Il rapimento d'Elena
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IL RAPIMENTO D’ELENA
DEL POETA
COLUTO TEBANO DI LICOPOLI.
NINFE Trojane, o voi, che Schiatta siete
Del fiume Xanto e che sovente i veli
Del crin lasciando, e de le mani i giuochi,
Che sacri sono, entro le patrie arene
D’Ida a le danze in bel drappel v’uniste;
Or fuori uscendo del sonoro fiume
Venite, e la sentenza a me narrate
Del Pastor, che per Giudice fu eletto.
E donde è mai, che giù da’ monti ei venne
Per insolito mare navigando,
Indotto ancor ne le marine cose?
Qual uopo fu de le funeste navi,
Sicchè agitasse e mare e terra un solo
De’ buoi custode? E qual de le contese
La repentina origine fu mai,
Sicchè desser giudizio agl’Immortali
Anche i Pastori? E qual giudizio è questo?
Onde udì ’l nome de la Sposa Argiva?
Giacchè venendo sul bifronte giogo
Del Promontorio Ideo, voi già vedeste
Paride star sovra romiti seggi,
E di gioja esultar per la vittoria
Venere, che Regina è de le Grazie.
Quando a’ cenni di Giove in su gli eccelsi
Tessali monti Ganimede il vino
Di Peleo là tra gl’Imenei porgeva,
Vennero ad onorare i Numi tutti
Tetide la Sorella d’Amfitrite
Di bianche braccia: E giù dal cielo Giove,
Dal mar Nettuno e conducendo venne
Apollo dal dolcissimo Elicona
L’arguto coro de le pronte Muse.
Giunon seguillo ancor, Suora di Giove,
Nè la Regina Venere, la stessa
D’Armonia Madre ritardo, venendo
Anch’Ella a’ boschi di Chiron Centauro:
Venne intrecciando nuzial corona
Pito la Diva, e la faretra avea
Del saettante Amore: Ancor Minerva
L’orrid’elmo dal capo deponendo
Scese a le nozze, non di nozze esperta.
Nè le sprezzò, benchè più sia selvaggia,
Diana, ch’è d’Apolline Sorella,
E di Latona Figlia. E qual si reca,
Non l’elmo o la nemica asta scotendo,
Di Vulcano a la Casa il ferreo Marte;
Tal ridendo saltava in quel convito
Senza corazze e senza il ferro acuto.
Ma non calse a Chiron (nè a cor sel prese
Già Peleo) di lasciar disonorata
La Dea Discordia. Su i capei dorati
Bacco bensi scuotendo in ogni parte
L’uve, sua chioma a’ Zefiri spargeva.
La Discordia però, come giovenca,
Che, mentre parte da l’erboso pasco,
Errando va per le deserte selve
Dal sanguinoso agitator de’ buoi
Estro battuta in simil guisa anch’essa
Punta da’ gravi colpi errando giva
Il modo a ricercar con cui la mensa
Turbasse de gli Dii; spesso balzando
Da la sedia di sasso in piè s’ergeva,
E poi sedea di nuovo: a terra stese
La mano, e pietra non trovò. Volea
Quindi sonoro fulmine di foco
Cavar (da le voragini terrestri
Risvegliando i Giganti) è il Ciel, soggiorno
Di Giove altipotente, arder col foco.
Ma benchè irata fosse, era pur anche
A Vulcano soggetta, e al Direttore
Del foco inestinguibile, e del ferro.
Lo strepito pensò gravisonante
De gli scudi eccitar, sicchè atterriti
Uscisser fuora a quel rumor gli Dii.
Ma nuovo inganno meditò, temendo
Il ferreo Marte, che lo scudo porta.
Ella si ricordò de gli aurei pomi
Allor d’Esperia; ed un presone in mano,
Che fu il germe primier poi de la guerra,
Sopra vi meditò le illustri gare.
Nel convito gittollo, onde sconvolse
Il coro de le Dee. Giunon superba
Per lo letto di Giove, e sua Consorte
Ammirando lo stava, e farne preda
Volea. Venere ancor, come più bella
De l’altre tutte aver volea quel pomo,
Perchè retaggio de gli Amor poi fosse.
Ma la discordia de le Dee vedendo
Giove, chiamato il giovane Mercurio,
Che al convito sedeva, a dir gli prese.
Se tu per sorte hai conosciuto, o Figlio,
Là presso a’ fiumi del Trojano Xanto
Paride, ch’è di Priamo figliuolo,
Quell’illustre garzon, pastor di Buoi
Sovra i monti di Troja, a lui dà il pomo̟;
Ordina a lui di giudicar le Dee,
E la bella union di lor palpebre,
E de’ lor visi il giro. A quella poi,
Che la famosa porterà sul volto
Bellezza a quella ancor tocchi l’onore
Dopo il giudizio di sì nobil pomo.
Tanto impose a Mercurio il Padre Giove,
Onde a’ paterni cenni ubbidiente
Ei per la strada le guido, prendendo
Di lor cura e governo. Ognuna intante
Pregiavasi e aver maggior bellezza;
E Venere con arte il vel del capo
Spiegando, e de le chiome l’odorosa
Fibbia partendo, i suoi bei ricci d’oro
Fe’ adorni, e d’oro anche la sparsa chioma;
E volta a’ Figlj Amori, a dir lor prese.
Vicina o cari Figlj, ecco la gara:
Deh la Madre ajutate: Oggi del volto
Mio lo splendor giudicherà qual sono.
Ma temo a chi per dar sia ’l pomo questo
De’ buoi Custode. Veneranda Madre
De le Grazie che sia dicon Giunone:
Dicon, che regge impero,e che ha gli scettri,
Anche Minerva chiamano mai sempre
De le guerre Regina: io sola sono
Venere, imbelle Dea; non ho l’impero
De’ Re non l’asta marzial, nè il dardo.
Ma perchè mai senza ragion pavento?
Come se asta veloce avessi, io porto
De l’asta in vece un cingolo vezzoso,
Vincolo de gli Amori, al par del mele
Dolce, e con sorza pungo, e l’arco innalzo:
Cingol, per cui de l’Amor mio provando
L’estro, senton di spesso acerbe doglie,
Ma non per questo muojono le Donne.
Così parlava, il suo cammin seguendo,
La Dea Ciprigna da le rosee dita;
E i compagni Amoretti udendo intanto
I cari cenni de la Madre, anch’essi
Confermavan suoi detti. E già Mercurio
Era del monte Ideo salito in cima,
Mentre pasceva la paterna greggia
Paride giovanetto e la pasceva
Divisamente presso al fiume Anauro;
Quivi la mandra de gli agresti Tori,
Quivi le truppe de l’ingorde agnelle.
A gli omeri di lui la pelle stava
Pendendo giù d’una montana capra,
Ed avea presso il pungolo, che muove
Al corso i Buoi. Così del flauto al fusone
Lento i passi movendo, ei ne le canne
Formava un dolce rustical concento.
E spesso ancor ne solitarj ovili,
Vago sol di cantar cura non prese
De’ tori, e de le agnelle; onde tenendo
Il flauto, come è de’ Pastor buon uso,
A Pane, ed a Mercurio amici versi
Cantava e allora non latravan cani,
E Toro non muggia. Ma l’Eco sola,
Piena di vento e nel parlare indetta,
D’organi priva da l’Idee montagne
Suono rendeva. E saziati i Tori
Poi con la cima de la verde erbetta
Stando inchinati fu le pingui cosce
Prendean riposo, allorchè sotta a l’ombra
De l’alte piante il Pastorel cantando
Da lungi vide il Messaggier de’ Numi
Mercurio e pieno di timor levossi,
Che non soffriva de le Dee l’aspetto.
E d’un albero appiè le ben sonanti
Dolci canne lasciando, il canto ruppe
Non stanco ancora. Il Dio Mercurio intanto
Al timoroso in guisa tal parlava.
Posto in bando il timor, posta in non cale
La bella greggia a proferir quà vieni
Il tuo parer su le celesti Dee.
Vieni di loro a giudicar qual abbia
Maggior bellezza in volto, e a la più vaga
Porgerai questo pomo, amabil germe.
Tanto egli disse, e Paride fissando
L’occhio vezzoso, a divisar s’accinse
Placidamente la Beltà d’ognuna.
Mirava lo splendor de gli occhi azzurri,
Mirava il collo e riguardava attento
Gli ornamenti, che d’oro ognuna avea:
Fin del calcagno, e de le piante loro
Le figure osservò. Quindi Minerva
Preso per man, pria che ’l giudizio desse,
Il giojoso Alessandro, a lui diceva.
Vien quà, figliuol di Priamo, lasciando
La Consorte di Giove e non curata
Venere, che de’ talami è regina,
Loda Minerva, che ha in poter la forza,
Sento, che impero hai tu che tu difendi
La Trojana Città: vien quà, sarotti
Io de gli uomini afflitti Protettore;
Perchè Bellona in avvenir non mai
Grave di sdegno amareggiar ti possa.
Ubbidiscimi dunque, e ad esser forte
Insegnerotti, e de la guerra l’arte.
Sì favellò la saggia Dea d’Atene
Nè avea finito ancor, quando a lui disse
Così Giunone da le bianche braccia.
Se me più bella giudicando, il frutto
Tu mi vuoi dare io ti farò di tutta
L’Asia nostra Signore: Ah non far conto
De le belliche cose. A che mai queste
Giovano ad un, ch’è di Città Rettore?
Un, ch’è Signor, comanda ai forti, e ai vili:
E non sempre fan poi leggiadre imprese
Di Minerva i seguaci; anzi più presto
Muojon color, che servono a Bellona.
Tal Signoria Giunon gli offerse, quella
Che ha ’l primo Trono. Ma la Dea Ciprigna
Snudando a l’aria la pieghevol veste
Il seno alzò, nè già rossor la prese;
E de gli Amori il cingolo slacciando
Dolce qual mel, tutto snudossi il petto,
Nè le poppe obbliò. Quindi ridendo
In simil guisa al Pastorel parlava.
Prendi, e in obblio manda le guerre, prendi
La beltà nostra, e non curar gli scettri,
Nè la terra de l’Asia. Io de la guerra
L’opre non so: Poichè qual uopo ha mai
Venere de gli scudi? Hanno assai pregio
Ne lo splendor de la beltà le Donne
Più, che ne l’armi. De la forza in vece
Io ben darotti un amorosa moglie,
E in vece de l’impero, ai letti sopra
Andrai d’Elena bella. In guisa tale
Sposo ti mirerà Sparta con Troja.
Finito di parlar non ebbe ancora,
Ch’ei lo splendido pomo a Vener diede,
Dono de la Beltà, gran Ben ma insieme
D’una gran guerra origine, e semente.
E Venere tenendo in man quel pomo
Alzò la voce, ed a schernir Giunone
Prese, e con essa Pallade guerriera.
Compagne ne la gara a me sedete,
Cedete la vittoria: Io la Bellezza
Ho amato, e la Bellezza or m’accompagna.
Dicon pure, o Giunon madre di Marte,
Che de le Grazie che han la bella chioma,
Con doglie hai partorito il sacre coro.
Com’è, ch’oggi da tutte abbandonata
Fosti, e in ajuto non trovasti alcuna?
O Giunon de gli scudi alta Regina,
Marte non t’ajutò, sebben con l’asta
Marte fa stranie cose; e ancorchè Madre
Di Vulcano tu sia non ti giovaro
Le vive fiamme, ch’ei produce ognora.
Ma qual superbia ha mai quella di vento
Piena Minerva, cui le nozze vita
Non dier, nè partorío Madre veruna.
Non generata, dal paterno capo
D’un ferro il taglio te produsse, e avesti
La radice da un ferro. Oh come il corpo
Tu con vesti di bronzo hai ricoperto?
Come fuggi l’Amor? L’opre di Marte
Come tu siegui? A te concordia è ignota,
Tu di nozze non sai: Ma non sai pure
Minerva, che più fiacche, e imbelli sono
Queste tue pari, e di color, che tanto
Son gloriose ne le illustri guerre,
Se s’hanno quindi a giudicar le membra,
Uomini non appajono, nè Donne.
Con tai rampogne Venere a Minerva
Parlava, e tale ebbe di sua Beltade
Premio poi tanto a le Città dannoso,
Giunon scacciando, e Pallade dolente,
Ma Paride infelice arso d’amore
Dietro un’ignota Donna entro una densa
Selva periti artefici condusse
E caddero le quercie ivi recise
Per consiglio di Fereclo, che autore
Fu d’ogni mal, che lusingando il folle
Rege Alessandro, con l’acuto ferro
Fabbricò navi, in cui col mar cangiando
I monti d’Ida e Venere sua scorta
Prefide de le Nozze ognor più amica
Rendendo a se co’ sagrifizj spessi,
Che fea sul lido, l’Ellesponto prese
Su l’ampio a navigar dorso del mare.
Ma comparvero a lui segni frattanto
Di ben grandi sciagure. Il mar gonfiato
Cinse d’oscuro vel de l’orse il Cielo:
E ne l’aria nembosa insorta pioggia
Crebbe sul mare: onde battendo i remi
E ’l Dardanio cangiando, ed il Trojano
Paese allor, trascorse navigando
La bocca de l’Ismarica palude:
E passò quindi del Pangeo di Tracia
Le cime, e vide la nascente tomba
Di Fillide infelice, arsa d’amore
E vide il corso ancor, che ha nove giri,
De la fallace via, dove piangeva
Fillide passeggiando il suo marito
Mentre aspettava con dolor, che illeso
Ritornasse dal popolo d’Atene
Demofoonte. Or mentre gía scorrendo
L’ampia Tessaglia, a lui si fean davanti
D’Acaja le Città, Fria popolosa,
E poi Micene da le larghe trade.
Di quì passando a’ prati, a cui d’appresso
Comincia l’Erimanto, intese poi,
Che a riva de l’Eurota eravi Sparta
Ricca di belle Donne, e Città cara
Al figliuolo d’Atreo. Mirò vicina
Pien di stupor l’amabile Terapne
Del monte star sotto l’ombrosa selva.
Nè v’era quindi a navigar gran tratto,
Nè molto ancor per lo seren s’udía
Lo strepito de’ remi: e già nel seno
De la terra i nocchier gittando funi,
Legar la nave al desiato lido.
Paride allor lavandosi con pura
Acqua, fea come timorosi i passi,
Perchè non fosser i vezzosi piedi
Di polvere imbrattati, e perchè soffio
D’aura, mentr ei più frettoloso gisse,
Non scomponesse a lui la sparsa chioma,
Che dal cappel fuor esce: e riguardando
De’ Cittadin, cui gli Ospiti son cari,
L’eccelfe Case, ed i vicini Templi,
A lo splendor de la Città fea mente:
Ivi ammirava il simulacro d’oro
Di Pallade la Dea, che Sparta adora:
E gli occhi altrove rivolgendo, vide
Anche la statua di Carneo Giacinto,
Di cui sapendo il popolo Amicleo,
Che giovinetto era l’amor d’Apollo,
Temeva, che sdegnatasi di Giove
La Dea Latona, anche costui rapisse.
Ma non conobbe Apollo esser lo stesso
Caro a Zefiro ancor mentre ’l guardava.
E la Terra per far piacere al Rege
Apollo, che piangeva, un fior produsse,
Fior d’Apollin conforto, e de lo stesso
Nome, che aveva il giovinetto illustre.
Ma già di Menelao Paride stava
Presso a l’eccelsa Casa, e in lui divina
Grazia brillava: nè sì amabil figlio
Già partorito avea Semele a Giove:
Perdona, o Bacco, che hai per Padre Giove.
Poi ch’era al sommo ancor Paride bello
Ne lo splendor del volto. Elena allora
Le stanze aprendo con la chiave, amiche
A gli Ospiti, passò poi per la sals;
E lui mirando, che a le ornate porte
Si stava, come il vide, ed osservollo,
Nel gabinetto lo condusse ancora;
E lo fece seder su nuovo scanno
D’argento, nè in guardarlo era mai sazia;
Ma sebben di mirar credea da prima
L’avreo figlio di Venere, il Ministro
Del letto nuzial; conobbe al fine,
Che Amor non era non avendo accanto
La faretra de’ dardi. Anche talvolta
Pensava di veder ne la splendente
Serena faccia de le viti il Rege,
Ma poi stordita alzò la voce,e disse:
Forestier, donde sei? Dimmi la Patria
E l’amabile stirpe. Un Re tu sembri
D’invidia degno a lo splendor del volto:
Ma presso a’ Greci io non conobbi certo
La stirpe tua. Ne l’arenosa Pilo,
Ch’è ’l terren di Neleo, tu non dimori,
Poi che Antiloco io vidi e te non mai.
Patria non t’è la graziosa Ftia,
D’Eroi nutrice, poi che tutta io vidi
La razza de gli Eacidi onorata;
L’illustre Peleo, Telamon famoso,
Patroclo costumato, e’l forte Achille.
Così a lui disse l’ansiosa Donna,
A cui piacevolmente egli rispose.
Hai tu sentito nei confin di Frigia
D’una terra parlar, che chiaman Ilio,
Che di mura arricchir Nettuno e Apollo?
Sentito hai tu d’un Rè felice in Troja,
Che da la stirpe fortunata scende
Del figliuol di Saturno? Io quindi nato
La mia paterna schiatta in me dimostro
Col retto oprar. Figlio ben caro, o Donna,
Di Priamo son io, che d’oro abbonda;
Io da Dardano vengo, ed ei da Giove.
E poichè giù dal Ciel scendendo i Numi
Ad albergar con gli uomini, talvolta
Servono lor, benchè immortali sono;
Nettuno e Apollo ne la Patria nostra
Fabbricar mura eterne. Io poi, Regina,
Giudice son di Dee; giacchè formando
Di lor sentenza, io con dolor de l’altre
Lo splendore di Venere anteposi,
E l’amabil bellezza. Ed Ella poi,
Per alto guiderdon de l’opra mia,
Adorabile Sposa a me promise
Una Sorella sua, ch’Elena ha nome:
Per cui sol di passar già tanti mari
Soffersi. Orsù, qui celebriam le nozze:
Citerea lo comanda. Oh Dio! Non farmi
Tu quest’ingiuria, e non biasmar mie nozze.
Non parlo più: poichè ’l parlar, che giova
Più lungamente a te, che tutto sai?
E tu sai pur, che d’una razza imbelle
E’ Menelao nè v’è tra Greci alcuna
Donna qual tu poichè crescendo l’altre
Con più debili membra, han a’uomin forma,
Ond Donne legittime non sono.
Così disse; e fissò l’amabil faccia,
Per lungo tempo dubitando, a terra,
Nè rispondea la Ninfa: alfine poi
Cosi stordita alzò la voce e disse:
O Forestier, de la tua Patria certo
Io volli un giorno contemplar le mura,
Quelle grandi opre de gli eterni Dii,
Che un tempo fabbricar Nettuno, e Apollo.
Volli veder que’ pascoli odorosi
Del solitario Apollo, ove sovente
Egli seguiva i curvi buoi ne’ piedi
Presso a’ ripari de le Porte alzati
Per suo consiglio. Or se da Sparta a Troja
Mi vuoi condur, ti seguirò, siccome
Vuol de le Nozze Citerea Regina.
Ed io non temo Menelao, quand’egli
Intenda poi, ch’io son venuto a Troja
Tal feo patto con lui la bella Ninfa.
Ma la notte ristor de le fatiche,
Del Sol dopo i viaggi suscitando
Il sonno, più rendevalo leggieri
Su l’ormai giunta Aurora; e le due porte
De’ sogni al Mondo Spalancava; l’una
Di corni fatta; ed è del ver la porta;
Ond escon de gli Dii le vere voci:
E l’altra, che la porta è de l’inganno,
E che de’ sogni inutili è Nutrice.
Paride allor fu le marine navi
Elena trasportò da gli ospitali
Letti di Menelao, superbo al sommo
Per le promesse de la Dea Ciprigna,
E gia di fretta d’una guerra il peso
Ad Ilio conducendo. Ermione intanto,
Gittando a’ venti il vel, forte piangeva
Al nascer de l’Aurora: onde prendendo
Spesso le ancelle sue fuori de’ letti
Con grida acute alzò la voce, e disse:
Donzelle, ov’è, che la mia Madre andossi,
Me qui tra molte lagrime lasciando?
Feri insieme con me prese le chiavi
Del talamo e a dormir meco sen venne
Giacendo in un sol letto, e prese sonno.
Così disse piangendo, e le raccolte
Figlie piangendo anch’esse in ogni cante
De le porte a l’ingresso ivan tentando
Di confortare Ermione dolente.
Datti pace, dicean, Figlia, e non piangi:
La Madre sen andò, ma fia, che torni
Tosto che inteso avrà, che tu sospiri.
Non vedi, che s’inchinano già fiacche
Le guancie? poichè ver, che si dimagra
La faccia di colui, che troppo piange.
O ch’ella andò, la retta via smarrendo,
Ad un Coro di Vergini raccolte,
E vi sta malinconica, e passando
De l’Ore al prato, in rugiadoso campo
Dimora, o per lavar nel patrio fiume
Il corpo, in riva de l’Eurota alberga.
Ma piena di dolor così rispose
Lagrimando la povera fanciulla.
Ella pur troppo sa la via del monte,
E sa il corso de’ fiumi, e sa le strade
Al rosajo ed al prato. Oh che mi dite,
Donne Già cadon gli astri, e pur tra scoglj
Ella ancor dorme; sorgon gli astri intanto,
Ed ella ancor non torna. O Madre mia,
Che luogo baitu? Sovra qual monte hai stanza?
Than forfe uccifa, mentre eri perduta,
Le fiere? Ah no, poichè le fiere stesse
Temon la stirpe de l’illustre Giove.
Sei tu caduta giù da’ monti al piano
Lasciando il corpo tuo fra le deserte
Selve? ma scorso bo de’ fronzuti boschi
Le ombrose piante, fino a’ rami stessi,
Nè’l tuo corpo incontrai: No, non adunque
Accusiamo la selva. Il piacer forse
Di gir nuotando, te sommersa ascose
Nel sacro fiume del fecondo Eurota?
Ma dentro i fiumi ancora e nel profondo
Del mar vivon le Najadi, nè mai
Si sente, ch’esse uccidano le Donne.
Così piangeva, ma chinando il collo
Prese a dormir, giacchè compagno il sonne
E’ del morire; e se comun tra loro
Hanno ogni cosa, egli è ben forza ancora,
Che l’opre stesse amministrando il sonno
Del suo maggior Fratel, morti ne renda
Anche al dolore. Onde le meste avendo
Palpebre spesso cariche di sonno
Dormone allor che piangono le Donne.
Così a la stessa Ermione ingannata
Da l’industria de’ sogni, allor parca
La Madre di mirar. Perciò stordita
Così parlò, non ben placata in tutto.
Feri fuggita sei fuor de le stanze
Da me, che or piango, e abbandonata m’hai;
Mentre dormiva entro i paterni letti.
Deh qual monte io lasciai, che non cercassi,
Ovver quai colli? Così dunque andavi
Fra i legami di Venere leggiadra?
Rispose a lei di Tindaro la Prole:
Non mi sgridar, benchè dolente sei,
O Figlia mia, perchè tai cose io soffra.
Oh Dio! quell’uomo ingannator, che ieri
Quà venne mi rapi. Tanto rispose,
E la Figlia levossi, e non vedendo
La Madre, alzò più acuta voce e disse:
O voi uccelli de l’aerea stirpe
“Alati figlj, a Menelao narrate
Tornando in Creta, che venuto ieri
A Sparta un traditor, de le mie Case
Tutto, oimè lo splendor seco portossi.
Così con molte lagrime la Figlia,
Gittando a l’aria le querele, e i detti,
Cercava in van la Genitrice amata.
Per le Città de la Ciconia intanto
E per lo passo de l’Eolica Elle
Menò l’amante la novella Sposa
Fino a’ porti di Dardano. Ma spesso
Strappavasi la chioma, e il velo d’oro;
Che avea sul capo, al suol gittò Cassandra,
Allor che rimirò da l’alta rocca
La nuova Donna. Ma le chiuse, ed alte
Sue porte intanto spalancando Troja,
Paride, che tornò, con festa accolse,
Il Cittadin, che d’ogni mal fu autore,