Il re della montagna/10. La festa del martirio di Hussein

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10. La festa del martirio di Hussein

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10. La festa del martirio di Hussein
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Cap. X.

La festa del martirio di Hussein.

Un gridìo lontano che si appressava, crescendo smisuratamente d’intensità, svegliò il giovane montanaro, che aveva dormito come i giovanotti alla sua età. Non ricordandosi subito della festa del martirio e credendo che le truppe dello sciàh si appressassero per assalire la casa e ritorgli la fidanzata, scattò in piedi; ma dinanzi a sè vide Harum, tranquillo e sorridente, che lo contemplava con sguardo paterno.

— Che c’è, Harum? — chiese Nadir.

— E’ la festa che comincia — rispose il montanaro.

— Ah!... Credevo che assalissero la casa.

— Nessuno sospetta che qui si nasconda la fanciulla che tu sognavi.

— Che cosa ne sai tu? — chiese il giovanotto, arrossendo.

— La chiamavi in sogno.

— L’amo, Harum.

— Me ne accorgo — rispose il montanaro sorridendo.

— Dorme ancora Fathima?

— No, sta vestendosi col costume che le ho comperato.

— Ma sei uscito tu mentre dormivo?

— No; ma ho fatto vendere il tuo diamante per 500 tomani1 e comperare le vesti e due cavalli che devono correre come il kamsin2 del deserto. [p. 103 modifica]

In quell’istante sulla soglia della porta apparve un giovane curdo, con un grande turbante sul capo, che gli nascondeva gran parte del viso, una ricca arkalib, ossia tunica di seta, chiusa ai fianchi da una fascia pure di seta rigata, e un paio di larghi sir-djamè, specie di pantaloni che si ristringono al collo del piede.

Nadir nel vederlo fece un gesto di sorpresa, girando lo sguardo verso Harum come per chiedergli che cosa desiderava quel giovanotto, ma ad un tratto emise un grido di gioia.

— Fathima! — esclamò, muovendole incontro.

— Il Re della Montagna non mi riconosceva più adunque? — chiese ella sorridendo.

— Se non ti avessi guardata negli occhi, non t’avrei conosciuta sotto quelle vesti.

— Credi che mi scopriranno, Nadir?

— No, Fathima. Sfido qualunque persona.

— Sei certo, Nadir? — chiese Harum.

— Sì, amico.

— Allora possiamo recarci alla festa del martirio. Gli amici ci attendono in un luogo che io conosco, e troveremo i cavalli pronti per ripartire subito. Un soggiorno prolungato qui è pericoloso per tutti, e forse questa casa non può essere più sicura.

— Andiamo, Harum — disse Nadir.

— Prendi prima queste pistole, — disse il montanaro, — poi va tu pure a indossare il costume curdo.

— Grazie, Harum. La prudenza non è mai troppa.

Nadir passò nella stanza attigua e pochi minuti dopo ritornava. Sotto quel nuovo costume era irriconoscibile quanto la giovanetta e poteva sfidare qualunque spia, anche l’incontro col guardiano Aliabad.

— Andiamo — disse Harum.

Si assicurarono che le pistole erano cariche, poi scesero nella via, mescolandosi alla folla che si riversava verso l’immensa piazza di Meidam.

L’intera popolazione di Teheran era uscita dalle case ed accorreva ad assistere alla festa del martirio. Passavano turbe di uomini, di donne accuratamente velate, di ragazze; drappelli di curdi, che erano riusciti ad entrare nella città, scalando forse i bastioni, e pronti ad approfittare del primo disordine per abbandonarsi ai loro istinti [p. 104 modifica]rapaci; torme di illiati, tribù nomadi che vivono sempre sotto le loro tende; di Kadjars, tribù che accampano nei dintorni di Teheran e nel Mazenderan, di Jkaroubak, di Ereshlou e di montanari discesi dalla grande catena degli Elbours prima della chiusura delle porte.

Ogni qual tratto si alzava un gridìo assordante, la folla si ritirava precipitosamente, e s’avanzava qualche gran signore, coperto di splendide vesti, seguito da una numerosa scorta e preceduto dagli abdar, che portano i tappeti che devono servire di sedia al padrone, grandi borse ripiene di viveri, gli spiedi per arrostire il montone, un grande ombrello, scodelle di noce di cocco per attingere l’acqua, i vassoi pel caffè e alla cintura parecchi borsini contenenti le droghe necessarie per la cucina.

Di quando in quando poi la folla s’arrestava per ammirare qualche dervis, specie di mendicante errante, per lo più vecchio, con lunga barba bianca, e che, seduto in mezzo alla via, su di un tappeto, offriva dei pezzetti di carta con sopra scritto un versetto del Corano. Trovano sempre compratori, poichè i persiani credono che quei versetti scritti da cotali mendicanti abbiano la proprietà di guarirli da tutte le malattie presenti e future!...

Seguendo la folla, ora fermandosi, ora retrocedendo ed ora facendosi largo coi gomiti, Nadir ed il montanaro, tenendo in mezzo la giovane persiana per ripararla dalle spinte di tutte quelle persone che si pigiavano nelle vie, giunsero sulla piazza, addossandosi presso il porticato del palazzo dello sciàh.

La festa del martirio di Hussein stava per cominciare.

Un numero infinito di tende di tela nera, cogli ornamenti di lutto, circondate da miriadi di lumicini, ingombravano una parte della piazza, la quale era stata divisa da una lunga palizzata. Da un lato si rizzavano parecchie capanne di paglia, che dovevano raffigurare Kerbela, cittadella presso la quale era stato assassinato Hussein; l’altro era occupato da una immensa piattaforma coperta di brillanti tappeti, sulla quale doveva aver luogo la rappresentazione del martirio.

Gran numero di mollah (preti), montati su strani pulpiti, recitavano i versetti del Corano o rammentavano alla folla quanto in quel giorno fosse preziosa un lagrima versata alla memoria dell’assassinato califfo; mentre dinanzi al palazzo reale un drappello di cagiari, ossia di persone appartenenti alla tribù dello sciàh, a piedi nudi, semivestiti, si battevano il petto cantando delle lamentevoli canzoni. [p. 107 modifica]

Ad un tratto si aprì la grande porta del palazzo reale, difesa da sei pezzi d’artiglieria, i soldati schierati dinanzi ai porticati presentarono le armi, ed apparve lo sciàh Mehemet, il despota della Persia, vestito semplicemente di panno azzurro, coi larghi calzoni di eguale panno, coi bottoni di diamanti, l’alto cappello di feltro sormontato da un grande pennacchio tempestato di pietre preziose.

Per unico distintivo portava i due braccialetti chiamati kok-i-nour, ossia montagna di luce, e derva-i-nour, od oceano di luce, che da secoli si conservano dai monarchi persiani e che si dice costino delle somme favolose, essendo coperti di diamanti grossi come noci e di zaffiri d’uno splendore straordinario.

Lo seguivano gran numero di khan, ossia capitribù militari, di principi, di governatori di Provincie, di kakim, ossia capi di città ragguardevoli, di ufficiali di tutte le armi. Il sadri-azem, che è il primo ministro, gli stava a destra, ed il nasak-tchi-bachi, che è un grande maresciallo, ma nello stesso tempo il suo giustiziere ed esecutore, gli stava a sinistra.

Fathima, rannicchiata presso una colonna, fra i due montanari, nello scorgere quel potente, dinanzi a cui i più grandi dignitari del regno si curvavano tremanti, impallidì e sussultò, mormorando con voce soffocata:

— Lui!...

— Guarda quale potenza potrebbe darti quell’uomo — disse Nadir.

— Amo te, o mio Nadir, e non diventerò mai sua.

— Grazie, Fathima!...

— Zitti, imprudenti — disse Harum, gettando intorno un acuto sguardo. — Vi possono essere degli orecchi tesi.

— È vero — mormorò Nadir, rabbrividendo.

Lo sciàh aveva preso posto su di uno splendido palco eretto dinanzi al palazzo reale, adorno di ricchi tappeti di Kerman, sfolgorante d’oro, di arazzi, di bandiere e di orifiamme. Quattro file di soldati armati e la guardia l’avevano circondato, mettendo in batteria diciotto pezzi di cannoni carichi a mitraglia, posti sulle gobbe di altrettanti cammelli.

Ad un cenno del monarca, la festa incominciò. Mentre la folla si pigiava contro gli angoli della piazza, brutalmente respinta dalle truppe, s’avanzò un uomo robustissimo, ignudo dalla cintola al capo,

[p. 97 modifica]Si aprì la porta del palazzo reale ed apparve lo sciàh Mehemet, il despota della Persia. (Pag. 107)

[p. 108 modifica]facendo oscillare una grande antenna variopinta, sostenente all’estremità degli strani ornamenti di stagno contenenti versetti del Corano. Dietro di lui s’avanzarono altri due uomini pure robustissimi e seminudi, dei quali uno sorreggeva un’antenna più corta ed un ragazzo, l’altro un enorme sacco di cuoio pieno d’acqua e quattro bambini. Rappresentava, questi, la sete ardente provata da Hussein nel deserto.

Seguivano poi, uno dietro all’altro, un sarcofago con una grande stella di diamanti sul dinanzi e coperto da scialli di Cascemir di gran prezzo e d’un grande turbante; poi due uomini sostenenti delle antenne adorne di altri scialli e due mani coperte di diamanti, che rappresentavano quelle di Maometto, il fondatore della religione musulmana; poi quattro superbi cavalli di Khorassan coperti di ricche gualdrappe, e le teste adorne di placche d’oro, tempestate di diamanti; poi sessantadue uomini coperti d’un lungo lenzuolo e tenendo in mano delle scimitarre lorde di sangue.

Quei fanatici, che volevano rappresentare i sessantadue guerrieri caduti intorno a Hussein prima che questi venisse fatto prigioniero, con un coraggio feroce e ributtante, si tagliuzzavano orrendamente la fronte, lasciando scorrere il sangue sulle loro bianche vesti, eccitando l’ammirazione della folla, che li chiamava santi.

Quella strana processione si chiudeva con un cavallo bianco, che rappresentava quello di Hussein, irto di frecce piantate sulla sua gualdrappa, e con altri sessantadue uomini che percuotevano furiosamente dei pezzi di legno, producendo un fracasso assordante.

Il corteo, danzando, cantando e salmodiando i versetti del Corano, fece il giro della vasta piazza e si schierò sotto il palco dello sciàh.

Tosto incominciò la rappresentazione della morte di Hussein. Un uomo splendidamente vestito e montato su di un cavallo bianco, seguìto dai sessantadue guerrieri armati di scimitarre e di picche, s’accampò intorno alle capanne che raffiguravano il villaggio di Kerbela: quegli uomini rappresentavano l’assassinato califfo ed i suoi fedeli compagni morti difendendolo. Una turba di soldati, che dovevano essere gli assiri invase il campo e s’impegnò fra i due partiti un furioso combattimento.

I sessantadue guerrieri, oppressi dal numero, caddero, e vennero tosto sepolti in altrettante buche già precedentemente scavate, tenendo fuori solamente la testa. Allora due nemici, scelti ordinariamente fra i condannati a morte o fra i prigionieri russi, s’appressarono al cavaliere, che fingeva di essere ferito, per decapitarlo; ma ad un tratto [p. 109 modifica]un urlo immenso, feroce, s’alzò tra la folla che gremiva la vasta piazza, e una grandine di sassi cadde sui due supposti assassini di Hussein, costringendoli a una disperata fuga.

La rappresentazione stava per terminare. S’incendiarono dalla folla le capanne, e sul grande palco apparve la sepoltura di Hussein coperta d’un drappo nero, sormontata da una tigre imbalsamata.

Subito dopo, un colpo di cannone sparato sulla terrazza del palazzo reale, annunciava alla popolazione di Teheran che l’ed-i-yatl era terminato.

— Presto — disse Harum, prendendo Nadir per un braccio. — Le porte della città stanno per aprirsi.

— Dove sono i tuoi compagni?

— A pochi passi da qui.

— Vieni, Fathima — disse Nadir.

La folla si riversava nelle vie adiacenti, schiacciandosi, per modo di dire, fra le case, ma i due montanari, lavorando di gomiti e di spalle, l’attraversarono e imboccarono una viuzza quasi deserta.

Harum, che camminava dinanzi, guardandosi di frequente alle spalle per vedere se era seguito da qualche spia, indicava la strada.

Percorsi duecento metri, s’arrestò dinanzi ad un cortile chiuso da una cancellata e che era guardato da parecchi uomini vestiti da curdi.

— Affrettiamoci — disse Harum.

In un lampo quegli uomini condussero fuori otto cavalli di forme stupende, coi garretti solidi, la testa leggera, il ventre stretto, veri bevitori d’aria, come dicono gli orientali per esprimere dei cavalli che vanno rapidi come il vento.

— Sai tenerti in sella, Fathima? — chiese Nadir.

— Come una persiana — rispose la giovanetta.

Il montanaro la prese delicatamente fra le braccia e la pose sul cavallo più bello, poi balzò in sella ad un altro che Harum gli indicava.

— Partiamo — disse Nadir.

— Vi sono i fucili? — chiese Harum ai suoi compagni.

— Sono nascosti sotto le gualdrappe — risposero.

— E le pistole?

— Nelle fonde delle selle.

— Andiamo, e che Allah ci protegga! [p. 110 modifica]

Gli otto cavalli, eccitati colle briglie, partirono di galoppo. Harum apriva la marcia, venivano poscia Nadir e Fathima e dietro di loro gli altri cinque montanari, colla mano sinistra appoggiata sul calcio dei moschetti, pronti a difendere il Re della Montagna e la sua fidanzata.

Dopo d’aver attraversato parecchie vie, giungevano dinanzi alla porta orientale, che mette sui sentieri che conducono al Demavend. Era già aperta ed entravano numerosi cavalieri, per lo più curdi, illiati e kadjars; ma vi era a guardia un drappello di soldati, più numeroso del solito.

Harum aggrottò la fronte.

— Audacia e sangue freddo — disse, volgendosi verso Nadir.

— Che sorveglino le persone che escono? — chiese questi, gettando un lungo sguardo su Fathima.

— Lo temo.

— Ma passeremo egualmente — disse Nadir. — Circondiamo Fathima e teniamoci pronti a piombare addosso ai soldati col kandjar in pugno.

— Siamo pronti — risposero i montanari.

— Al primo segnale lanciate innanzi i cavalli e sfondate la linea. Passeremo di galoppo sopra i caduti.

— Lasciate a me l’incarico di rispondere ai soldati — disse Harum. — Tu intanto, Nadir, passa con Fathima.

Il montanaro si mise alla testa della cavalcata, strinse le ginocchia, raddrizzò l’alta statura e si avanzò audacemente verso le guardie, colla destra sull’impugnatura del suo kandjar.

— Dove andate? — chiese un soldato sbarrandogli il passo.

— A Kend — rispose il montanaro, senza esitare.

— Kend è ad occidente della città.

— La porta d’occidente è ancora chiusa: gireremo la città fuori dei bastioni.

— Chi sei?

— Un curdo, come ben vedi.

— Ed i tuoi compagni?

— Curdi come me.

— E quel giovanetto?

— Mio figlio. Che cosa si sospetta per fare tante domande a dei tranquilli passeggeri?

— Ciò non ti riguarda — rispose il soldato. [p. 111 modifica]

— Si passa, sì, o no?

— Passate.

— Che Allah sia con te.

Gli otto cavalieri si spinsero sotto la torre e uscirono in aperta campagna. Quando Nadir si trovò fuori della città, emise un lungo sospiro.

— Sei mia, Fathima! — esclamò egli.

— Sì, tua, viva o morta — rispose la giovanetta.

— Sprona! — gridò Harum.

Gli otto cavalli, eccitati colla voce, colle briglie e cogli sproni, partirono ventre a terra verso il nord, dirigendosi al villaggio di Demavend, contando di pernottare ad Ask, località che trovasi a mezza via fra la capitale persiana e la gigantesca catena degli Albours.

La vasta pianura sabbiosa che si estende dalle mura di Teheran ai primi contrafforti dei monti, su una larghezza di circa dieci leghe, era quasi deserta. Si vedevano solamente rari drappelli di curdi galoppare verso la città e alcune bande di illiati nomadi accampati sotto le tende di grosso feltro, occupati a far pascolare i cammelli, che costituiscono la loro principale ricchezza, od a tessere quegli splendidi tappeti che si sono acquistati una fama mondiale.

Nadir e Fathima tacevano, ma di quando in quando si guardavano amorosamente, e mentre l’uno additava il Demavend, che giganteggiava dinanzi a loro, colle cupe foreste arrampicantisi su pe’ suoi fianchi, colle sue immense rocce e colla sua nuvola di fumo che s’alzava dritta sfumando verso il cielo, l’altra accennava la grande moschea di Teheran, la cui cupola rivestita di lamine d’oro scintillava sotto i raggi del sole.

I cavalieri stavano per salire le prime alture, quando di repente, in direzione di Teheran, echeggiò un colpo di cannone.

Harum arrestò il proprio cavallo.

— Il cannone che tuona! — esclamò. — Che significa ciò?...

— Qualche segnale? — chiese Nadir trasalendo.

— Lo temo — rispose il montanaro aggrottando la fronte.

— Non è terminata la festa?

— Sì, Nadir.

— Che cosa vorrà significare?

— La chiusura delle porte — rispose un montanaro.

[p. 105 modifica]Gli otto cavalli, eccitati con la voce, colle briglie e con gli speroni, partirono ventre a terra verso il nord.... (Pag. 111.)

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— Delle porte?

— Sì, e ciò per impedire l’uscita agli abitanti.

— Che cosa temono?

— Qualche grave avvenimento dev’essere accaduto a Teheran.

— Che riguardi noi? — chiese Nadir volgendosi verso Harum, che fissava con profonda attenzione la città biancheggiante nella vasta pianura.

— Lo temo — rispose il montanaro. — Tu mi hai detto che questa fanciulla doveva andare sposa allo sciàh.

— È vero.

— Il re sarà stato informato della sua fuga e avrà fatto chiudere le porte.

— Che le guardie abbiano sospettato di noi?

— È possibile, Nadir.

— Allora affrettiamoci a guadagnare la montagna.

— E ad evitare i villaggi — aggiunse il montanaro.

— Non ci arresteremo nè a Demavend nè a Kend?

— Nè all’uno, nè all’altro. Una sola traccia basta per perderci. E... guarda!... Lo sospettavo io!...

— Che avviene?

— Vedo dei cavalieri uscire dalle porte della città, e sono quelli del re.

— Che cerchino noi?

— E’ probabile; ma abbiamo dieci miglia di vantaggio, e non ci raggiungeranno.

— Conosci tutti i sentieri della montagna?

— Sì, Nadir. Avanti di galoppo!...





Note

  1. Un tomano vale lire 11 e 60 centesimi.
  2. Vento caldo ma impetuoso.