In morte di Marco Antonio Dalla-Torre

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in morte

DI MARCO ANTONIO DALLA-TORRE

elegia

DI GIROLAMO FRACASTORO

al fratello dello stesso.

___



    Benchè percosso dall’ acerbo fato
D’un tanto amico io pur domandi a’ numi
3Qualche conforto al mio misero stato,

    Perchè di duol perpetüo due fiumi
Non mi solchino il volto, e tuttoquanto
6Il cocente dolor non mi consumi;

    Tuttavia come lo permise il pianto,
Che dell’ingegno intorbida la vena,
9Questo per te tentai flebile canto,

    Mosso da speme che la mia Camena
Ti consolasse, se canori accenti
12Ponno d’un’alma alleggerir la pena;

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    E perchè tutto in lagrime e lamenti
Non ti sciogliessi, come si discioglie
15La brina a’ pluvïali austri tepenti.

    Grido è diffuso che in crudeli doglie
Tu te ne viva pel fratel giocondo
18Tratto anzi tempo alle funeree soglie;

    Nè più t’allevii degli affanni il pondo
Molle sopor; ma triste a’ mattutini
21Nascenti albori e quando tace il mondo,

Irato a’ sordi immobili destini,
Lui che il cielo ti fea tanto lontano
24Cercar dolente per tutti i confini;

    Quale Lampezie lungo l’Eridàno
Ansïosa cercava il suo Fetonte,
27Se antichissimo canto non è vano,

    Sette dì non gustò cibo nè fonte;
E sette notti d’ogni tregua schiva
30A dolce sonno non piegò la fronte.

    E quante volte ansante e semiviva.
Chè la lena al desio più non risponde,
33Smorta cadea sulla deserta riva,

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    Rendetemi il fratel, gridava all’onde,
Rendetemi Fetonte, o quante il flutto
36Ninfe pietose a’ miei lamenti asconde.

    Te pur, te pur, se mai fu giusto il lutto
Nella morte d’alcun, te pure incolse
39Dolor da non portarne il ciglio asciutto;

    Dacchè morendo il tuo fratel ti tolse
Ogni contento, e te senza riparo
42E tutti quanti i tuoi nel duol travolse.

    Nel duol ahi! ti travolse il fato amaro
Dell’estinto fratel, di cui non era
45Altri al tuo cor più disïato e caro.

    Ei di tua fresca gioventù primiera
Fido sostegno, e invidïato onore
48Di tua magion che per lui sorse altera;

    Con cui sedendo in candidi d’amore
Ragionamenti senz’ambage usavi
51Tutti gli arcani disvelar del core;

    Cui proponevi a tutti; e più de’ favi
Dolce e più dell’ambrosïa da’ suoi
54Labbri facondia distillar giuravi.

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    O tristi troppo! o sventurati noi!
Schiatta più miseranda in sulla terra
57Pria non si vide, nè vedrassi poi.

    Contro noi furibonda arse una guerra,
A cui null’altra in crudeltà fu pari,
60Nè forse in grembo all’avvenir si serra.

    Vedemmo scintillar barbari acciari;
Barbaro giogo tollerammo; e parte
63I dolci abbandonammo aviti lari.

    Quel che rimase dal furor di morte
Tabida lue consunse: il reo flagello
66Dalle vedove terre anco non parte.

    Nè bastava; e di Cotta ecco l’avello
Invita a novi pianti. Ove t’imvoli,
69Preda a cieco malor, Cotta fratello?

    Cotta diletto, addolorati e soli
Perchè lasciarne e dir l’ultimo addio
72Pria che fossero ancor pieni i tuoi soli?

    Nè peranco lenito avea l’obblio
Cotanto lutto, e per lo smorto viso
75Caldo di pianto ci scorreva un rio,

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    Che tu pur dal vital ceppo reciso,
Marco, al tuo fido stuol cresci tristezza.
78Ah, ben fallace è della speme il riso!

    Chè pel fresco vigor di giovanezza,
Per l’alte opere tue, pel tuo valore
81L’alma non era al rio pensiero avvezza,

    Che te caduto dell’età nel fiore
Coperto avremmo sotto stranio suolo,
84Te già muto e de’ tuoi sordo al dolore.

    Ma speravamo che t’ergesse a volo
La tua virtude, allor che dell’accento
87Aureo beassi l’accalcato stuolo.

    Pari a ruscel che a cento labbra e cento,
Dall’aerea disceso alpe natale,
90Offre lungo il cammin limpido argento.

    I tuoi gran fatti rammentar che vale
E gli alti premi? Come la salute
93Riconfortò per te l’egro mortale,

    E come spesso l’anime venute
A man di morte rivocasti al giorno
96Col possente favor dell’arti mute?

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    Tu, Ticino, lo narra, e tu che il corno
Per l’antiche aggirando euganee valli,
99Brenta, il suol fai di verdi paschi adorno:

    Voi che, obbliando delle ninfe i balli.
Cheti l’udiste allor che di natura
102I divini svelava occulti calli;

    Ed ora il suo sparir sotto la scura
Onda piangete che fra sterpi e dumi
105Stagnando, al mar discendere non cura.

    Ma non voi soli o più d’ ogni altro, o fiumi
Al suo pensando non previsto fine
108Di pianto aveste rugiadosi i lumi.

    Lui piansero le greche e le latine
Ninfe; e Calliope il suo dolor palese
111Fe su querule corde fiorentine.

    Ogni foresta lamentar s’intese,
Ogni rupe; e di lacrime tributo,
114Ultimo Scita, il tuo ciglio gli rese.

    Ma più ne lagrimarono il canuto
Benaco e ’l Sarca umìl, che del sepolto
117Baciano oltrepassando il cener muto;

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    E più l’Adige stesso, per cui tolto
Il venerando frale a suol romito
120Fia dalla patria in nobil urna accolto,

    Acciò che lunge dal sepolcro avito
E dall’ossa de’ Turri, inglorïose
123Quelle spoglie non copra estranio lito.

    Allor voi tutte, o Naiadi vezzose,
D’Adige figlie, a piene man sovr’esse
126Nembi versate d’olezzanti rose.

    Tempo verrà, che di stupore oppresse
Fermando il passo, le più tarde genti,
129Quanto a costui, diranno, il ciel concesse!

    E gli scritti leggendo e i monumenti
Dell’estinto, talun serti votivi
132A’ muti appenderà Mani dormenti.

    Intanto, o Ninfe, voi che i cento rivi
Dal Benaco traete, e tu che l’onde
135Devolvi, o Sarca, dagli alpini clivi;

    Voi dirupi di Naco, e voi profonde
Di Briano vallee, selve cui bruna
138Ombra ravvolge di perpetue fronde,

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    Recate voi, su via, recate alcuna
Gioia al mio Batto, e raddolcite a prova
141L’orrenda piaga che gli fe fortuna.

    Più di Sofia l’accento a lui non giova;
E l’arte delle lire animatrice
144Del suo core la via più non ritrova.

O Batto! E nondimeno l’infelice
Vate di Tracia, dopochè smarrita
147E lungamente pianta ebbe Euridice,

    Nulla trovò che la dolente vita
Più gli allegrasse d’imenei già schiva,
150Che delle Muse e di Sofia l’aita.

    Con lui qualor di Rodope saliva
Fra l’alte selve, o rade orme imprimea
153Per la strimonia taciturna riva,

    Venia compagna la pieria Dea;
E perita a sonar l’imposto verso
156Eburnea lira a tergo gli pendea.

    Misurava col guardo l’universo
Tutto e, suo fregio, il padiglion celeste
159Di mille lumi fiammeggiante e terso.

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    I mari contemplava e le foreste
Ampie, i mobili fiumi, il variopinto
162Bel manto onde le terre april riveste;

    Onde mirando come il mondo avvinto
Rotasse a certe leggi, il suo dolore
165Sentiva a poco a poco in indistinto

    Diletto tramutarsi e l’alto amore
D’Euridice tacer. Tanto del mondo
168Puote la vista giocondare un core!

    Leva lo sguardo al candido e ritondo
Disco lunare; agli astri erranti in giro
171Tutti intorno al lor sol per proprio pondo.

    Eterno è quanto cape entro l’empiro;
Ivi siedono i giusti ed han mercedi
174L’alme che pie di questa vita usciro.

    Sotto dell’uomo l’infelici sedi
Giacciono, della morte atre contrade,
177Ove alcuna di bene orma non vedi;

    Chè questi luoghi la gragnuola invade,
La neve, il vento, e quanto dall’oscura
180Regïon delle nubi in terra cade.

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    Aggiungi a tanto danno il gel, l’arsura
E lo sciame de’ morbi, onde soccorso
183Pur sempre implora la mortal natura.

    Noi poi sciogliendo a’ desiderî il morso
Ci crescemmo i dolor; stirpe demente,
186Che sempre in mal precipita il suo corso.

    Quindi gli odî e le bieche ire cruente,
E mille vie per frode o tracotanza
189Schiuse all’eccidio dell’umana gente.

    Pur fra cotanti mali una speranza
Vien che consoli chi dirizza l’ale
192De’ suoi desiri a più sicura stanza.

    Perocchè quando solvesi dal frale
Bella di merti un’anima, al superno
195Regno tantosto giubilando sale

    E si tranquilla nel soggiorno eterno
De’ numi e semidei; là dove aprile
198D’estate ardor non teme o gel di verno;

    Ove tace ogni brama, ove il suo stile
Lascia fortuna, ove il dolore ha fine,
201Ne più volge le sorti un vulgo vile;

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    Ma poeti vi regnano che il crine
Di casto lauro avvolsero, e guerrieri
204Che di stragi fur mondi e di rapine;

    E miti ingegni che da’ bei sentieri
Mai non uscîr del giusto e di Sofia
207Meditar ne’ giardini incliti veri.

    In mezzo a’ quali assunta or or la pia
Alma fraterna per la curva sfera
210E per l’aule celesti il guardo invia,

    Vagheggiando il mattin che non ha sera
E gli ordini de’ giusti, e gode un scanno
213Anch’essa aver tra la beata schiera.

    Mentre d’intorno a lei l’ombre ristanno
Generose de’ padri, e l’occhio intento
216Dal volto del nepote alzar non sanno,

    Cui riconoscon tosto al portamento:
Ei pur contempla il glorïoso seme
219« Di sua semenza e di suo nascimento; »

    I suoi ravvisa, e ne distingue insieme
I nomi e l’opre, e sa dir dopo quanti
222Lustri il fratello veder seco ha speme.

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    O fortunato, che partendo avanti
Che di vecchiaia assaporarsi il fiele,
225Presso Dio raccogliesti i passi erranti!

    O quanti scogli! o quanto mar crudele,
Marco, a tergo lasciasti! a quanti inganni
228D’instabil vento ascose hai le tue vele!

    Fortunato due volte! a te gli affanni
Noti non furo di una lunga etade
231E le noie compagne agli ultimi anni;

    Ma fra le dolci muse e le beate
Arti d’Apollo, placido vedesti
234Chiudersi il giro delle tue giornate.

    Vanne, o gloria d’Italia, e de’ celesti
Al santo coro ti frammischia: assai
237Di te felice il secolo già festi.

    Di lassù, finchè gli astri avranno rai
E scenderanno alla marina i fiumi,
240Da questa valle sollevarsi udrai

    Alle sfere il tuo nome e i bei costumi.