La Stella Polare ed il suo viaggio avventuroso/Parte seconda/7. Terra!... Terra!...

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Parte seconda - 6. La Stella Polare fra i ghiacci Parte terza

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Capitolo VII

Terra!... Terra!...


Dopo la vigorosa raffica di ponente, il tempo era migliorato. Il nebbione, scacciato da quei luoghi s’era accumulato verso levante; anche le nubi che per tanti giorni avevano coperto ostinatamente il [p. 203 modifica]cielo, impedendo agli esploratori di fare il punto, cominciavano a rompersi, lasciando vedere, qua e là, qualche zona azzurra.

Il sole faceva capolino fra quegli strappi, facendo scintillare meravigliosamente i ghiacci che vagavano per quel mare infinito, avanguardia d’altri ben maggiori che stavano scendendo al di là dell’orizzonte.

Quei fasci di luce gialla, davano strane tinte a quei figli delle regioni pallide, facendo perdere loro il triste aspetto che sogliono avere quando il cielo è coperto di brume.

Taluni, percossi in pieno, parevano masse di bronzo ardente; altri sembravano piramidi di marmo, incrostate di opali enormi e di perle d’oriente; altri ancora avevano striature azzurre di cobalto, o verdi come gli smeraldi.

Intorno a loro l’acqua prendeva pure tinte strane: erano bagliori d’oro con linee di fuoco che tutto d’un tratto diventavano opache, con guizzi verdi, azzurri o bianchi, a seconda del rifrangersi dei raggi solari.

La Stella Polare, sfuggita al pericolo, s’avanzava fieramente su quel mare tranquillo, impaziente di avvistare le rive della Terra di Francesco Giuseppe.

Una leggera brezza, che soffiava da ponente, gonfiava le sue vele, spingendola sempre più al nord, nel mezzo di quell’Oceano Artico che rinserrava nel suo centro il misterioso polo.

L’equipaggio, disperso per la tolda, si godeva quel po’ di sole che da tanti giorni non aveva più veduto. Tutti erano di buon umore, eccettuati i cani che come al solito si azzuffavano ferocemente, mordendosi a sangue.

A prora, sul castello, i capi della spedizione osservavano attentamente l’orizzonte coi cannocchiali, per accertarsi se i grandi banchi erano ancora molto lontani. Parevano sorpresi di vedere il mare sgombro dopo d’aver fatto l’incontro del floe.

– Che cosa ne pensate signor Evensen? – domandò il tenente Querini.

– Io penso, signore, che la fortuna protegge la Stella Polare, – rispose il baleniere. – Gli altri anni difficilmente si trova il mare così sgombro in questi paraggi. [p. 204 modifica]

– Che abbiamo trovato il famoso mar libero?... – chiese il tenente, ridendo.

– Non dovrebbe trovarsi qui, signore, bensì al nord delle isole americane, al di là del canale di Robeson.

– E chi lo ha veduto?...

– Quantunque io abbia i miei dubbi sul mare libero che esisterebbe intorno al polo, molti viaggiatori hanno asserito d’averlo scoperto. Kane, su riferta del suo mastro d’equipaggio, il Morton, ha pel primo affermata l’esistenza del mare libero, incontrato al di là d’un immenso campo di ghiaccio, lungo cento e ottanta chilometri, e dove le acque avevano una temperatura di 2° 26 sopra zero, mentre il freddo esterno toccava i 46° sotto lo zero. Ha inoltre affermato che quel mare aveva maree regolari che attestavano la sua ampiezza. Dopo Kane è la volta di Parry, il quale raccontò al suo ritorno, d’aver viaggiato sopra ghiacci che diventavano sempre meno spessi, di passo in passo che s’avanzava verso il nord. È da allora che nacque la credenza di una grande corrente d’acqua tiepida, girante attorno al polo, corrente ammessa da scienziati di vaglia come il Maury, il Peterman, il Behm, ed altri.

– Ma i balenieri non credono a questo famoso mare libero, è vero?

– No signore, perchè noi non l’abbiamo mai veduto.

– Me lo avete detto ancora, signor Evensen, pure qualche cosa ci deve essere di vero, e fino a prova contraria non si può respingere l’esistenza di quella grande corrente.

– Oh no!... Il Fram ha provato l’influenza di quella corrente.

– E anche la Jeannette, la quale, al pari del Fram è stata trascinata, assieme ai ghiacci che la tenevano prigioniera, sempre verso ponente, con tendenza ad avvicinarla al polo. È una cosa importante da studiarsi, e tutte le Società geografiche dovrebbero riunirsi a quella di Filadelfia e stabilire, in diverse isole polari, delle stazioni d’osservazione. In tal modo potrebbesi studiare anche la direzione dei venti e chiarire molti fenomeni che sono ancora ben poco noti.

– L’idea di stabilire una rete di osservatori intorno al polo, non è nuova, signor tenente, – disse il capitano. – Il signor Carlo Weiprecht, uno degli esploratori della Terra di Francesco Giuseppe, l’aveva già proposta nel 1882. [p. 205 modifica]

– E non fu attuata?...

– Sì, in parte.

– E quali risultati ha dato?...

– Disastrosi, signore. Conoscete la storia del brigadiere generale Greely?...

– Un po’.

– Ve la narrerò io, signore, giacchè la nave non richiede momentaneamente i nostri servigi. È una delle più emozionanti.

Come vi dissi, il signor Weiprecht aveva rivolto un caldo appello ai diversi Stati onde si organizzassero delle spedizioni destinate a fare delle osservazioni intorno al polo.

Gli Stati Uniti d’America furono i primi a rispondere all’appello del valoroso scienziato, e ne diedero l’incarico al brigadiere generale Greely, un uomo già pratico delle regioni polari.

La spedizione si componeva d’un medico francese, il dottor Pavy, di due sottotenenti di fanteria, otto sergenti, due caporali, nove soldati e di due esquimesi.

Essa doveva spingersi fino alla baia Lady Franklin, una delle più prossime al Polo Nord e costruirvi un osservatorio. Portava viveri per un anno, ed erasi stabilito che se nessuna spedizione di soccorso avesse potuto raggiungerla, dovesse lasciare la stazione il 1° settembre del 1883.

Il 25 agosto del 1883, il Proteo sbarcava Greely ed i suoi compagni nella baia, poi riprendeva la rotta verso il sud.

Da quel momento non si seppe più nulla degli arditi esploratori. L’inverno era stato rigidissimo quell’anno, perciò si avevano dei gravi timori per quei ventiquattro uomini abbandonati in mezzo ai ghiacci.

Come era stato stabilito, l’anno dopo si mandava una nave con viveri abbondanti. Il Nettuno, tale era il nome della nave di soccorso, lascia Terranuova e si dirige verso il nord, ma i ghiacci l’arrestano presso l’isola Littleton, e tutti i tentativi per superare quelle barriere riescono vane.

Il comandante del Nettuno sbarca sull’isola i viveri destinati alla spedizione, poi ritorna, per non venire rinserrato dai ghiacci che già lo minacciavano da tutte le parti. [p. 206 modifica]

Il governo americano, inquieto per l’assenza completa di notizie da parte di quei valorosi esploratori, arma il Proteo ed anche questo, dopo una difficilissima navigazione, viene arrestato presso il Capo Sabine.

I ghiacci gli si stringono addosso, lo accerchiano, lo schiacciano e l’oceano Artico lo inghiotte.

Il suo equipaggio viene salvato con molti stenti da una nave baleniera che incrociava in quei paraggi e ricondotto in patria.

Quando il governo degli Stati Uniti apprese la notizia di quel disastro, la costernazione fu generale. Tutti ormai erano convinti della perdita totale dei membri della spedizione.

Quei disgraziati non avevano viveri che per un solo anno e non era possibile rifornirli prima del ritorno della nuova stagione.

L’anno seguente, appena lo stato dei ghiacci poteva permetterlo, due nuove navi vengono mandate: il Bear ed il Thelis.

Esse dopo molti sacrifici riescono a raggiungere l’isola Littleton e trovano intatti i viveri sbarcati dal Nettuno.

Greely non vi si era dunque recato.

Si fanno delle esplorazioni lungo le spiagge dell’isola e si riesce a trovare in un cairn un rotolo di carte. Appartenevano a Greely e contenevano le note della spedizione fino al 21 ottobre del 1883.

Le due navi stavano per abbandonare l’isola, essendo tutti convinti della morte degli esploratori, quando sulla cima d’una rupe si vide una forma umana.

Le due navi s’arrestano e fanno segnali colle bandiere. Quell’uomo scende penosamente la rupe agitando una piccola bandiera americana. Era così sfinito che ogni dieci passi cadeva a terra.

Finalmente i marinai delle due navi lo raggiungono, lo sollevano e lo portano al capitano del Bear.

Lo si opprime di domande e si viene a sapere che egli apparteneva alla spedizione, e che sette persone erano sopravvissute ai terribili freddi dell’inverno polare.

Quell’uomo era ridotto in uno stato compassionevole. Era un vero scheletro, e le sue mascelle, agitate da un tremito convulso, appena riuscivano ad aprirsi.

«Vive Greely?...

«Sì. [p. 207 modifica]

«Dove si trova?...

«Nella tenda, ma la tenda è caduta!... è caduta!... è caduta.»

E ripeteva macchinalmente questa frase.

Pareva che la caduta della tenda fosse la sua principale preoccupazione.

Il comandante ne sapeva perfino troppo.

Organizza rapidamente una colonna di soccorso fornendola di viveri e di cordiali e corre in cerca di Greely.

Dietro ad una rupe trovano la tenda.

Era mezza caduta, non avendo per sostegno che un solo bastone. Si solleva la tela indurita dal freddo, la si taglia a colpi di coltello e si trova presso l’entrata un cadavere colle gambe irrigidite, gli occhi vitrei e fissi nel vuoto, con una mascella quasi staccata; più innanzi trovano un altro disgraziato senza mani e senza piedi, con un cucchiaio attaccato al moncone del braccio destro. Quest’ultimo per quanto in uno stato così spaventevole respirava ancora.

In mezzo alla tenda vi erano altri tre uomini: due stavano accoccolati, tenendosi fra le mani la fronte; il terzo si teneva strette le ginocchia. Questi aveva la barba lunga e incolta, aveva gli occhi brillanti e spalancati e indossava una sucida veste da camera tutta a brandelli.

«Chi siete voi?» gli chiese il capitano.

L’uomo dalla veste da camera lo guarda come inebetito, poi risponde:

«Il.... il.... maggiore.... Greely.... Sette di noi.... vivono ancora.... siamo qui.... morendo.... da uomini.... ho fatto quanto ho potuto....»

Poi ricadde esausto.

Quei disgraziati furono portati a bordo ed a poco a poco si riebbero, ma su ventiquattro, diciassette, fra i quali il dottor Pavy, erano morti di fame e di stenti fra i ghiacci polari!...

– Una catastrofe che fa riscontro, in piccole proporzioni, a quella di Franklin, – disse il tenente.

– O meglio a quella della Jeannette, signore, – concluse il capitano Evensen.

Intanto la Stella Polare continuava la sua rapida marcia verso il nord. [p. 208 modifica]

La Terra di Francesco Giuseppe non doveva essere molto lontana. Quantunque il cielo si fosse nuovamente coperto, impedendo di rilevare esattamente la latitudine e la longitudine, tutti erano convinti che fosse vicina.

I ghiacci aumentavano. Parecchi ice-bergs navigavano lentamente verso ponente, vomitati certamente dai ghiacciai della Terra di Francesco Giuseppe.

Erano per lo più di forma piramidale, però ve n’erano alcuni che sembravano immense colonne tozze, sormontate da strani capitelli.

Quei giganti delle terre artiche sfilavano silenziosamente, sordi alle carezze delle onde, seguìti o preceduti da lunghe file di hummoks, di streams e di palks.

Di quando in quando qualcuno, perduto l’equilibrio, si capovolgeva con immenso fracasso, sollevando ondate mostruose. S’immergeva per alcuni istanti, poi una nuova punta, diversa dalla prima, usciva impetuosamente fra la spuma e si rizzava superbamente verso il cielo, riprendendo la sua marcia.

Innumerevoli uccelli marini volteggiavano al di sopra di quei giganti, inseguendosi, divertendosi, poi si calavano in mezzo alle onde dalle quali uscivano stringendo nel becco qualche pesciolino o qualche crostaceo.

– Trovano cibo abbondante, – disse Andresen, il quale osservava attentamente il mare. – Navighiamo fra la zuppa delle balene.

– Da cosa lo arguisci? – chiese Stökken.

– Non vedete quelle macchie brune che spiccano sulla tinta verde cupa dell’acqua?

– Infatti le vedo.

– Quelle macchie sono formate da miriadi di granchiolini in forma di gamberetti, del diametro di due millimetri, chiamati boete dai balenieri e molto ricercati dai cetacei. Non sarei sorpreso se qualche balena emergesse improvvisamente.

– Sono vasti quei banchi di granchiolini?

– Talvolta occupano delle estensioni immense. Ne ho veduti di quelli che misuravano quindici leghe su una larghezza di una lega ed uno spessore di quattro o cinque metri.

– Sono le praterie delle balene dunque. [p. - modifica]Ghiacci nel Canale Britannico. [p. 209 modifica]

– Lo avete detto, – rispose Andresen. – Quando si trovano questi banchi, si seguono e si è certi d’incontrare, presto o tardi, qualche cetaceo.

– Non ne vedo però.

– Eppure per di qui ne è passato qualcuno.

– Come lo sai?

– Non vedete delle materie untuose, che scintillano come argento, ondeggiare fra la boete?

– È vero, Andresen.

– È la traccia lasciata da una balena. Quando quei colossi lanciano dagli sfiatatoi quelle nubi di vapore che voi sapete, assieme all’acqua vomitano pure delle materie grasse che poi rimangono a galla.

– Speriamo d’incontrare qualcuno di quei cetacei.

– Non mi sorprenderei, – rispose Andresen. – Siamo sui luoghi di pesca. –

L’indomani, il nebbione, che non si era definitivamente allontanato, tornò a invadere il mare avvolgendo pure la Stella Polare.

Quel ritorno della nebbia, da nessuno desiderato, poteva rendere difficile l’approdo alla Terra di Francesco Giuseppe.

Il Capo Flora non era lontano ed i ghiacci erano diventati numerosissimi. Piccoli banchi e gruppi di ice-bergs navigavano in tutte le direzioni, alcuni spinti dalla corrente, altri, più elevati, dal vento.

Fortunatamente, nel pomeriggio la nebbia cominciò ad alzarsi, e per qualche istante l’orizzonte apparve sgombro verso il settentrione.

Tutti i cannocchiali si erano puntati in quella direzione, con la speranza di poter scorgere la Terra sospirata, ma invece non si scorgevano che ice-bergs.

Tutti erano saliti in coperta, e alcuni marinai si erano spinti fino sulle coffe, poi più in alto, fino alle crocette, scrutando l’orizzonte.

Una viva ansietà regnava fra tutti: la terra stava là, al nord, a poche diecine di miglia, ma sarebbe stato possibile approdare? Lo avrebbero permesso quei ghiacci che diventavano sempre più numerosi quasi avessero congiurato di sbarrare il passo alla Stella Polare? [p. 210 modifica]

Alle dieci pomeridiane, nel momento in cui un vigoroso colpo di vento spazzava nuovamente la nebbia addensatasi verso il nord, un grido risuona in alto, fra i pennoni:

– Terra!... Terra!... –

Fra le brume dell’orizzonte, alla pallida luce del sole, non ancora prossimo al tramonto, si delineavano vagamente le alte vette della Terra di Francesco Giuseppe.

fine della seconda parte