Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/IX

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Gli “umiliati„ del villaggio

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GLI “UMILIATI„ DEL VILLAGGIO.


La naturale cordialità di quel signore, e la simpatia che aveva detto d’avere per i maestri, non parvero al giovane una ragione sufficiente a spiegare la spontaneità della visita e la cortesia dell’invito. E stette pensando un pezzo quale altra ragione ci potess’essere. Ma non ne trovò nessuna che lo soddisfacesse, nè poteva. Gli sarebbe occorso, per trovarla, di conoscere una classe particolare d’uomini, a cui apparteneva il suo nuovo amico, la quale si potrebbe chiamare degli “umiliati del villaggio.„ Quegli era un avvocato, nativo del paese, agiatissimo, che viveva [p. 190 modifica]a Torino, dove da anni non esercitava più l’avvocatura, attendendo a studi liberi di diritto, nei quali s’era fatto un nome con la pubblicazione di varie opere, che i giornali scientifici gli avevan maltrattato ferocemente, ma senza riuscire ad ammazzarle. Inclinato com’era al lavoro intellettuale solitario, era venuto, dopo smesso l’esercizio legale, per lavorar più raccolto, a passare ogni anno sei mesi nel villaggio, dove i suoi compaesani l’avevano portato quasi di forza al consiglio comunale, e poi al sindacato. E qui egli aveva sostenuto delle lotte acerbe contro il partito, com’ei lo chiamava, della demagogia montanara; il quale era riuscito infine a sbalzarlo, senza suo grande rammarico, poichè egli s’era già stancato dell’ufficio avanti di lasciarlo, e annoiato del paese anche prima che dell’ufficio. Ma, deponendo la carica, non era riuscito a deporre in pari tempo le piccole passioni di campanile che la lotta aveva sollevate in lui. I rancori lasciatigli dalle offese, il risentimento della sua superiorità intellettuale disconosciuta o dileggiata da persone incolte e villane, gli eran come fermentati nel cuore, e v’avevan fatto un fondo durevole d’acrimonia, ch’ei cercava in ogni modo di nascondere, senza riuscirvi, con un silenzio che gli faceva fogo, o con delle celie, che lo mostravan più aperto che le invettive. Nei nove mesi che passava a Torino, in mezzo alle faccende e agli studi, nel giro d’una società colta, dove il suo ingegno e la sua varia dottrina gli davano delle soddisfazioni vive d’amor proprio, egli dimenticava il villaggio e gli avversari, si vergognava e rideva in cuor suo dei miseri dispetti che aveva masticati fra quelle quattro case nella stagione trascorsa, e gli pareva che, ritornandovi, ne avrebbe continuato a ridere come in città. Ma quando vi ritornava, dopo alcuni giorni d’indifferenza o di disprezzo per gli uomini e per le cose, rivedendo quelle facce, riudendo quei discorsi, e quasi solo respirando quell’aria, egli ricominciava, suo malgrado, a occuparsi delle cose e degli uomini, a ricordare tutti i particolari della guerra che gli avevan mossa, a risentire tutte le punture di cui aveva riso, a riprovare tutte le passioncelle moleste e vergognose che credeva morte. Irresistibilmente, a poco a poco, rimpiccioliva di mente [p. 191 modifica]e di cuore, pure avendone coscienza lucidissima, alla misura della gente e delle passioni che lo accerchiavano. E non gli riusciva più, a capo a una settimana, di viver solo: i suoi studi gli si scolorivano all’intelletto, il suo orgoglio strepitava: gli bisognava per forza cacciarsi fra la gente, a discutere delle loro piccinerie, a pungere e a esser punto, a umiliare e ad essere umiliato, a rodersi l’anima dal dispetto che la sua superiorità d’ingegno e di cultura si fiaccasse così miseramente contro la corazza adamantina della presuntuosa e rozza ignoranza, senza fruttargli nè ammirazione, nè ossequio, nè simpatia. E la rabbia lo faceva uscire in cattive ragioni, delle quali aveva poi rimorso, e s’accusava fra i suoi; gli faceva far degli sgarbi da persona mal educata, commettere delle fanciullaggini di cui si vergognava. Il suo amor proprio giungeva a tal segno d’eccitamento, che la più piccola vittoria di fatto o di parola, la minima durezza, il più leggero sorriso o segno di noncuranza di quei rustici lo faceva fremere per una settimana. Di tutto questo si risentiva, in quei tre mesi di villeggiatura, il suo modo generale di pensare, che volgeva ad un pessimismo, se non nero affatto, grigio oscuro, anche in quelle cose intorno alle quali, in città, era meno incline a pensar male; e pure nei suoi momenti migliori, egli soleva lasciarsi andare a una certa censura canzonatoria di tutto, non solo per sfogo dell’animo, ma per un abito pigro della mente, di considerare ogni cosa da una faccia sola, il quale là soltanto gli si attaccava, come un influsso cumulativo dei cervelli torpidi tra cui il suo era relegato. Ritornando poi a Torino sui finir dell’estate, pien di bilioso disprezzo per i suoi rurali, egli divertiva per un mese la società con ogni maniera d’aneddoti e di scherzi satirici a carico loro, eccitato dalla contentezza di ritrovarsi nel suo elemento, giurando di non farsi più rivedere su quei monti l’anno venturo. Ma il giuramento rinnegava qualche mese dopo, quando una di quelle umiliazioni che nella vita cittadina sono inevitabili a chi ha ambizione e vuol brillare, veniva a ridestargli e ad abbellirgli nell’animo l’immagine di quel ricettacolo alpestre, nel quale, volendo, avrebbe pur potuto vivere solitario e tranquillo. Era egli, [p. 192 modifica]insomma, uno di quei tanti borghesi d’oggigiorno, mal fermi nei loro principî, e piuttosto governati dalla vanità che dalla coscienza, i quali, a volta a volta, sposano le ire e le aspirazioni demagogiche quando sono trascurati od offesi dalla propria classe, e riprendon l’orgoglio e le idee signorili quando si sbucciano contro la scorza rude del popolo, sfogando dalle due parti, insieme cogli altri dispetti, anche quello di non esser sicuri di rimaner lungo tempo nella loro ultima opinione. In questa forma era fabbricato, per sua disgrazia, l’avvocato Samis; pieno, del resto, di qualità amabili; e la sua conversazione non era quasi mai altro che una serie d’assalti di critica; fuori della quale pareva che non trovasse più nè modo nè verso di esprimersi neanche la sua più schietta allegria.


Il maestro frequentò la sua casa. Egli risentì una dolce soddisfazione la prima volta che si trovò in quel salottino elegante, ornato d’acquerelli e di libri rari, nella compagnia d’una signora già attempata e d’aspetto gentile, la quale intavolava con garbo squisito gli argomenti in cui capiva ch’egli avrebbe avuto materia e modo di parlar bene, interrogandolo il più sovente sull’indole e sui costumi dei ragazzi, con la curiosità amorosa che hanno dell’infanzia le donne senza figliuoli; e dalla conversazione di lei e di suo marito s’accorgeva d’imparare ogni giorno qualcuna di quelle tante cose che non entran nella mente se non per la via dell’udito, e come musicate dalla parola improvvisa. Altri pochi signori villeggianti, ch’egli trovava là, si conformavano con lui alle maniere dei padroni di casa, e anche a loro egli era particolarmente grato del modo come dicevano la parola maestro, reciso e serio, come avrebbero detto tenente, con una intonazione indefinibile, che sarà stata voluta per cortesia, e non spontanea, ma che accarezzava il sentimento della sua dignità. Anche costoro mostravano di pigliar molto piacere delle tirate dell’avvocato, tanto più quando, infervorandosi, buttava fuori dei paradossi, e spesso lo mettevan su, per goderselo; ma al maestro pareva che dicesse pure assai sovente delle verità inoppugnabili, alle quali consentiva di tutto cuore. Gli piacque [p. 193 modifica]soprattutto una sera che uno dei suoi amici gli mise sott’occhio la Gazzetta piemontese, in cui si parlava d’un banchetto dato nel vicino comune di Azzorno al deputato del collegio, e si diceva che alle frutta era stata declamata da una bambina delle scuole, messa ritta sulla tavola, una lunga poesia in sua lode, scritta da uno dei suoi grandi elettori. L’avvocato fece un sorriso sardonico, preludio d’una carica. Infatti, si scagliò contro l’uso invalso di servirsi dei bambini per incensare i pezzi grossi con recitazioni di versi e di prose fatte apposta. Era una cosa che gli dava allo stomaco. — A sindaci, a deputati, a ministri, a principi, — diceva, — a tutti coloro da cui si spera e si vuol qualche cosa, ora è venuto di moda di far leccar le scarpe dai ragazzi. Una doppia porcheria, perchè la fanno fare da innocenti che non capiscono il senso di quello che dicono, nè i secondi fini di quelli che li imboccano. Abbiate almeno il più facile di ogni coraggio, perdio, che è quello della cortigianeria! Che bassezza essere i mandatari dell’adulazione! E pigliare i complici sui banchi degli asili infantili e delle classi elementari, dove si vuole educare il carattere alla dignità! Io non capisco come i personaggi che si senton gridare in faccia i titoli d’illustre e di grande dalla bocca d’un bambino ammaestrato per l’occasione, nel modo che s’ammaestran le scimmie a servire i dolci sul vassoio, possano starlo a sentire con la fronte alta, e non gli chiudan la bocca arrossendo, come fa la madre al figliuolo di sei anni quando ripete una sudiceria intesa da una baldracca per la strada. È la prostituzione dell’infanzia, l’arruffianamento della scuola. Se fossi ministro dell’istruzion pubblica lo proibirei come si proibisce il commercio delle stampe oscene. —

Se la pigliò un’altra volta con uno dei villeggianti, il quale rinfacciava ridendo al Consiglio e a lui con gli altri, che il parroco l’avesse spuntata ancora una volta di far sparare i mortaletti il giorno della festa patronale, non ostante che fosse accaduta l’anno prima una disgrazia. — Siete un mucchio di liberaloni — gli disse l’amico — che avete il mestolo in mano, e vi lasciate dettar la legge dal reverendo. — E perchè no? — gli rispose l’avvocato, un po’ punto. — Io trovo [p. 194 modifica]la cosa naturalissima. Voi altri Volterriani delle città grandi, che non conoscete i preti, credete, perchè sfuggite alla loro influenza in mezzo a trecentomila cittadini, che vi possiamo sfuggir noi tra un branco di villani. Non capite che qui il prete, operando in un campo ristretto, agisce su tutti, ed è potente in ogni modo, se tristo, perchè può fare del male a tutti, se buono, perchè a tutti fa del bene; e nella città voi non vedete dell’opera sua nè il bene nè il male. E poi, perchè ci sono in città due terzi d’indifferenti in religione, pigliate due terzi di trenta milioni e pensate d’avere il conto del paese. Che sproposito! Come quando dite: il tal fatto, il tal libro darà un gran colpo alla superstizione.... sì, come se fosse tanto facile il tirar dei colpi che arrivino alla coscienza umana a traverso a diciotto secoli di credenze e di passioni! Voi credete di essere alla testa d’un esercito di cavalieri perchè, guardandovi intorno, non vedete che gente a cavallo: ma questa non è che l’avanguardia, cari miei: l’esercito è pedoni e carriaggi. Galoppate pure, cittadini; il piccolo comune, che è il paese, verrà quando potrà.... Intanto protegge i frati e le monache delle corporazioni soppresse, conserva le feste abolite, viola il calendario scolastico, obbliga i maestri a andare alla messa, lascia spadroneggiare i parroci nelle scuole, si burla della legge nel matrimonio religioso, nelle sepolture, nelle eredità, nell’amministrazione, in ogni cosa che gli piaccia e gli comodi. Se sapeste che effetto fanno di qui certe vostre frasi: — Il paese sente.... il paese crede.... il paese vuole! — E lo strano è che anche quelli che da giovani, o per una gran parte della vita, conobbero il comune, ossia il vero paese, quando salgon su, se ne scordano, o s’illudono che tutto sia cambiato in dieci anni.... o credon piuttosto d’aver cambiato essi ogni cosa col solo fatto d’esser saliti, come dei soli che uscendo dalla loro orbita abbiano trascinato dietro di sè tutto il sistema planetario.

Ma era divertente in ispecial modo quando tratteggiava i personaggi del paese. Allora non l’interrompeva nessuno e ci si coccolavano tutti. Per esempio, egli riconosceva l’ubbriachezza del sindaco dall’uso che aveva, quand’era pieno fradicio, di fermarsi davanti alle persone a una distanza di cinque o sei passi, e [p. 195 modifica]di ragionar con loro così, come un parlamentario diffidente, perchè non sentissero il puzzo della cantina. Le tentazioni erotiche gli venivan sempre a stomaco pieno. Era stato nero, per un certo tempo, con la maestra Pezza, perchè un giorno, dopo un lauto pranzo, preso dal grillo di andar a fiutare la classe femminile, essendo entrato improvvisamente nella scuola con la papalina, le pantofole e la pipa, gli s’era avventato addosso il cagnolino della maestra con furiosi latrati, e tutte le ragazze avevan dato in una risata, che l’aveva costretto a ritirarsi, con gran confusione. Egli se n’era vendicato molto tempo dopo, rispondendo con un rifiuto scritto alla signorina che chiedeva della legna, e adducendo, fra altre, questa ragione: tanto più che quest’estate la maestra non ha proprio ben servito questo municipio perciocchè qualche ragazza non ha imparato a far bene le camicie. Ed era anche un bel tipo l’assessore liquorista, orgoglioso della sua rassomiglianza con Vittorio Emanuele, e appassionato per le illuminazioni; il quale, due anni prima, il giorno della festa nazionale, aveva scritto di proprio pugno sopra una rificolona tricolore: — viva l’ostatuto; — e in una lettera violenta diretta a lui (Samis) s’era firmato, nell’agitazione dell’ira, invece di Giuseppe, Guspe. — Mi fa ridere il Corriere alpino — disse — che dà addosso ai maestri elementari, perchè n’ha conosciuto uno che scriveva falso con la zeta. Ma quale il paese, tale la scuola. Pretendono che fioriscan delle rose nei greti? È ben naturale che ci siano dei maestri falzi fin che ci sono degli assessori Guspe. — Povero assessore! Era rimasto sopra pensiero una settimana, quand’era facente funzioni di sindaco, perchè in un articoletto del Popolo avevan detto che il municipio d’Altarana era un municipio acefalo; una parola misteriosa che, non avendo egli dizionari e non osando chiederne a nessuno il significato, gli pareva dovesse nascondere qualche ingiuria atroce, di quelle che non si lavan che col sangue.... — E il soprintendente, con quella palla da cannone nel collo? Quello è un bell’originale di furbacchione, che si cava da ogni impiccio con uno sputo. Ogni volta che gli si domanda una informazione delicata, o gli si propone un quesito difficile, egli si concentra, e poi apre la bocca: credete [p. 196 modifica]che n’esca una gran notizia o una sentenza d’oro: vien fuori uno scaracchio.... Ma è un polemista! — C’era stato un tempo una polemica provocata da questo: che nel giornale s’era accusata la Giunta d’aver presentata al Comune una nota di diciotto litri di vermut, dicendo che era stato distribuito alla banda musicale e ai priori il giorno della festa del paese, mentre si sapeva che eran compresi nei diciotto anche quelli che bevevan di quando in quando gli assessori al banco del loro collega. Ebbene, alla calunnia pubblica aveva risposto il soprintendente, ossia, aveva fatto rispondere dal maestro Calvi nientemeno che un articolo d’una intera larghissima colonna della stessa gazzetta, in fondo al quale egli aveva messo di sua testa e di sua mano, come un colpo di grazia, due sole parole latine che non si sa in qual maniera gli galleggiassero sotto la cappa del cranio: — Intelligenti pauca.