fia no ghe volè ben. Sè un busiaro, sè un cabalon, sè un omo scavezzo16 che no farà mai ben, e mi ve digo a averta ciera, che mia fia no xe più per vu.
Florindo. Ah signor Pantalone, voi mi avete in cattivo concetto, eppure non sono qual vi credete.
Pantalone. Cossa me vorressi dar da intender? Non ho visto mi coi mi occhi a sconder una donna in quella camera? Neghemelo, se podè.
Florindo. Non lo posso negare.
Pantalone. Donca sè un discolo, un cabalon.
Florindo. Se sapeste chi è quella maschera, non direste così.
Pantalone. Via, chi xela?
Florindo. Non lo posso dire.
Pantalone. Perchè sè un busiaro.
Florindo. Voi m’incolpate a torto.
Pantalone. Povero fantolini Metteghe el deo17 in bocca. Poveretto! A mi no se me struccola18 zeole19 in ti occhi, avè sconto la macchina. Godevela, e mi strazio el contratto, e no ve voggio più cognosser gnanca per prossimo.
Florindo. Signor Pantalone, vi prego per amor del cielo.
Pantalone. Cossa me pregheu? Che ve tegna terzo a rovinar mia fia?
Florindo. Se non temessi la vostra collera, vi svelerei un arcano.
Pantalone. Coss’è? Qualche panchiana?
Florindo. Mi promettete da uomo d’onore di non andare in collera, se vi dico la verità?
Pantalone. Via, se me disè la verità, ve prometto non andar in collera.
Florindo. Giuratelo.
Pantalone. Zuro da omo onorato.
Florindo. Caro signor Pantalone, compatite un piccolo trasporto d’amore; quella maschera che è là dentro, è la signora Rosaura vostra figlia.
Pantalone. Mia fia? (alterato)
Florindo. Avete giurato di non andar in collera.
Pantalone. Come xela qua sta desgraziada?
Florindo. Sono tre giorni che non mi vede. È venuta per un momento con la cameriera. In quel punto siete arrivato voi, e la povera giovine per timor si è nascosta.
Pantalone. Ah frasconazza! Ma stimo mia sorella lassarla vegnir.
Florindo. Signor Pantalone, avete promesso non andar in collera.
Pantalone. Sentì; me la lasso passar, perchè l’ha da esser vostra muggier; ma che no la fazza mai più de ste cosse. E vu no ghe de motivo de farle; lassè el zogo e voggièghe ben.
Florindo. Oh, lo lascio assolutamente.
Pantalone. Fèla vegnir qua.
Florindo. Siete in collera?
Pantalone. Sior no.
Florindo. Le griderete?
Pantalone. Sior no.
Florindo. Avvertite...
Pantalone. Via, manco chiaccole, fèla vegnir qua.
Florindo. Compatitela. Ora la faccio venire. (va alla camera)
Pantalone. Vardè quella cara mia sorella. Credeva averla messa in t’un retiro, la sta retirada come va. La voi tor colle bone e po’ a casa ghe dirò le parole.
SCENA XIV.
Beatrice mascherata, condotta da Florindo, e detto.
Florindo. Via, signora Rosaura, fatevi animo. Il vostro signor padre non è in collera; vi perdona.
Pantalone. Via, siora, cavève quella maschera.
Beatrice. Eccovi servito. (si smaschera)
Florindo. (Oh diavolo! Che cosa vedo?) (da sè)
Pantalone. Come! Chi seu vu, siora?
Beatrice. Son una, a cui Florindo ha dato la fede di sposo.
Pantalone. Xela questa mia fia? (a Florindo)
Florindo. (Io non so che rispondere). (da sè)
Pantalone. Busiaro, cabalon! Cussì ve burlè de mi? Cussì trattè un omo della mia sorte? Andè via, che ve scarto. A casa mia non abbiè ardir de vegnir. Mia fia no la stè a vardar, sior poco de bon, sior omo cattivo, zogador, discolo, malvivente, omo senza reputazion. (parte)
Beatrice. Indegno, traditore, assassino. Ho scoperte le tue menzogne, i tuoi tradimenti. A tempo giunta sono per fare le mie vendette. Le ho solamente principiate, ma giuro di terminarle: e ti farò pentir d’avermi scelleratamente ingannata. (parte)
SCENA XV.
Florindo solo.
Oh maledettissimo incontro! Come diavolo andò la faccenda? Frattanto ch’io dormiva, è partita Rosaura ed è venuta Beatrice? Oppresso dal sonno non l’ho riconosciuta; e poi quella veste nera e quel zendale mi ha fatto travedere. Me infelice! Che sarà mai! Piuttosto che ritrovarmi in un caso tale, vorrei aver persi tutti i denari al giuoco. Presto, convien rimediarvi. Andrò a ritrovar qualche amico. Farò parlare al signor Pantalone. Procurerò vedere la signora Rosaura; le scriverò una lettera, l’avviserò di tutto. Beatrice me la pagherà. Non doveva mai farmi quest’azione. Ma quello che si ha da fare, convien farlo presto. Subito, immediatamente, non voglio perdere un momento di tempo.
SCENA XVI.
Lelio, Tiburzio e detto.
Lelio. Amico, vi sono schiavo.
Florindo. Padroni, vi riverisco.
Lelio. Mi rallegro con voi.
Florindo. Di che?
Lelio. Dei cinquecento zecchini.
Florindo. Eh bagattelle! Dite, avete saputo di quel maledetto sette?
Lelio. Sì, l’ho saputo; gran disgrazia!
Florindo. Son veramente sfortunato.
Lelio. Ehi, vedete quel signore? (a Florindo, accennando Tiburzio)
Florindo. (Chi è?)
Lelio. (Un cavalier forastiere. Un gran giuocatore).
Florindo. (Ha denari?)
Lelio. (Ha una borsa con quattro o cinquecento zecchini).
Florindo. (Mi dispiace che ora non posso; ho un affar di premura).
Lelio. (Se perdete questa occasione, non vi capita mai più la vostra fortuna).
Florindo. (Fatelo venir questa sera).
Lelio. (Dubito che questa sera vada via. Fate quattro tagli, e se va bene, piantatelo).
Florindo. Volete che tagli io?
Lelio. Sì, tagliate voi.
Florindo. Via, ditegli qualche cosa. Brighella. (chiama)
SCENA XVII.
Brighella e detti.
Brighella. Signor.
Florindo. (Portate dei mazzi di carte). (sottovoce a Brighella)
Brighella. (Gh’è dei gran sussurri). (a Florindo, piano)
Florindo. Animo; carte. (come sopra)
Brighella. (Quando se tratta de zogar, nol s’arrecorda altro). (da sè, parte)
Lelio. (Giuochiamo a metà?) (piano a Tiburzio)
Tiburzio. (Sì, a metà).
Brighella. Ecco le carte. (La procura de giustarla col sior Pantalon). (a Florindo)
Florindo. Non mi seccate.
Brighella. Mi no lo seccherò più; sti siori ghe seccherà la scarsella. (parte)
Florindo. Signori, si vogliono divertire? Ecco un piccolo banco di dugento zecchmi. (vuota la borsa in tavola)
Lelio. Sì, divertiamoci un poco. Animo, volete puntare? (a Tihurzio)
Tiburzio. Lo farò per compiacervi. Per accompagnarvi il punto. (siedono)
Florindo. Animo, signori, ecco fatto il taglio.
Tiburzio. Sette, a due zecchini.
Florindo. Cari signori, so che è cattivo giuoco; ma vi prego per finezza di non mettere il sette.
Tiburzio. Per qual ragione?
Florindo. Perchè da ieri in qua il sette mi costa un tesoro.
Tiburzio. Metterò un altro punto. Tre, a due zecchini.
Lelio. Fante, a sei zecchini.
Florindo. Tre e fante. Tre ha vinto. Fante ha vinto. (paga, mescola, poi taglia)
Tiburzio. Tre. (mettendo vari zecchini in tavola)
Lelio. Fante. (facendo lo stesso)
Florindo. Capperi! Avete ben cresciuta la posta.
Tiburzio. La nostra seconda.
Florindo. Ecco il tre, avete vinto. (sfogliando le carte)
Tiburzio. Paroli.
Florindo. È andato. Fante ha vinto. Che diavolo ho in queste mani?
Lelio. Paroli.
Florindo. Va subito. Oh maledetto fante! Or ora conteremo. Ecco il tre. Per dar i paroli son fatto a posta. Contiamo. Il tre venti zecchini, tre via venti sessanta; il fante trenta zecchini, tre via trenta novanta; in un taglio cento cinquanta zecchini, è qualche cosa. Chi è di là?
Brighella. La comandi.
Florindo. Portatemi una borsa di dugento zecchini. (mescolando le carte)
Brighella. Subito. (Quel che vien de tinche tanche, se ne va da ninche nanche). (da se, parte)
Tiburzio. Tre al banco.
Florindo. (Fa il taglio.)
Lelio. Fante al banco.
Florindo. Maledettissimo fante! (straccia le carte, prende un altro mazzo)
Lelio. (Tira il banco.)
Brighella. Son qua. (colla borsa)
Florindo. Presto denari.
Brighella. (Poveri bezzi, i me fa pecca!) (da sè) La se ricorda del sior Pantalon. (piano a Florindo)
Florindo. Non mi rompete il capo.
Brighella. (Magari che el perdesse anca la camisa). (da sè, parte)
Florindo. Animo; ecco tagliato.
Lelio. Cinque.
Tiburzio. Nove.
Florindo. Cinque e nove. (giuoco) Nove; il diavolo dorme, ne ho tirata una; cinque, eccolo qui; tutti i punti contrari. (mescola e taglia)
Lelio. Cinque.
Tiburzio. Sette.
Florindo. Il sette non lo tengo.
Tiburzio. Se non tenete il sette, non giuoco più.
Florindo. Via, per questa volta lo terrò. (giuoca) Cinque. Oh diavolo, diavolo! Subito la seconda.
Lelio. Paroli.
Florindo. Voglio perder la testa. (giuoco) Ecco il sette. Oh maledetto sette!
Tiburzio. Alla pace.
Florindo. No, paroli
Tiburzio. Benissimo, paroli.
Florindo. Se do questi due paroli, mi voglio tagliar le mani. (giuoca) Oh sette, sette! Oh, diavolo, portati questo sette. Sudo tutto, non posso più; ecco il fante, ecco il fante; povero me! Li do tutti. Brighella, Brighella.
SCENA XVIII.
Un Servitore e detti.
Servitore. Illustrissimo, messer Brighella non c’è.
Florindo. Dov’è andato?
Servitore. A provvedere alcune cose per il pranzo di vossignoria illustrissima.
Florindo. Chi ha le chiavi del denaro?
Servitore. Messer Brighella non dà le chiavi a nessuno.
Florindo. Presto, cercatelo... Ma no, fermate... Dove tiene i denari? Butterò giù la serratura.
Servitore. Io non lo so dove tenga i denari.
Florindo. Presto, dico, a cercar Brighella subito. Se non lo trovi, ti rompo la testa con un bastone.
Servitore. Vado subito. (Il giuoco fa diventar tutti diavoli). (da sè, parte)
Florindo. Quando viene Brighella, gli voglio dare dei calci. Se fosse qui, gli getterei un mazzo di carte nel viso.
Lelio. Amico, non v’inquietate. Per ora basta così, giuocheremo un’altra volta.
Florindo. Aspettate un momento. Brighella. (chiama)
Tiburzio. Verremo oggi a ritrovarvi.
Florindo. Venite a pranzo da me.
Lelio. Via, verremo a pranzo con voi.
Florindo. Anche voi, signore. (a Tiburzio)
Tiburzio. Riceverò le vostre grazie.
Florindo. Ma non mancate.
Lelio. Vengo infallibilmente, e giuocheremo.
Florindo. Sì, giuocheremo fino a domani.
Lelio. (Se anderà bene, giuocherò; se anderà male, mi contenterò di questi). (da sè, parte)
Tiburzio. Signor Florindo, a buon riverirla.
Florindo. A pranzo v’aspetto, ma vi prego per grazia, non mettete il sette.
Tiburzio. Non lo metterò. (Quando è riscaldato dal giuoco, tiene il sette, tiene tutto, perde come un disperato). (da sè, parte)
SCENA XIX.
Florindo, poi Brighella.
Florindo. ( Va smaniando per la camera, battendo i piedi, stracciando le carte, buttandosi sul canapè e alzandosi, parlando come segue) Quattrocento zecchini, quattrocento zecchini in tre o quattro tagli? Tutti i punti? Tutti i paroli? Quel maledetto sette! Ma che dico del sette? Il fante! E il cinque! Tutti, tutti! Diavolo, portami; tutti!
Brighella. Me domandavela?
Florindo. Ora venite?
Brighella. Son andà a comprar della roba.
Florindo. Foste andato a farvi impiccare.
Brighella. Cussì la parla con mi? Cossa gh’oio fatto?
Florindo. Per causa vostra ho perso quattrocento zecchini.
Brighella. Per causa mia? Come?
Florindo. Sì, per causa vostra. Siete andato via; non ho potuto avere altri denari, non mi son potuto rimettere.
Brighella. Se ghe ne dava dei altri, la perdeva anca quelli.
Florindo. Siete una bestia.
Brighella. Ma lustrissimo, non posso più sopportar d’esser strapazzà. Son un galantomo. Oltre el mio debito, la servo da fattor e da mistro de casa, e anca se occorre da staffier, e la me maltratta cussì?
Florindo. Caro Brighella, compatitemi, la passione mi opprime, non so quello ch’io mi dica.
Brighella. E la vol seguitar a zogar?
Florindo. Se posso rifarmi de’ miei quattrocento zecchini, non giuoco mai più.
Brighella. E per refarse de quelli, la perderà quei altri.
Florindo. Non mi fate cattivo augurio. Voi mi avete detto così anche questa mattina, e per questo ho perso.
Brighella. Sì ben, mali auguri, superstizion, tutte cosse da zogadori.
Florindo. Come anderà il pranzo?
Brighella. L’anderà ben, averò speso diese zecchini; anzi, se la me i favorisse, la me farà una finezza.
Florindo. Ve li darò, avete paura che non ve li dia?
Brighella. Ma ghe ne averia bisogno per un mio interesse. (Li vorria avanti che el li perda tutti). (da sè)
Florindo. Adesso non ne ho.
Brighella. Comandela che li toga fora del sacchetto?
Florindo. Signor no. Il sacchetto dei trecento zecchini non si ha da toccare per ora.
Brighella. Ah, la lo vol perder cussì bello e intiero.
Florindo. Non mi parlate di perdere, che vi venga il malanno.
Brighella. Ecco qua, subito strapazza.
Florindo. Per oggi non mi tormentate.
Brighella. La vada a trovar el sior Pantalon.
Florindo. Vada al diavolo anche Pantalone.
Brighella. Siora Rosaura l’aspetta.
Florindo. Maledette anche le donne.
Brighella. Tutte?
Florindo. Lasciatemi stare.
Brighella. El zogo lo trasforma e lo farà deventar matto.
Florindo. Petulante, insolente, se non avrete creanza, adoprerò il bastone. (parte)
Brighella. El baston? Anca el baston? A sta sorte de eccessi arriva un omo scaldà dal zogo? El signor Florindo l’è stà sempre dolce de temperamento, onesto, proprio e civil, e per el zogo l’è deventà insoffribile. Aspetto che el fazza delle iniquità. Gran vizio l’è quello del zogo, gran vizio! Donne e zogo xe20 do brutti vizi. Però le donne, quando se vien vecchi, bisogna lassarle per forza, ma el zogo el se porta anca alla sepoltura.
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Le ore italiane si contavano dal suono dell’avemaria, fino a 24.
- ↑ Bene.
- ↑ Desmissiar, destare.
- ↑ Paper.: assolutamente.
- ↑ Paroli, posta doppia. «Nel giuoco del faraone o della bassetta significa ti doppio di quello che si è giuocato per la prima volta»: G. Boerio, Diz.io del dialetto ven. cit.
- ↑ La vecchia zia Gandolfa, nelle scene che seguono, apparisce ancor nubile. Distrazione goldoniana?
- ↑ Paper.: non son.
- ↑ Paper.: stabilisca.
- ↑ Pap., Savioli, Zatta ecc.: va.
- ↑ A torzio, a zonzo: v. Boerio.
- ↑ «Donna di partito» spiega altrove l’autore: vedi vol. II, p. 491, nota e.
- ↑ Savioli e Zatta: che l’ha lassà andar.
- ↑ Sav. e Zatta: e i m’ha indotto. Nell’ed. Paper, manca una riga.
- ↑ Seduta.
- ↑ Scrocconi. Manca in Boerio.
- ↑ Scapestrato: v. Boerio.
- ↑ Dito
- ↑ Strucolar, stringere con affetto. Qui vale strizzare.
- ↑ Cipolle.
- ↑ Pap., Sav. e Zatta: i è.