Istoria dell'Imperio dopo Marco (De Romanis)/Libro V

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Erodiano - Istoria dell'Imperio dopo Marco (III secolo)
Traduzione dal greco di Pietro Manzi (1821)
Libro V
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dell’imperio

DOPO MARCO.

LIB. V.


argomento.


Macrino, dando per lettere conto al senato di tutto ciò che si era passato, e dichiarato imperadore con allegrezza comune: ma, impigritosi nelle mollezze di Antiochia, cadde nell’abbonamento de’ soldati, i quali tumultuando lo tradiscono. Ucciso e in Calcedonia città di Bitinta, dopo essere stato vinto da Antonino, che, sendo sacerdote del Sole, fu portato nel campo: e, passando per figliuolo di Antonino, tu nominato Antonino e salutato imperadore. Costui, preso l’imperio, illaidi se stesso e la religione romana, e, adorando il dio Eliogabalo, faceva le più grandi pazzie, sì in pubblico, che in privato, nelle cose sagre, come nelle profane. Onde, venuto anch’egli in noja a soldati, fu da loro ucciso, e sostituitogli Alessandro già Cesare disegnato, salutarono questo imperadore.


Noi abbiamo narrato nel passato libro come imperasse Antonino, per quali trame fosse assassinato, e chi a lui succedesse. Macrino, subito che venne in Antiochia, scrisse lettere al senato e popolo romano in questi termini: Essendo a tutti manifesto a qual sistema di vita io mi sia, fin da’ miei più verdi anni, attenuto, il mio costume gentile e trattabile, eziandio in quella potestà, che tocca, per così dire, il principato, e alla cui fede gl’imperatori stessi si affidano, io stimo superfluo far uso di [p. 173 modifica] molte parole. Che ben sapete, quanto mieran dure quelle cose che Antonino operava, e quante volte, per ben di voi, mi sia messo in procinto di perdermi, allorché egli spalancando le orecchie alla calunnia, contro voi con ira bestiale infuriava. E perciò, facendosi beffe di me, non si ritenea di sparlare anche in pubblico del mio modesto ed umano contegno, tacciandomi di dappocaggine e di effemminatezza. Perchè, uomo qual’era venduto alle adulazioni, favoriva solo e teneva in conto di fedelissimi amici coloro, che cogli spi onaggi eccitandone il furore, lo spronavano a incrudelire. A me però son sempre valute quelle virtù, ch’ebbi ognora carissime, l’umanità e la modestia. Io la guerra di Partia sì pericolosa che tenea in pendente l’imperio, ebbi in guisa finita, che dopo aver combattuto da valoroso nel campo, indussi quel re, che si trovava alla testa di truppe infinite ed era a noi fieramente avverso, ad esserci amico ed alleato. Voi poi sotto il mio principato vivrete liberi e senza sospetti di tragica fine. Ma che dico principato! Più che principato sarà questo un governo di ottimati. Nessun però stimar mi debbe indegno di essere imperadore, biasimando là fortuna di aver ridotto l’imperio in un semplice cavaliere. Saper vorrei che giova tanta [p. 174 modifica] nobiltà, se spogliata è de’ costumi. Non udiam forse che la fortuna gira la sua ruota anche per quei che sono indegni de’ suoi doni? La virtù sola produce una gloria non menzognera. Nobiltà, ricchezze, ed altre simili condizioni, render possono un uomo felice, ma non gli partoriscono la menoma lode, per essere cose sortite. L’affabilità e la cortesia non solo sóno osservate con maraviglia, ma aggiungono lode non mediocre a chi è fregiato di loro. Che utilritraeste dalla nobiltà di Comodo, e dall’aver avuto Antonino in succe ssor di suo padre? Uomini di simile spezie, quasi eredi legittimi soprusano come lor patrimonio e senza alcun riguardo l’imperio. Ma pel contrario quelli che da voi lo ricevono, stretti da non interrompibile gratitudine, si sforzano di mostrarsi in debito al benefizio ritratto. Questi principi poi di prosapia patrizia spesse volte si fan gonfi di superbia, tenendo a vile gli altri tutti come da meno. Ma coloro che una sperimentata modestia ha elevati all’imperio, quello che con sudor conseguirono, con amore conservano, e cercano d’avere in pregio quei che sempre hanno osservato. Io certo mi son proposto di non far cosa senza il vostro parere, e, facendovi partecipi del reggimento, deferire tutto a’ vostri consigli. Vivrete a vostro modo in [p. 175 modifica] quella libertà, la quale essendo stata a voi rapita dagl’imperadori patrizj, Marco, e dopo lui Pertinace, si sforzarono restituirvi. Eran pur dessi imperadori, che dopo aver succhiato il latte di casa privata, elevati furono all’imperio; e fia più gloria nobilitare il sangue de’ suoi posteri, che deturpar quello de’ suoi maggiori con vergognosi costumi. Letta questa lettera, grandi furono gli applausi del senato, e decretati furono a Macrino tutti gli onori di augusto.

Ma i senatori non gioivan tanto di veder succeduto Macrino, quanto piacea comunemente a tutti la morte di Antonino. Imperocché tutti coloro, i quali nobilitati erano da magistrature o da pubblica considerazione, si parevano aver caduto di bocca ad un tigre efferato. Le spie, e i servi tutti che avean denunziato i padroni furono crocifissi, e tutta la città e lo stato romano fu forbito cogli esigli e co’ supplizi che a’ malvaggi si dettero. E quei che ne camparono ascondendosi, si mostravano insieme cogli altri studiosi della libertà.

Così andarono le cose per tutto quell’anno che Macrino tenne l’imperio. Il quale in questo solo peccò, che non licenziò subito l’esercito, ordinando a ciascuno di tornarsene a casa, e non se ne venne più presto che potea in Roma, [p. 176 modifica] ch’ansiosa di vederlo dì e notte lo chiamava. Se ne stava egli ozioso in Antiochia, ove fattasi crescere la barba, procedeva contro il consueto con passi tardi e gravi, e a quei che lo accostavano rispondea sì sotto voce che a grande stento si udiva, dandosi a credere d’imitare a questa guisa il buon Marco, cui in niuna cosa somigliava. Imperocché di giorno in giorno maggiormente infemminendo, era sempre intorno a’ comedianti e ballerini, e senza badare al governo, puttaneggiava con ornamenti di fibbie e cinture tempestale di ori e di gemme. Questi vizj di lussuria faceano schifo a’ romani, e a’ barbari si pareano più proprj di meretrice che di principe. Sicché, ponendovi mente, se ne sdegnavano, facendosi beffe di quel viver molle e disconvenevole a uomo militare: e, confrontando l’indole bizzarra e guerriera di Antonino con le laidezze di lui, fremeano di rabbia, vedendosi racchiusi sotto le tende a sì gran tratto dalla patria, e spesse volte senza avere con che soddisfare a’ primi bisogni. E, non si vedendo licenziare dopo firmata la pace, prima bisbigliavano di dover essere spettatori di quelle femminili sue laidezze, quindi, rotto ogni freno, ne dicevano vituperj, e si mostravano ansiosi che si presentasse loro un pretesto per levarselo dinanzi. [p. 177 modifica]

Ma stava preordinato ne’ fati che Macrino dovesse un anno solo bearsi nel principato, e ad un tratto e vita e imperio perdere, avendo la sorte posto in mano de’ soldati un debil mezzo di eseguire ciò che aveano meditato. Vi era una signora detta Mesa, da Emesa città di Fenicia. Era ella sorella di Giulia moglie di Severo e madre di Antonino: e, vivente questa imperadrice, avea passati molti anni nella corte imperiale, regnanti Severo e Antonino. Dopo la morte di quest’ultimo e di Giulia ebbe ordine da Macrino di tornarsene in casa con tutti i suoi beni. Essendosi ripatriata ricchissima di grosse somme di denaro, per aver goduto lungo tempo i favori de’ principi, vivea i suoi vecchi anni ne’ proprj poderi. Teneva due figliuole, la maggiore delle quali si nominava Soemi, la minore Mammea. Quella avea un figlio detto Bassiano, questa similmente un’altro detto Alessiano, ed ambedue si educavano sotto gli occhi della nonna e della madre. Bassiano poteva avere circa quattordici anni, Alessiano era già entrato nel decimo. Erano ambedue insigniti del sacerdozio del sole, che quei popoli hanno in grandissima venerazione, ed in lingua fenicia appellano Eliogabalo. Magnificentissimo è il tempio che gli hanno elevato, risplendente tutto di ori, di argenti, e di finissimi lavori di marm[p. 178 modifica] mi. Nè i soli paesani adorano quel dio, ma eziandio i vicini signori e re barbari vengono a gara a offerirgli ogni anno splendidissimi doni. Non hanno essi, a par de’ greci e romani, immagine artefatta del dio, ma uno smisurato macigno nella base rotondo ed elevantesi piramidalmente in figura di cono. Negra di colore è la pietra, e vantano che la si venisse da’ cieli. Veggonsi in essa alcuni rilievi che affermano essere a immagine del sole e di artifizio non umano. Di questo dio pertanto era sacerdote Bassiano, e per esser più attempato del cugino si era esso addossato le funzioni e gli onori del sacerdozio. Vestito alla barbara incedea in sottana di broccato d’oro con maniche lunghissime, e giù fino a’ piedi discendente, e dall’estremità di questi fino alla cintura era velato di un camice ricamato in porpora e in oro. Rifulgeagli in fronte una corona di colorite preziosissime gemme. Era poi in sul fiore degli anni, e di bellezza bellissima sopra tutti i giovani della sua età, di modo che il vivo lume che raggiava dal triforme eguale effetto della sua bella persona, età, e vestire delicatissimo, tirava la mente a somigliarlo alle bellissime immagini di Dionisio. Quando egli celebrava e muovea in giro i cori intorno all’altare, come usano quei popoli, a suon di pifferi, di zampogne, e di ogni altri strumenti, si gioivano [p. 179 modifica] di lui gli spettatori tutti, ed in ispezie i soldati romani, o per si sapere che discendeva di prosapia imperiale, o pel fulgore che scintillava di quella sua rara bellezza. Aveva allora vicino a quella città i suoi alloggiamenti un esercito romano destinato a difendere la Fenicia, il quale ne fu poi richiamato, come appresso narreremo. Entrando dunque i soldati sotto nome di devozione spesse volte nel tempio, fissarono attentamente gli occhi nel giovine, e non si potevano saziare di guardarlo. Eranvi tra loro alcuni dimestici di Mesa scacciali da Roma, a’ quali ella, mentre faceano le più grandi meraviglie delle sue fattezze, disse (non saprei se mentendo, o veracemente) ch’era esso, benché di altri fosse creduto, figliuolo di Antonino, il quale si era giaciuto colle giovini e belle sue figlie, quando conviveano a palazzo colle sorelle di lei. Udita da costoro tal cosa, passò di bocca in bocca per tutto l’esercito, di modo che fu in breve divulgata. Si sparse ancora che Mesa aveva monti di denaro, e ne darebbe in abbondanza a’ soldati, se a’ suoi nepoti restituissero l’imperio. Venendole dunque promesso di spalancarle le porte e acclamare Antonino imperadore, se nottetempo e di nascosto s’intromettesse negli alloggiamenti, la vecchia ardita non si ricusò, essendosi posta in [p. 180 modifica] animo di affrontare piuttosto qualunque perìcolo, che restare in vita privata ed abbietta.

Per la qual cosa di notte e nascostamente uscita la città colle figliuole e co’ nepoti, e accompagnata da quella stessa risma di rifuggiti, venne senza ostacolo intromessa negli alloggiamenti. Corsero tosto i soldati a circondare Bassiano, e abbigliatolo di porpora, lo acclamarono imperadore col nome di Antonino. Quindi, fornitisi di vettovaglie e tutt’altro che potea loro occorrere, fecero venire le loro mogli e figliuoli e quanto aveano ne’ vicini borghi e casali, e si misero in punto di regersi, se fosse duopo, anche contro un assedio.

Le quali cose tosto che furono annunziate a Macrino che si tratteneva in Antiochia, si sparse subito per l’esercito la nuova, che si era trovato un figliuolo di Antonino, e che la sorella di Giulia prodigalizzava denari a’ soldati. Di maniera che, propendendo gli animi a creder vero non solo ciò che si divulgava, ma quello ancora che veniva loro immaginato, rimanevano in forse, e si sentivano tratti ad ingarbugliare, si per odio che portavano a Macrino, che per un po’ di pietà che ancor sentivano di Antonino. Ma più veramente gli muovea la speranza di far denaro, e molti di loro eran già disertati all’insegne di questo Antonino novello. Macrino però [p. 181 modifica] se ne beffava come di una fanciullagine, e impigrendo in casa nel modo usato tra l’ozio e i piaceri, mandò un de’ suoi generali con quante truppe parvero sufficienti a porre in dovere i ribelli.

Come Giuliano (che così si chiamava il generale) pervenne ove si erano essi ristretti, e già si appressava alle mura, ecco che gli assediati e dalle torri e dai merli mostrano alle sue truppe il giovinetto, chiamandolo ad alta voce figliuolo di Antonino, e levando di peso i cofani di moneta gli ostentavano, acciò si argomentassero del prezzo del tradimento. Acconsentito avendo costoro che quegli fosse figliuolo di Antonino, e per volerlo tale, vi ravvisando eziandìo nel volto di lui le fattezze e i lineamenti del padre, tagliano la testa a Giuliano e la spediscono a Macrino. E tosto, spalancate le porte, sono in campo ricevuti. Cosicché raddoppiato l’esercito, era non solo in istato di sostenere un assedio, ma di far sortite e affrontarsi eziandìo in campo aperto, rinforzandosi massimamente ogni giorno di gran numero di disertori.

Le quali cose udite ch’ebbe Macrino, si mise in marcia con tutto l’esercito per espugnare quel campo. Antonino però, non volendo i soldati aspettare un assedio, ma chiedendo ar[p. 182 modifica] ditamente di sortire per battersi in campo aperto con Macrino, trasse fuori tutte le truppe. Si affrontarono i due eserciti su’ confini della Fenicia e della Siria: gagliardamente combatterono i soldati di Antonino, certi che se si facevano vincere non aveano a sperare quartiere: freddisdissimi e scorati presero la battaglia quei di Macrino, e di tratto in tratto disertavano tra i nemici. Della qual cosa accortosi Macrino, temendo di èssere abbandonato da tutti, e cadere in mano de’ suoi nemici che ne avrebbero fatto strazio, mentre ancor ferocemente si combatteva, sull’appressarsi della sera si spogliò le divise imperiali, e si die’ alla fuga seguito da pochi fedelissimi capitani. E rasasi la barba per non essere conosciuto, con abito da viaggio e a capo sempre coperto, fuggiva via velocissimamente; e per prevenire la fama della sua disgrazia, i suoi stessi capitani facean fretta a’ postiglioni, dando ad intendere che Macrino per anche imperadore gli spediva per affari rilevantissimi. Mentre egli in tal guisa si dileguava, si battevano gli eserciti, e dalla parte di lui le guardie, e gli approvigionati che dicono pretoriani, gente scelta e di singolare prodezza, valorosamente pugnando sostenevano la battaglia . Gli altri tutti combattevano per Antonino. Così durata un pezzo la zuffa, quei di Macrino non vedendo [p. 183 modifica] più l’imperatore nè le insegne imperiali, non sapendo che ne fosse avvenuto, se morto, o pure fuggito, eran dubbj a qual partito attenersi, sì per parer loro cosa pazza lo esporsi maggiormente per un uomo che più non si vedea, si pure non si fidando di porsi a discrezione de’ nemici. Ma Antonino, subito che intese da’ prigioni che Macrino era fuggito, mandò gente per avvertirgli ch’era pazzia di combattere per uomo timidissimo e fuggiasco, e facendo promettere con giuramento perdono e obblivione delle cose passate, tutti per sue guardie gli elesse. Di maniera che, non esitando più a prestargli fede, si misero tutti nelle sue mani.

Iramantinenli Antonino fece tener dietro a Macrino che era già da lungi gran tratto. Ma fu raggiunto in Calcedonia città di Bitinia gravemente malato, e tutto rotto e sconquassato dalla lunghezza del viaggio.Si rinvenne nascosto in un sobborgo, e quivi gli fu tagliata la lesta. Dicono, che si fosse affrettato di andarsene in Roma, confidato moltissimo ne’ favori del popolo; ma che passar volendo in Europa per lo stretto di Gallipoli, e già stando per approdare in Bisanzio, fu da’ contrarj venti sbalzato indietro, e posto, per così dire, in mano de’ suoi uccisori. Così poco mancò che non ponesse in salvo quella vita che con fine sì laida ebbe duopo lasciare, mal si es[p. 184 modifica] sendo consigliato di gire a Roma dopo la disgrazia, quando avrebbe dovuto farlo dapprima. Impedito dunque dalle proprie determinazioni e dalla fortuna, gli fu forza morire col figliuolo Diadomeno, cui aveva già dato il nome di Cesare.

Ma poiché Antonino fu da tutto l’esercito, che si era posto sotto le sue insegne, salutato imperadore, e, preso in mani il governo, ebbe dato sesto a’ più importanti affari dell’oriente, conformandosi (per essere esso assai giovine e senza esperienza) a’ consigli della nonna e degli amici che gli erano intorno, senza perder tempo intimò la partenza a suggestione di Mesa ch’era in ismanie di tornare in Roma a palazzo ove si era invecchiata. Ma, venuta la notizia dell’accaduto all’orecchia del senato e popolo romano, non si può dir quanto ne fossero rattristati. Era però indispensabile l’obbedire e chinare il collo a quella elezione voluta dall’unanime consentimento de’ soldati, e si restrinse il loro rammarico a sfogarsi contro Macrino, la cui imprudenza ed effemminata mollezza erano stati di tanto male cagione.

Antonino, partitosi di Siria , si vide necessitato dalla stagione a svernare in Nicomedia. Ove subito cominciò a fare le pili grandi pazzie, celebrando fuor di proposito sagrifizj e festini in onore del dio cui era consagrato. Vi andava in [p. 185 modifica] gran lusso vestito con abiti tessuti d’oro e di porpora, e con effemminati ornamenti di collane, smaniglie, e corone fatte a uso di tiare e tempestate di ori e di gemme. Il garbo della veste traeva un po’ della stola sacerdotale fenicia, e dell’ammitto de’ medi. Aveva a vile il vestiario de’ greci e de’ romani, dicendo esser tessuto di vilissima lana, e non adoperava che drappi di seta. Danzava poi in pubblico a suon di tamburi e di pifferi per far festa al suo dio. Queste cose vedendo Mesa, ne sentiva dolore infinito, e con preghiere si affaticava a persuadergli di vestirsi alla romana, acciò nell’entrar Roma non offendesse con quel barbaro e strano vestiario gli occhi de’ romani, che sono alieni da tali delicatezze e le reputano più donnesche che virili. Ma egli, facendosi beffe degli avvertimenti della vecchia, e chiudendo le orecchie ad ogni consiglio che non gli venisse da’ suoi simili e adulatori, si mise in testa di assuefare il senato e popolo romano a quella moda, e in sua assenza far prova di quello che sarebbero per dire. Fattosi dunque ritrattare in una tavola al naturale qual era, cioè nell’uscire in pubblico e ne’ sagrifizj, e con seco il dio del cui sacerdozio era insignito, la mandò in Roma, con ordine che si situasse nel più alto luogo della sala del senato, e precisamente sopra la statua della vittoria, affinchè nel[p. 186 modifica] le adunanze venisse cogl’incensi e colle offerte adorata. Ordinò anche che tutti i magistrati romani e pubblici sacerdoti innanzi a que’ dii, de’ quali son soliti di fare ricordanza ne’ sagrifizj, ponessero il nome del suo dio Eliogabalo. Di maniera che, venuto che fu in Roma, non apparve nuovo alla vista de’ romani che avevano già fatti gli occhi al suo ritratto.

Avendo dunque presentato il popolo de’ consueti donativi, come sogliono fare quei che assunti sono all’imperio, si occupò dipoi a festeggiare con magnificenza grandissima ogni spezie di spettacoli. Edificò per anche un assai bello e grandissimo tempio al suo dio con infinità di altari all’intorno, entro i quali ogni mattina scannava centinaja di tori e moltitudine senza numero di pecore: e, dopo avervi ammucchiata ogni maniera di preziosissimi balsami, vi spargea molte anfore di vino vecchio, il più che vi era squisito, in forma che meschiati insieme per tutto correvano rivi di vino e di sangue. E, ponendosi alla testa de’ cori di damigelle fenicie danzeggianti a corona al suono di una strepitosa musica istrumentale, accompagnata da loro con cembali e timpani, gli volgea in giro attorno gli altari, alla presenza dell’intero senato e dell’ordine de’ cavalieri, che come da un teatro lo riguardava no. Quindi racchiusi entro vasi d’oro [p. 187 modifica] le interiora delle vittime e le spezi erìe, le ponea in capo, non a’ domestici o a persone di bassa condizione, ma a’ generali e a’ grandi dignitarj, vestiti di tonache talari con lunghissime maniche all’uso fenicio, partite nel mezzo da una striscia di porpora, e con calze di pezza come portano gli astrologhi di quei paesi. Gli parea poi di fare grande onore a quei che invitava a tali festività.

Ma quantunque paresse tutto intento alle danze ed a’ canti, fece uccidere molti illustri e doviziosi personaggi che gli erano stati accusati di avere sparlato di lui, come menante una vita che non pareva 1 oro decente. Prese quindi per moglie una nobilissima signora, cui dette ancora il nome di augusta, e poco dopo ci fece divorzio, privandola di ogni onorificenza, e imponendole di vivere da privata. Appresso a questa, fìgnendosi innamorato (credo per parer uomo in qualche cosa) di una monaca di Vesta, che avea fatto professione di perpetua castità, la rapì dalla chiesa e sagro monistero delle vergini, e se la prese per moglie. Quindi per colorire sì orrendo sagrilegio scrisse al senato: ch’essendo egli della stessa pasta degli altri, era stato preso fortemente dal piacere della ragazza, e che in ogni modo ben si conjaceva a un sacerdote impalmare una sacerdotessa, e persone [p. 188 modifica] sacerdotali rendere più auguste le nozze. Ma poco dopo anche questa scacciò, e prese la terza moglie, che si dicea appartenere all’illustre sangue di Comodo.

Ma non solo si facea beffe de’ matrimonj degli uomini, ma andava per anche in cerca di moglie pel suo dio. Fatta dunque trasferire nella sua camera l’immagin di Pallade, che i romani tengono riposta e in grandissima venerazione, nè mai fanno vedere a persona, e insin dal tempo che fu tratta d’ilio non mosser mai di luogo, se non quando arse il tempio, la diè per moglie al suo dio. Indi, non più gli garbando quella dea belligera e sempre armata, ordinò che gli si facesse venire dall’Africa l’immagine di Urania, cui quei popoli son grandemente devoti, avendo per fede che sia opera della fenicia Didone, da lei fatta, quando entro le striscie del secco cuojo edificò l’antica città di Cartagine. Essi africani Urania, i fenicj Astroarche la chiamano, affermando esser la luna. Bene addirsi, argomentava Antonino, un conjugio tra il sole e la luna: e perciò dette ordine che si arrecasse il simulacro con quant’oro e denari fosser nel tempio, per costituirne una dote al suo dio. Portato che fu e situalo presso Eliogabalo, bandì che per tutta Italia si dessero feste e spettacoli con quanta si potea maggiore allegrezza, per [p. 189 modifica] celebrare queste nozze divine. Elevò quindi ne’ sobborghi un tempio di gran magnificenza e grandezza, ove ogni capo d’anno sul venir dell’estate vi conducea il suo dio; e, dando corse, commedie, pranzi, e festini, credea di far cosa graziosa a’ romani. Trasportavalo egli stesso sopra un cocchio tutto in oro e preziosissime gemme, tirato da sei giganteschi e candidissimi cavalli, fomiti di finimenti varj e ricchissimi. Non era lecito a persona di montare in sul cocchio, ma tutti erano all’intorno del dio, come se da per solo Io guidasse. Antonino, reggendo i freni de’cavalli, si tenea volto alla immagine di lui, e cogli occhi fissi in lei, guidava il cocchio all’indietro, e così procedea lungo tutta la via. La quale, acciò egli non vi sdrucciolasse o cadesse, facea tutta quanta spargere di quell’arena ch’è color d’oro, con soldati all’intorno schierati, acciò in caso di caduta lo reggessero. Era la via tutta zeppa di popolo, che correa avanti indietro con fiaccole, e spargea fiori e corone. Venivano appresso le immagini di tutti gl’iddii, e le più ricche e superbe suppellettili che insignivano i templi e l’imperiale palazzo: gli faceano similmente corteggio i cavalieri e tutto l’esercito. Condottolo in tal guisa e situatolo nel tempio, gli celebrava: e poi, salendo sopra una grande ed altissima torre a questo fine edificata, [p. 190 modifica] gittava giù al popolo vasi d’oro e d’argento, vesti di varj drappi, animali di ogni spezie, eccetto i porci, de’ quali si astenea per legge fenicia. E non si vietando a persona di prendersi ciò che gli fosse piaciuto, vi era sempre in quella calca gran mortalità di gente, parte calpestati, e parte feriti dallo scontro delle bajonette de’ soldati, cosicché una tal festa diveniva a molti fatale. Spesso poi solea dare di se spettacolo al pubblico, e porsi in mostra o di cocchiere, o di ballerino, ispazientendo di tener nascosti i suoi vizj; e varie volte fu visto venir fuori cogli occhi lisciati e le guancie imbellettate, e il bello e leggiadro suo viso imbruttire di stomachevoli empiastri. A’ quali suoi portamenti ponendo mente Mesa, e temendo che non se ne sdegnassero i soldati, e che la sua mina le potesse esser cagione di ricadere in istato privato, persuade il giovinastro semplice e sciocco ad adottare il suo cugino nato di Mammea, e a dichiararlo cesare: e per indurcelo maggiormente, gli fece vedere che a lui si convenìa darsi tutto al sacerdozio e alla celebrazione de’ divini misterj, e per occuparsene interamente, essergli duopo commettere ad un altro la cura degli affari umani, per poter regnare senza briga e molestia: non però consigliarlo a scegliere un forestiere, e che non fosse seco loro congiunto di sangue [p. 191 modifica] ma, a preferenza di chiunqoe altro, ne onorasse il suo proprio fratello.

Cambian dunque il nome ad Alessiano, e gli pongono quel di Alessandro, mutato l’avito nome nel macedonico, che avea fama di si gran celebrità, e la cui memoria era stata grandemente Onorata da Antonino, che passava per padre di ambedue, come si sforzava di dare ad intendere la vecchia Mesa, infamando le proprie figliuole per tirare a’ giovinetti la benevolenza della soldatesca. Venne dunque Alessandro dichiarato cesare, e fatto console insieme con Antonino, interpellatone il senato, il quale sottoscrisse il risibile decreto, che dichiarava padre di un ragazzo di dodici anni un suo fratello che ne avea pochi più di quattordici.

Poiché Alessandro fu cesare, saltò a un tratto in testa ad .Antonino di volerlo a bagordare insiem con se nelle danze, ne’ festini, e mettendolo a parte del sacerdozio, fargli usare le sue stesse vesti e i suoi medesimi portamenti. Ma la madre Mammea non gli permettea d’imbruttire in questo modo la dignità del principato, e provedendolo occultamente de’ megliori maestri, lo educava co’ principj della più colta educazione, componendolo ottimamente a’ virili esercizj delle armi e della dotta, ed alla gentilezza delle lettere greche e latine. [p. 192 modifica]

Il quale operare muovea Antonino a grandissima indignazione, e già si sentìa pentito di averlo associato all’ imperio. E perciò fe’ cacciar via di palazzo tutti que’ letterati, e molti di loro di grandissima fama o uccise o esigliò, allegandone il ridicolo pretesto che gli aveano corrotto il figliuolo, ritraendolo dalle danze e da’ divertimenti, e gli aveano empiuto la fantasia di bizzocherie e di soldatesca goffagine. E impazzì a segno, che promosse alle prime dignità dell’imperio gente da teatro ed altri simili istrioni. Nominò generalissimo un certo ballerino che da giovinetto era stato prezzolato per saltare pubblicamente in teatro. Creò principi della gioventù, del senato, e de’ cavalieri tre commedianti. Prepose alle principali amministrazioni dello stato cocchieri, giullari, e buffoni. A’ suoi servitori e liberti, e a’ più infami, dava i governi delle provincie. In tal guisa tutti gli oggetti più gravi e tenuti prima in contegno decoroso, si bruttarono e caddero nel fango del più vile e pazzo disordine; di maniera che ognuno, ed in ispezie la truppa, ne scoppiava di rabbia, rampognandolo ancora della viltà del suo viso da bordello rilevato da foggie puttanesche di collane e vesti mollissime, e dalla bruttura di quelle danze pubbliche e invereconde. Tutti dunque volgeano l’amor loro ad [p. 193 modifica] Alessandro, fondando nella sua continenza e modestia le loro più allegre speranze, e guardandolo diligentemente dalle insidie d’Antonino. E la sua, madre Mammea gli difendea sempre di por la bocca alle bevande od a’ cibi che gli fossero per parte di lui presentati. Lo serviano in tavola non già i cuochi ed i scalchi di palazzo, ma persone scelte dalla madre e di fedeltà da lei sperimentata. Essa poi gli ponea in mani denari per regalare nascostamente i soldati, e imbenevolirsegli con questo pasto a cui son sempre intesi.

Delle quali manovre fatto accorto Antonino, si scaltrì ad ogni frode, per levarsi dinanzi Alessandro e la madre. Le sue arti però eran vane, e si frangeano dinanzi alla prudenza di Mesa avola contane, la quale, essendosi invecchiata in palazzo con Giulia sua sorella moglie di Severo, era al caso di deludere col suo senno le coperte trame di Antonino, giovine di carattere leggiero, e che si aprìa colle parole e co’ falli. Ma poiché egli conobbe che non irretiano i suoi lacci, s’intestò di privarlo degli onori di cesare, e gl’intinto di non più uscir di palazzo, vietando eziandio che gli si venisse a fare riverenza. Ma i soldati, irritati che si spogliasse in tal modo del comando, a grandi grida lo dimandavano. Allora Antonino per porre a [p. 194 modifica] prova gli animi loro fe divulgare ch’era morto.

Tardando però grandemente a soldati che si mostrasse loro Alessandro, e dalle voci che si facean correr di lui esacerbati, si commossero a segno che negarono di mandare la solita guardia a palazzo; e tenendosi ristretti entro il quartiere, diceano voler essi vedere Alessandro nella loro cappella. Antonino sbigottito se ne andò a loro, conducendosi Alessandro nella sua carrozza, che di ori e di gemme tutta risplendea. Spalancate le porte furono ambedue intromessi e condotti nella cappella del quartiere, e senza fare alcun conto di Antonino, tutti gli applausi e le accoglienze si volsero ad Alessandro. Tenendosene egli assai a male, passata ch’ebbe quella notte nella cappella , ne partì pien di mal umore contro i soldati, e notati quei che aveano fatti maggiori applausi ad Alessandro ordinò, che tutti, come rei di sedizione e di scandalo, si trascinassero al supplizio. La qual cosa fece montare in furore tutta la soldatesca che di già era stanca de’ suoi portamenti, e afferrando l’occasione di levarsi dinanzi un principe di tanta viltà, e medesimamente di venire all’ajuto de’ loro compagni, te lo prendono con Soemide che come madre ed augusta era ivi presente, e gli ammazzano insieme a quanti si eran portati appresso di servi e ministri delle [p. 195 modifica] sue ribalderìe. Quindi, a più obbrobrio, misero in man del popolazzo i cadaveri di Antonino e di Soemide: il quale, fattine strazio, e trascinatigli lungo tutta la città, all’ultimo gli gittò in certe chiaviche che conducono al Tevere. Così Antonino avendo tenuto sei anni l’imperio, e vissuto come abbiam detto, insieme a Soemi fu morto. I soldati salutarono imperadore il giovinetto Alessandro che ancor pendea da’ cenni della madre e della nonna, e lo condussero a palazzo.

Fine del Libro Quinto.