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La Nascita della Tragedia/Capitolo XIII

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Friedrich Nietzsche - La Nascita della Tragedia (1872)
Traduzione dal tedesco di Enrico Ruta (1919)
Capitolo XIII
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Capitolo XIII.

Socrate ed Euripide. — Contro il mero istinto. — Il demone socratico. — Il nuovo ideale della gioventù greca.

All’antichità contemporanea non sfuggi la stretta affinità di tendenza che legava Socrate ad Euripide; e l’espressione più eloquente di cotesto sentore indovino è la diceria diffusa in Atene, che Socrate solesse dare una mano ad Euripide nel poetare. I due nomi venivano pronunziati insieme dai partigiani del «buon tempo antico», quando si trattava di mentovare i sodduttori del popolo: dipendeva dalla loro influenza, se l’antica quadrata gagliardia maratonia del corpo e dell’anima, col continuato snervamento delle forze corporee e spirituali, era sacrificata a una cultura sempre più scettica. In siffatto tono, metà di sdegno, metà di sprezzo, la commedia aristofanesca usa parlare di quegli uomini, con grande scandalo dei giovani, che in verità avrebbero pure buttato a mare Euripide, ma che non arrivavano a stupirsi abbastanza, come mai Aristofane potesse presentare Socrate pel primo e sovrano sofista, per lo specchio e il compendio di tutti gli arzigogoli sofistici: contro di che una sola consolazione rimaneva; ed era di mettere alla berlina lo stesso Aristofane come un dissoluto e bugiardo Alcibiade della poesia. Senza fermarmi a questo punto a difendere da tali contrattacchi i profondi istinti di Aristofane, [p. 116 modifica] continuo a dimostrare, fondandomi sullo stato d’animo del tempo, la stretta congruenza del genio di Socrate col talento di Euripide; nel qual senso bisogna specialmente ricordare, che Socrate, da avversario dell’arte tragica, si asteneva dalle rappresentazioni della tragedia, e che interveniva solo quando era portato sulla scena un nuovo lavoro di Euripide. Ma più che mai famoso è il raccostamento dei due nomi nel detto dell’oracolo di Delfo, che dichiarò Socrate il più sapiente degli uomini, e nello stesso tempo sentenziò, che nella gara della sapienza il secondo posto spettava ad Euripide.

Terzo in tale graduazione era mentovato Sofocle; egli che, rispetto ad Eschilo, poteva vantarsi di far bene, e di farlo, perché sapeva ciò che era ben fatto. Evidentemente è per l’appunto il grado di chiarezza di cotesto sapere, il fatto che accomuna i tre uomini designandoli come i tre «sapienti» del loro tempo.

Ma in quella nuova e inaudita esaltazione del sapere e dell’intelligenza, la parola più tagliente la disse Socrate, quando egli si trovò di essere il solo che confessava a sé stesso di non saper nulla; laddove nelle sue peregrinazioni critiche per Atene, presso i maggiori uomini di stato, oratori, poeti e artisti, s’imbatteva dovunque nella presunzione del sapere. Egli ebbe con stupore a verificare, che tutti cotesti famosi uomini non avevano neppur essi un’idea giusta e sicura del proprio cómpito, e che lo eseguivano per mero istinto. Per mero istinto»: con questa [p. 117 modifica] espressione tocchiamo il cuore e il centro della tendenza socratica. Al cui lume il socratismo condanna tanto l’arte quanto l’etica del suo tempo: dovunque volga lo sguardo scrutatore, vede per tutto la mancanza d’intelligenza e la potenza della suggestione, e da questa mancanza inferisce l’intimo sovvertimento e l’inammissibilità della vita come è. Movendo da un tale punto, Socrate credè di dover correggere resistenza: egli, ed egli solo, si fa avanti in aspetto di disdegno e di superiorità, come il precursore di una civiltà e arte e morale conformate del tutto diversamente, in mezzo a un mondo di cui noi ascriveremmo a somma fortuna il giungere a toccare il lembo.

Ecco l’enorme perplessità che ci assale ogni volta davanti a Socrate, e che sempre più ci attrae a conoscere a fondo il senso e il fine di questo che è nell’antichità il fenomeno più meritevole d’indagine e di discussione. Chi è costui, che si attentò esso solo di negare la natura greca, che come Omero e Pindaro e Eschilo, come Fidia, come Pericle, come Pitia e Dioniso, come il più profondo abisso e l’altitudine suprema, è sicuro della nostra adorazione stupefatta? Quale potenza demonica è cotesta, che ardi gettare nella polvere un tal filtro magico? Qual semidio è questi, a cui il coro degli spiriti della più nobile umanità deve gridare: «Ahi! ahi! Tu lo hai infranto, il mondo bello, col tuo pugno possente: rovina, procombe!»?

Il mirabile fenomeno mentovato come «il demone socratico» ci dà la chiave della natura di [p. 118 modifica] Socrate. Nelle singolari situazioni in cui il Suo intelletto enorme vacillava, egli riprendeva l’equilibrio in virtù di una voce divina che gli si manifestava in tali momenti. Cotesta voce, quando viene, è sempre dissuadente. In siffatta natura interamente abnorme, la saggezza istintiva si mostra solo per farsi incontro eventualmente alla conoscenza consapevole, come inibizione. Laddove in tutti gli uomini produttivi proprio l’istinto è la forza creativo-affermativa e la coscienza si rivela critica e infrenatrice, invece in Socrate il critico è l’istinto e il creatore è la coscienza: una vera mostruosità per defectum! Se infatti noi in ogni disposizione mistica ammettiamo un mostruoso defectus, bisogna designare Socrate come lo specifico non-mistico, nel quale la natura logica è, per superfetazione, tanto eccessivamente sviluppata, quanto è nel mistico la sapienza istintiva. D’altra parte, però, a cotesto istinto logico che appare in Socrate era completamente interdetto di ritornare sopra sé stesso: egli in questo sfrenato prorompimento mostra una veemenza naturale, quale la incontriamo, con nostro stupore e raccapriccio, nelle massime forze dell’istinto. Chi negli scritti platonici ha colto non più che un alito di quella divina semplicità e sicurezza del costume di vita socratico, sente anche, che la portentosa ruota istintiva del socratismo logico è in movimento, per così dire, alle spalle di Socrate, e che bisogna considerarla attraverso Socrate come attraverso un’ombra. Ma che di questa situazione [p. 119 modifica] egli avesse sentore, si palesa nella maestosa dignità con cui fece valere dovunque, e anche davanti ai suoi giudici, la sua divina vocazione. Confutarlo in questo, era in fondo altrettanto impossibile, quanto chiamar buona la sua influenza dissolvitrice degl’istinti. Essendo questo l’insolubile conflitto nel momento che Socrate fu condotto davanti alla giustizia dello stato greco, era una sola la forma di condanna che era offerta: l’esilio. Sarebbe stato lecito cacciarlo oltre i confini come alcunché di affatto enimmatico, non assegnabile ad alcuna rubrica penale, inesplicabile, senza che la posterità, forse, fosse poi stata in diritto d’incolpare gli ateniesi di un atto ignominioso. Ma sembra che lo stesso Socrate, con assoluta limpidità, e senza punto il naturale brivido davanti alla morte, abbia condotto le cose in modo, che la morte e non il semplice esilio fosse pronunziata contro di lui; e alla morte andò con la medesima calma con che, secondo la descrizione di Platone, egli, l’ultimo dei bevitori, ai primi albori lasciava il simposio per principiare una nuova giornata; e dietro di lui i convivali rimanevano addormentati sui sedili e a terra, per sognare di Socrate, il verace erotico. Il Socrate morente divenne il nuovo ideale, non mai prima contemplato, della nobile gioventù greca; e prima di tutti Platone, il tipo del virile efebo ellenico, s’inginocchiò davanti a quella immagine con tutta la devozione ardente della sua anima innamorata del cielo.