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La Canzone del Paradiso/I. Il biroccio

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La Canzone del Paradiso II. San Giovanni


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I.
IL BIROCCIO

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I bovi per l’erbita cavedagna1
portano all’aia sul biroccio il grano.
Passa il biroccio tra le viti e li olmi,
con l’ampie brasche, pieno di covoni.
5Sotto i covoni va nascoso il carro,
muovono i bovi all’ombra delle spighe.
La messe torna donde partì seme,
da sè ritorna all’aia ed alle cerchie.
I mietitori ai lati del biroccio
10vanno accaldati, le falciole a cinta.
Sul mucchio, in cima, un bel fantino ignudo.2
Tre vecchi gravi seguono il biroccio,
i tre fratelli, un bianco, un grigio, un bruno.
Ma di lontano, dalle gialle stoppie,
15un canto viene di spigolatrici.
Sola comincia Flor d’uliva3 il canto,

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poi le altre schiave alzano un grido in coro:

Sette anni planse, oimè sett’anni sani,
e scalza andava, un vinco in ne le mani.
20Pecore e capre aveva entorno, e’ cani.
          Sette anni, oimè taupina sclava,
          sett’anni planse: un dì, cantava...
Passava un cavaleri de la crose,
sentì lassù la dolze clara vose,
25ligò ’l cavallo cum la brillia a un nose:
          «Vosina clara como argento,
          sett’anni è sì, che no te sento»...4

Son tra i pioli i ben legati fasci,
le spighe in dentro, e sovra il mucchio d’oro
30che va da sè, siede il fantino e ride.
Ride gettando i fiordalisi in aria
e le rosette: al piccolo di casa
mandano a gara, uomini e donne, un motto,
mandano a prova, verle e quaglie, un suono.
35Parlano i vecchi, i tre fratelli, insieme.5
E l’uno parla, e dice: «Arregidore,
ben Vidaliagla si può dir granaro».
E l’altro parla, e dice: «Campagnolo,
la terra è buona, ma voi meglio siete;

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40voi, meglio, e i bovi del fratel Biolco».
Tace il Biolco, ma s’allegra in cuore.
E più lontano viene dalle stoppie
il canto tristo. Flor d’uliva intuona:
seguono l’altre, ch’oggi sono ad opra:

45Ligò ’l cavallo, e se li fece avanti.
«Deh! pasturella, Deo te guardi e’ Santi.
Mangiasti bene, così gaia tu canti!»
          «Vui dite, la Deo gratia, vero:
          mangiammo, e’ cani et eo, pan nero».
50El cavaleri la mirò cum dollia.
«Ne’ to’ cavelli sempre ’l vento brollia,
lassa tra’ rizzi l’erba ’l fior la follia».
          «El vento no, non è, meo Sire:
          è che nel feno aio a dormire»...

55Fermo è il biroccio. Al bel fantino stende
le mani, e d’alto lo raccoglie in collo,
la prima nuora; e gli uomini e le donne
prendono i fasci e fanno il cavaglione.
L’Arregidore dice al Campagnolo:
60«Spighe segate e manipelli a bica
di rado o mai Santo Zuanne ha visti».
Dice il Biolco: «E seghisi la stoppia

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prima che piova, non la terra v’entri!»
E il Campagnolo: «E tosto ariamo. Arare
tre volte è bene, quattro volte è meglio».65
E dice qui l’Arregidora, e passa:
«Ben ci faranno ceci fava ervilia!»
E passa, ch’ella ha da far cena, e il giorno
è già sul calo. Ma vie più lontano
vien dalle stoppie il canto delle schiave:70

Al cavaleri ansava forte ’l pecto.
«In quil castello u albergare aspecto,
dimme s’eo posso ritrovare un lecto».
          «Di plume, eo l’ebbi, in quil castello,
          col Sire meo sì blondo e bello!»75
«Tristo a cui te fidai nel meo passare!
Dolze mea sposa, eo torno a te dal mare».
E se levava l’elmo e lo collare;
          e per le spalle a mo’ de l’onde
          scorrèn le longhe ciocche blonde»...80

Note

  1. [p. 78 modifica]Cavedagna: strada campestre; biroccio: più secondo l’etimo così, che baroccio; brasche: un telaio, per così dire, di legno, messo sul biroccio o sul carro, per renderlo più largo e capace; chiercie, non cerchie, avrei voluto dire coi toscani dell’Apennino: coreggiati per battere il grano. I bolognesi dicono: zerci. Più giù (pag. 17, v. 6) è lebe, che traduce il bol. aibi e rom. ebi, che vale abbeveratoio, e mi sembra da aggiungere a mâtra, calzêdar e simili voci lasciate sulle spiagge dell’Adriatico dai bizantini.
  2. [p. 78 modifica]Fantino o fantolino: bimbo. Ricorda la graziosa canzoncina popolare bolognese del dugento, edita dal Carducci (Cantilene e ballate, 1871) e dal Casini (Le rime dei Poeti Bolognesi del secolo XIII, 1881). Eccola in una lezione quasi al tutto fedele (cfr. Crest. It. per Ernesto Monaci, pag. 294):

    For de la bella caiba     fuge lo lusignolo.
    Plange lo fantino     però che non trova
    lu so osilino     ne la gaiba nova,
    e dise cu dolo:     chi gli avrì l’usolo?
    e dise cum dolo:     chi gli avrì l’usolo?

    E in un boschetto     se mise ad andare,
    sentì l’oseletto     sì dolze cantare.
    oi bel lusignolo,     torna nel meo broylo
    oi bel lusignolo,     torna nel meo broylo.


  3. [p. 79 modifica]Flor d’uliva. Dolce nome che latinizzato in Flos olivae, si trova in un’antica lista di nomi.
  4. [p. 79 modifica]Per questi versi e per quelli di pag. 7 e pag. 8 della canzone o romanza di Flor d’uliva, cfr. Barzaz Breiz di Hersart de la Villemarqué, pag. 146. Per il metro, ricorda la Romance di Gaiete et Oriour, che troverai nel Bartsch, Chrest. Franç., a col. 61, 62; e il confronto che, per esso metro, fa con questa, del famoso contrasto di Ciullo o Cielo, lo Jeantoy, in Les origines de la Poés. lyr. en Fr., pag. 257. Sono tre versi maggiori, rimati insieme, seguiti da due minori pure insieme rimati. Quanto alle forme dialettali ed arcaiche, vedi Gaudenzi, I suoni, le forme e le parole dell’odierno dial. di Bologna, e in esso gli Antichi testi bolognesi inediti, da pag. 127 a pag. 224. Vedi anche Casini, op. cit., Voci e passi di Dante di Ott. Mazzoni Toselli, e altri libri e documenti. Per togliere ogni offensione trascrivo qui la romanza o canzone o lay, in forma più moderna:

    IL RITORNO DEL CROCIATO

    Sette anni pianse, oimè sett’anni sani,
    e scalza andava, un vinco nelle mani.
    Pecore e capre aveva intorno, e i cani.
              Sette anni, oimè tapina schiava,
              Sett’anni pianse: un dì, cantava...
    Passava un cavaliere della croce.
    Sentì lassù la dolce chiara voce.
    Legò il cavallo con la briglia a un noce.
              «Vocina chiara come argento,
              sette anni è, sì, che non ti sento!».
    Legò il cavallo, e le si fece avanti.
    «Deh! pastorella, Dio te guardi e i Santi:
    mangiasti bene, così gaia tu canti!»
              «Voi dite, la Dio grazia, vero.
              Mangiammo i cani ed io pan nero»


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    Il cavaliere la mirò con doglia.
    «Nei tuoi capelli sempre il vento broglia:
    lascia tra i ricci l’erba, il fior, la foglia».
              «Il vento no, non è, mio sire:
              è che nel fieno ho da dormire».
    Al cavaliere ansava forte il petto.
    «In quel castello, ov’albergare aspetto,
    dimmi s’io posso ritrovare un letto».
              «Di piume, io l’ebbi, in quel castello,
              col sire mio sì biondo e bello!».
    «Tristo a cui ti fidai nel mio passare!
    Mia dolce sposa, io torno a te dal mare».
    E si toglieva l’elmo ed il collare:
              e per le spalle, a mo’ dell’onde,
              scorrean le lunghe ciocche bionde.


    Per broglia cfr, Div. Com., Par. XXVI, 97:

    Talvolta un animal coverto broglia,

    e s’interpreta: si muove, si dimena.

    Al mo’ di questa riduco anche la prima delle altre due canzoni di Flor d’uliva, sebbene, a dir vero, non ve ne sia gran bisogno:

    SANTA FILOMENA

    In una grotta in riva della Zena
    c’è un vieni e vai, ma che si sente appena...
              gràpari gràpari tra...
    Ell’è una donna che tesse che tesse,
              una spola che va che va...

    Un drago aspetta, attento, che si spicci;
    il giorno sta con gli occhi fissi ai licci...
              gràpari gràpari tra...
    Finito ch’abbia quello ch’ella tesse,
              dopo, il drago la mangerà.

    Ma, guarda e guarda, gli occhi a sera ei vela.
    Ei dorme, ed ella stesse la sua tela...
              gràpari gràpari tra...
    Il giorno fa, la notte sfa, chè tesse
              la tela dell'eternità.


    [p. 81 modifica]La leggenda è antica, di che vedi le Trad. Pop. It. II, pag. 196; ed è, come, si vede, una curiosa trasformazione del mito di Penelope. Il ritornello sembra aver un senso, e significare, in bretone, “Fa quel che fai, bene„. Vedi Villemarqué, pag. 417.

    Circa alla canzone del Re Morto, si può veder quella leggendina nel proemio del Lu Cunto delli cunti, del Basile, e della traduzione in bolognese col titolo La Ciaqlira dla banzola.

    I versi sono novenati, somiglianti a quelli del Lamento della sposa padovana (vedila in Cantilene e Ballate di Giosuè Carducci, pag. 22 e seg.), con andatura per lo più giambica:

    Rispònder vòi a dòna Frìxa
    Ke mè consèia en là soa guìsa.


  5. [p. 81 modifica]Per molti particolari campestri del contado di Bologna vedi il grazioso libretto di A. Rubbiani: Etnologia Bolognese, Bologna, 1882. Per es., l’arzdòur è il capoccio, al campagnol è colui che attende più specialmente ai lavori campestri, al biolc quello che ha cura de’ buoi e della stalla. Manipelli (bol. manvì) sono i manipoli. Per altri nomi, usi e superstizioni vedi: Trad. Pop. It., I, pagg. 71, 78, 385, 511, 898, 934. Giovi ricordare qui gli aierini (pag. 13, v. 12 e al.) o aiarên che sono gli spiriti dell’aria, gli angeli restati a mezza via tra il cielo e la terra entro la quale inabissarono i ribelli, i daimones fugati dal Cristo.