La Stella Polare ed il suo viaggio avventuroso/Parte terza/5. Lotta coi ghiacci

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Capitolo V

Lotta coi ghiacci


Il lupo di mare aveva ragione. Se si voleva ritentare la corsa verso il nord non vi era da far altro che ritornare nel canale Britannico e ricominciare la lotta contro quei banchi di ghiaccio, molto meno resistenti di quelli che ingombravano le coste della Terra Alessandra.

S. A. R. quantunque fosse molto contrariato da quel ritorno, dovette arrendersi alle ragioni del vecchio baleniere.

Sfondare quelle barriere gigantesche, rinforzate dagli ice-bergs, non era possibile. La nave avrebbe corso il pericolo di farsi imprigionare fra i ghiacci e di rimanervi per tutto l’inverno e forse per qualche anno ed a questo nessuno ci teneva.

Fu quindi deciso il ritorno, con la speranza di trovare qualche passaggio attraverso i ghiacci del Canale Britannico.

La Stella Polare riprese quindi la via del sud-ovest per rimontare più tardi verso il nord attraverso alle isole del canale di Nightimgale.

Essendo il cielo nuovamente rischiarato, lasciando vedere, di tratto in tratto, qualche raggio di sole, sui banchi di ghiaccio, e presso le spiagge, si vedevano comparire numerose foche. Anzi qualcuna era apparsa perfino presso la nave, tuffandosi però così rapidamente da non lasciar tempo al Duca ed ai suoi ufficiali di prendere i fucili.

Quegli anfibi appartenevano per lo più alla specie conosciuta sotto il nome di foche dai fianchi neri o di Groenlandia. Sono lunghi [p. 248 modifica]poco più d’un metro, e hanno il pelo fitto, corto, grigio fulvo o bruno molto oscuro, coi fianchi nerissimi ed il petto bianco argenteo. Sul dorso poi hanno un disegno a foggia di ferro di cavallo molto allungato.

Le femmine, un po’ più piccole dei maschi, si distinguevano facilmente, avendo il pelame giallastro col disegno del dorso nero-azzurrognolo.

Alcune tenevano strette fra le zampe delle piccole foche quasi bianche, le quali vagivano come bambini.

– Sono appena giunte, – disse il primo macchinista al tenente Querini che lo interrogava. – Si fermeranno qua fino ai primi freddi, poi se ne torneranno al sud.

– È vero che queste foche intraprendono delle lunghe emigrazioni?

– Sì, signor tenente. Emigrano in branchi numerosissimi percorrendo centinaia e centinaia di miglia per trovare dei ricoveri convenienti.

– Sono facili a uccidersi?

– Anzi le più difficili poichè, contrariamente alle abitudini delle altre foche, non s’accostano mai alle terre, vivendo sempre sui banchi di ghiaccio. In tal modo non è possibile sorprenderle e circondarle. Gli esquimesi però ne uccidono ogni anno molte centinaia, usando delle fiocine, alle quali attaccano prima delle vesciche piene d’aria.

– Forse per impedire agli anfibi uccisi di affondare? – chiese il tenente.

– Sì signore.

– E gli esquimesi traggono molti utili da queste foche.

– Se dovessero venire a mancare, quei poveri abitanti molto probabilmente sarebbero costretti a morire di fame e di freddo. È dalle foche dai fianchi neri o kadolik, come vengono chiamate in Groenlandia, che traggono il loro principale sostentamento e molte cose ancora necessarie alla loro esistenza. La carne la divorano avidamente, l’olio estratto dal grasso lo bevono a libbre, del sangue, fatto prima bollire con acqua di mare, ne fanno delle pallottole che poi lasciano gelare, coi tendini fanno fili, colle scapole fanno spatole da remi, colla pelle vesti molto calde. Che più? Cogli intestini fanno impannate per le finestre. [p. 249 modifica]

– È almeno buona la carne?

– Puah! – fece il macchinista. – È di color bruno e sa di pesce rancido e di salvatico.

– Questi anfibi scemeranno rapidamente colle cacce accanite che fanno gli esquimesi.

– Sono ancora molto numerosi, signor tenente. E poi non è già nella Groenlandia che si fanno i grandi massacri. Bisogna andare nelle isole del mare di Behering. Là si fanno delle stragi orrende, tali anzi che il governo americano ha dovuto porvi un argine con delle leggi severe.

– Sono le foche orsine che si uccidono colà, è vero?

– Sì, signor tenente e non si trovano che su poche isole, alle Prebytoff e su quelle del Comandante. Nè più al sud, nè più al nord capita di vederne.

– È molto strano che quelle foche abbiano simili preferenze.

– E ciò ad onta che tutti gli anni i cacciatori facciano dei massacri spaventevoli.

Quelle foche, che vengono anche chiamate gatti marini, si riuniscono sulle spiagge di quelle isole verso la fine di maggio. Arrivano in branchi immensi, capitanati dai maschi e si accampano nei luoghi già precedentemente scelti da alcuni vecchi esploratori.

Da quel momento ogni rumore deve cessare sulle isole: si proibisce agli abitanti di fare fuoco anche contro i volatili e le volpi, per non spaventare gli anfibi.

Gli accampamenti sono assai curiosi a vedersi. I maschi più robusti prendono posto presso l’acqua, assieme alle loro femmine, più in alto, verso le rocce si radunano i giovani minori di tre anni, quindi più su ancora i vecchi che non hanno la forza di difendere le proprie mogli.

Fra i primi, i secondi ed i terzi vi sono delle zone neutre che tutti possono percorrere, ma guai se uno entra nell’accampamento dell’altro! Viene immediatamente assalito ed ucciso.

La legge americana votata nel 1858 ha stabilito che si rispettino le femmine ed i maschi superiori ai quattro anni.

I cacciatori quindi, giunta l’epoca delle stragi, si gettano fra le zone neutre, lasciano fuggire i maschi e le femmine del primo [p. 250 modifica]accampamento e spingono le altre foche entro terra per poi massacrarle a colpi di bastone ferrato.

– E se ne ammazzano molte? – chiese il tenente, il quale ascoltava attentamente quegli interessanti particolari.

– Delle migliaia, signore. Ancora pochi anni or sono la Compagnia dell’Alaska ne uccideva dalle settanta alle ottantamila in una sola stagione.

– Che massacri!... E non scemano?

– Sì, ma lentamente, essendo quelle foche straordinariamente prolifiche. Signore, abbiamo ancora molti ghiacci al di là del Capo Flora. Vedete?

– Sì, signor Stökken. S. A. R. si arrabbierà di certo.

– Abbiamo avuta già troppa fortuna, signor tenente.

– Non basta, signor Stökken; ne avremo dell’altra o almeno sapremo procurarcela. –

Verso il sud-ovest si vedevano numerosi banchi, mentre il giorno innanzi quelle acque erano quasi sgombre.

Quei ghiacci venivano dall’ovest, trascinati dalla grande corrente polare che rade le coste siberiane e che va a lambire le spiagge orientali della Groenlandia, risalendo poi, molto probabilmente, verso il polo.

Erano però banchi di poco spessore che non davano fastidio alla solida prora della nave.

Passando fra i canali aperti fra banco e banco, la Stella Polare poté facilmente girare l’isola Bruce, raggiungere lo stretto di Miers e quindi rimontare faticosamente il Canale Britannico.

Non ostante quelle continue lotte contro i ghiacci, la vita di bordo non subiva alcuna variazione.

S. A. R. ed il capitano Cagni facevano le loro osservazioni, rilevavano le coste, misuravano la profondità del mare, gettando di frequente degli scandagli e non dimenticavano di gettare in acqua, ogni giorno, quattro bottiglie bene turate, racchiudenti la data e la latitudine e la longitudine del punto di lancio.

La vita di bordo era stata d’altronde regolata da S. A. R. e tutti avevano le loro mansioni.

Anche le guide alpine non erano lasciate in ozio, quantunque [p. 251 modifica]non abituate a navigare. Non potendo prendere parte alla manovra, non riuscendo a distinguere un paterazzo da un semplice gherlino, avevano ricevuto ordini speciali.

Alle sei e mezzo dovevano alzarsi, alle sette occuparsi dei cani, pulire i canili e dare da mangiare alle bestie, alle nove pulizia delle cabine destinate agli ufficiali, e degli abiti di questi, poi secondo pasto dei cani, quindi libertà assoluta.

Anche i pasti erano stati regolati dal Duca. Alle otto colazione, a mezzogiorno pranzo, alle sei e mezzo cena, e sempre pasti abbondanti e variati, bene preparati dal cuoco italiano imbarcato ad Arcangelo in surrogazione del norvegese che non accomodava a nessuno. Anzi lo avevano chiamato scherzando, l’avvelenatore. Alla sera poi, a chi non toccava il quarto, era concesso di leggere, o scrivere e di giocare alla dama, ai tarocchi o al domino e le partite si seguivano fino a che i giocatori venivano sorpresi dal sonno.

Il 27 luglio la Stella Polare s’impegnava in mezzo ad immensi campi di ghiaccio, accumulatisi nel Canale Britannico.

Fin dove giungeva lo sguardo non si scorgevano altro che ammassi di ghiaccio di forme irregolari, stretti attorno ad alcuni ice-bergs fluttuanti pericolosamente.

S’aprivano, poi si rinserravano, quindi tornavano a stringersi sotto le pressioni che esercitavano degli sforzi poderosi.

Di quando in quando detonavano come se delle mine scoppiassero nel loro seno, poi dei cumuli si formavano qua e là alzandosi in forma di piramidi per poi sfasciarsi con cupi rimbombi.

A tutti sembrava impossibile di dover forzare quelle barriere, ma il Duca la pensava diversamente.

– Passeremo, – aveva detto al capitano Evensen.

– Lo tenteremo, – aveva risposto il vecchio baleniere.

E la Stella Polare s’era scagliata a tutto vapore in mezzo a quei banchi speronando furiosamente tutti gli ostacoli che incontrava.

La spedizione giocava una carta pericolosissima, perchè la nave poteva venire, da un momento all’altro, imprigionata; ma tutti avevano cieca fiducia nell’esperienza del vecchio baleniere e nella calma audacia del giovane Duca e di Cagni.

La lotta era cominciata con vero furore. La Stella Polare [p. 252 modifica]investiva i banchi poderosamente, vi balzava sopra fracassandoli col proprio peso, poi retrocedeva per riprendere lo slancio, quindi tornava ad avventarsi.

Gli urti si succedevano agli urti senza tregua. Gli alberi oscillavano e tremavano, i bagli ed i puntali scricchiolavano e la stiva rimbombava cupamente.

Non importa: avanti, avanti ancora!… Il nord è là, avanti pel nord!…

Di quando in quando sui campi di ghiaccio si vedevano apparire delle foche e dei trichechi. Non dimostravano molta paura, anzi stavano a guardare con curiosità la nave, esponendosi ai colpi di fucile che sparavano contro di loro il Duca ed i suoi ufficiali. Fu così che un magnifico tricheco ed una foca vennero uccisi e poi issati a bordo, con grande disperazione del cuoco, il buon Iginio Zini, il quale temeva di dover cucinare quei bestioni che non conosceva e che puzzavano fortemente di pesce e di olio rancido. Durante quella corsa fra i ghiacci, anche un orso bianco si lasciò accostare a tiro di fucile e fu abbattuto da una scarica ben diretta che lo fulminò sul margine d’uno streams.

Il bestione, che misurava quasi due metri e pesava circa seicento chilogrammi, fu passato nella dispensa senza che il cuoco protestasse, anzi si mise in quattro per preparare degli eccellenti piatti di carne orsina, da tutti molto gustati, specialmente dalle guide alpine.

Il 29 luglio, dopo una traversata faticosissima, la Stella Polare si trovava in mezzo a tali banchi di ghiaccio, da dubitare assai dell’avanzata. Dai diversi canali aperti fra le innumerevoli isole che fiancheggiano le terre di Zichy, i ghiacci affluivano in numero straordinario, invadendo le acque del Canale Britannico. Erano palks, floe, streams ed ice-bergs, i quali si stringevano gli uni addosso agli altri con detonazioni e urti assordanti. Si cozzavano impetuosamente fracassandosi, si sgretolavano, si rovesciavano con mille scricchiolii.

– L’affare diventa serio, – disse Stökken, il quale aveva lasciata la macchina. – Non so se riusciremo a passare. Cosa dite, capitano Evensen? –

Il vecchio baleniere che osservava i ghiacci dal castello di prora [p. 253 modifica]assieme al tenente Querini ed Andresen, fece col capo un segno di dubbio.

– Avremo da sudare.... freddo, – rispose.

– È la corrente che li trasporta? – chiese il tenente Querini.

– Sì, signore, – rispose il capitano. – Sempre da levante a ponente e forse questi ghiacci vengono dalle coste della Siberia.

– Siete proprio certo dell’esistenza di questa corrente?

– Conoscete il disastro della Jeannette, signor tenente?

– Sì, signor Evensen.

– Ebbene cosa direste se vi dicessi che dei rottami di quella nave sono stati ritrovati sulle coste orientali della Norvegia?... Eppure voi sapete che la Jeannette è andata a picco presso l’isola Bennet, di fronte all’arcipelago delle Isole della Nuova Siberia. Dopo un tale fatto come si può dubitare della direzione della corrente che viene dalla Siberia?

– Questo è vero, signor Evensen. Un tremendo naufragio quello della Jeannette.

– Una catastrofe che fa riscontro a quella dell'Erebus e del Terror comandate dall’ammiraglio Franklin.

– La conoscete nei suoi particolari?

– Sì, signor tenente, e mi ricordo dell’emozione profonda prodotta fra tutti i naviganti artici.

– Sono morti quasi tutti, è vero?

– Sì, signor tenente. La sfortuna perseguitava quei valorosi americani e divenne più tremenda quando furono costretti ad abbandonare la loro nave.

– Quanti riuscirono a raggiungere la foce della Lena?

– Le due scialuppe maggiori poterono toccare quelle spiagge desolate; la terza invece scomparve durante la tempesta che aveva colto quegli arditi esploratori dopo l’abbandono della loro nave, nè più mai nulla si seppe di coloro che la montavano.

– E quanti uomini poterono salvarsi?

– Tredici soli; gli altri venti morirono tutti, chi annegati e chi di fame nel delta della Lena e fra questi anche il comandante della Jeannette, lo sfortunato De Long, trovato morto assieme ai suoi undici compagni. [p. 254 modifica]

– E della scialuppa guidata dal tenente Chipp non s’ebbe più alcuna notizia?

– Nessuna, signor tenente, non ostante le accurate ricerche fatte dai superstiti della spedizione e dai russi.

– Un terribile disastro che può forse toccare anche a noi, – disse il tenente Querini.

– Speriamo che la fortuna ci sia propizia, signore. Vi è qualche cosa che ci protegge.

– Sì, la Stella d’Italia.

– Così si dice, – rispose il capitano Evensen, ridendo.



Note