La colonia italiana in Abissinia/XI

Da Wikisource.
XI

../X ../XII IncludiIntestazione 5 novembre 2022 75% Da definire

X XII
[p. 93 modifica]

XI.


Glaudios ed un leopardo — La montagna di Zadamba — Costruzione della cinta — Ripari provvisori — Jena puzzolente — I sudori della fronte — Le prime capanne — L’abitazione per Pompeo Zucchi — Asino sbranato.



Verso sera si accese il fuoco e fu allestita la mensa. Quattro faraone, prese a caccia dal nostro Colombo, ci somministrarono un pasto eccellente. Bevemmo con più soddisfazione del solito, inquantochè ci ritenevamo alla vigilia della realizzazione dei nostri progetti; fumammo, e dopo la provvista delle legna, accesi i fuochi indispensabili alla comune sicurezza, ci sdraiammo sulle nostre brande.

Ma un certo movimento avvenuto tra le persone della comitiva, mi destò non appena chiuse le palpebre. Era Olda-Salasciè che frettoloso avea svegliato lo Spagnuolo per farsi dare un fucile. M’immaginai che trattavasi di qualche belva; perciò in meno che non si dice, ero disceso dalla branda e, preso il mio moschetto, mi trovava già vicino ad essi.

Infatti Olda-Salasciè aveva veduto un leopardo [p. 94 modifica]dietro a noi, che tentava scagliarsi sui boriki. Egli avea chiesto a Glaudios alcune capsule e se n’era sollecitamente andato con lui. Poco dopo si fece udire un colpo di moschetto, poi altri due di seguito, mentre m’incamminava sulle loro tracce. Ma la notte oscurissima m’impediva di ravvisarli; dissi però alcune parole ad alta voce, e fui inteso.

Quand’io li raggiunsi, Glaudios teneva l’animale per la coda e lo trascinava verso l’accampamento.

Giunto a portata dei nostri fuochi, ed in caso di vedervi un poco, egli prese una lancia dalle mani d’un indigeno con l’intenzione di trapassare l’animale. Io gli fermai il braccio, facendogli osservare che la fiera era già morta, ciò che sapeva anch’egli benissimo; ma tanto e tanto per farsene un merito presso i compagni, egli insisteva che non era morta e che bisognava finirla.

Chiesi allora, a bassa voce, ad Olda-Salasciè, chi fosse stato l’uccisore del leopardo, e seppi che era stato ucciso da lui medesimo col primo colpo, e che lo Spagnuolo non c’entrava affatto, se non per aver scaricato gli altri due colpi senza nemmeno colpir quel cadavere che si diede poi il vanto di trascinare per la coda fino allo steccato.

Mi volsi a Glaudios, e alla presenza dei compagni, gli chiesi se era stato lui ad uccidere la fiera; ed egli, in modo alquanto imbarazzato, affermò più col capo che con la bocca. Allora noi l’uno dopo l’altro gli ridemmo sul viso, benchè la cosa non garbasse troppo ad Olda-Salasciè, il quale non avrebbe voluto che lo Spagnuolo venisse burlato per sua cagione.

Quel leopardo aveva la lunghezza di un metro, l’altezza di 70 centimetri, colle zampe del diametro di 10. Era una femmina, tarchiata e maestosa. Quand’io [p. 95 modifica]fui sul luogo dell’uccisione, la bestia aveva emesso per due volte i sonori suoi rantoli, mentre il sangue le sgorgava dalla faccia contraffatta per una ferita riportata alla mascella destra. Al mattino seguente venne scorticata dagl’indigeni, e raccoltane la pelle, il cadavere fu abbandonato agli avoltoi, i quali, avendo fiutata la preda, gli svolazzavano intorno avidi di divorarlo, tostochè noi ci fossimo allontanati.

Caricati che ebbimo i nostri camelli, montammo sui boriki, e ci dirigemmo alla meta, ormai vicinissima alla quale arrivammo il 22 aprile 1867, dopo aver traversato un’ultima foresta e percorso una strada scabrosissima, lungo la quale c’imbattemmo in grandi massi di granito.

Il luogo della nostra fermativa era un altipiano su cui poteva dirsi poggiasse la base d’una grandissima montagna denominata Zadamba, nella regione di Sciotel, alta 5000 karen (circa 4000 piedi) sopra il livello del mare.

Al primo arrivarvi, il luogo destinato al comune soggiorno mi fece sinistra impressione a cagione della rimarcatavi sterilità del terreno; ma il signor Stella valutava assai il granito che trovavasi in abbondanza e che avrebbe servito alla costruzione di solidissime capanne. Egli più di tutto vantava la posizione strategica, ottima per poter mantenerci al sicuro dalle sorprese dei nemici.

Inoltre terreno coltivabile non ne mancava, ed era più che sufficiente ai bisogni dei presenti e dei futuri. Abituati com’eravamo a fare in tutto e per tutto la volontà del nostro Capo, ci diemmo a scaricare i camelli, ed ammucchiammo le nostre robe, costruendovi immediatamente un riparo mediante due pareti di spini, [p. 96 modifica]e coprendo il tutto con delle stuoie. Costruimmo eziandio con quest’ultime una specie di tettoia per ripararci dal sole, e ci sdraiammo sotto, mentre gli indigeni stavano raccogliendo legna in grande quantità pei fuochi notturni tanto indispensabili e benefici nelle condizioni eccezionali in cui ci trovavamo.

Più tardi andammo a caccia, e ritornammo con preda abbondante, consistente in alcune faraone ed in due gazzelle, sicchè il pasto offertoci da questi animali fu abbondante, eccellente, ristoratore.

Nei primi giorni del nostro istallamento costruimmo delle capanne provvisorie per ricoverarci la notte e nelle ore più calde del giorno; le formammo con grossi tronchi d’alberi, con frasche e spine e fronde di maniera che valessero a proteggerci efficacemente anche dalla rugiada.

Glaudios cacciava tutto il giorno, e noi, assistiti dagl’indigeni, attendevamo a costruire la cinta, la famosa muraglia che doveva proteggerci dagl’insulti dell’inimico e dagli assalti delle fiere.

Il recinto veniva innalzato con abilità e perizia, a doppia parete di spini, cementato dalla terra, i cui germogli, unitamente ai rami verdi trapiantati, dovevano, coll’aiuto delle pioggie, avvinghiarsi strettamente e solidificarsi. Infatti l’erba cresceva a vista d’occhio, ed oltre al giovare colla sua ricchezza al consolidamento della cinta, offriva anche un’estetica piacevole ed un’ombra salutare.

All’ora del pranzo ci sedevamo intorno ad una stuoia, e così pure all’ora della colazione ed a quella della cena. Di notte ci ritiravamo nelle neo-erette capanne, bastantemente sicure, le quali ci offrivano quelle [p. 97 modifica]scarse comodità che potevamo esigere relativamente alle condizioni.

Una sera, dopo avere cenato, eravamo rimasti in quattro, seduti sopra la stuoia, fumando e conversando. Era una notte placida e serena; tratto tratto, fra il ronzio degli insetti, udivasi il ruggito delle fiere affamate, che cercavano d’avvicinarsi a noi e le cui urla spaventevoli venivano ripetute dall’eco fino a distanza portentosa. La conversazione s’interrompeva di quando in quando per dar luogo a delle interne meditazioni, nelle quali ognuno di noi facilmente cadeva.

Quand’ecco, una detonazione viene a destarci; detonazione susseguita da un urlo di iena. Olda-Salasciè, che stava di guardia allo steccato, si volse a noi, esponendoci la causa di quell’incidente. Una iena appunto erasi accostata, poco meno che cinquanta passi, alla cinta, e dirigeva le sue mosse verso uno degli indigeni che si era coricato al di fuori. Prima che la fiera gli fosse addosso, il bravo Olda l’aveva ferita mortalmente.

Alla mattina appresso ne trovammo infatti il cadavere a poca distanza, il quale fu dagl’indigeni sotterrato. Essi procedevano in quell’operazione otturandosi con la sinistra le narici e la bocca a motivo del pestilenziale odore che quello mandava. Gli stessi uccelli di rapina si astengono perfino dall’avvicinarsi ai cadaveri di quegli immondi e puzzolenti animali.

In pochi giorni il recinto era in piedi, e già pensavasi a dar mano alla costruzione delle capanne, al quale scopo gl’indigeni andavano e venivano dalla più vicina foresta per provvederci del legname occorrente. Quanto abbiamo sofferto per l’eccessivo ardore, non è si facile descrivere; conviene averlo provato per poter farsene un’idea. Costretti dunque da ciò, avevamo do[p. 98 modifica]vuto limitare le ore del lavoro: vale a dire che potevamo esporci all’aperto, soltanto di buon mattino, prima che il sole si mostrasse dalla grande montagna del Zadamba e poscia ripigliare l’opera nelle tarde ore del pomeriggio.

Nelle ore più calde ognuno riducevasi sotto alcuni alberi di tamarindo, e là accudiva a varie faccende, come a rattoppare le vesti, a fabbricare masserizie ed arnesi da cucina, talvolta anche a tracciare i piani topografici del futuro paese.

Quando, coll’assistenza degli indigeni, si accumularono i materiali, ci diemmo a lavorare colla massima alacrità.

Colombo livellò un tratto di terreno per farvi sorgere un piccolo giardino, e con alcuni indigeni, lasciati a sua esclusiva disposizione, si diede a edificare una capanna di granito, la quale doveva essere la nostra rocca, la cittadella inespugnabile della colonia.

Quella capanna non contava che due stanze, ed anche queste di non grande dimensione. Il padre Stella era con me, e attendevamo a costruirci una bella capanna nel centro dello steccato. Come base dell’operazione avevamo impiantato solidamente tre grossi tronchi d’albero; a questi innestammo dei traversi; quindi altri rami obliqui dovevano servire di base alla costruzione del tetto. In mancanza di chiodi ci servivano le corteccie verdi delle gigantesche adansonie, che, come dissi più sopra, dopo che siano state ammollite nell’acqua, si restringono siffattamente, da servire allo scopo meglio di qualunque ammagliatura metallica.

Il tetto venne formato mediante un tessuto di frasche e una grande quantità di paglia bene disposta ed intrecciata, da non permettere alle più fitte pioggie [p. 99 modifica]di penetrare all’interno. Alla copertura dei lati provvedevasi con delle stuoie, e così in breve si ebbero almeno dei luoghi riparati che ci proteggevano così dai raggi cocenti del sole come dalla umidità della rugiada e dai non lievi danni delle pioggie.

Compiuta la prima delle capanne, si diede mano a fabbricarne delle altre; e già per opera mia e del sig. Stella ne sorsero in breve altre cinque, fra le quali una di maggiori dimensioni, destinata, fin d’allora, a servire di alloggio al capo della colonia, Pompeo Zucchi, che era ansiosamente atteso e che doveva giungere in compagnia della famiglia. La capanna contava quattro riparti ed era costrutta con maggiore precisione delle altre.

Un giorno, mentre attendevasi a dar l’ultima mano alla grande capanna, udimmo un forte grido di Meoid che giungeva da lontano, e la cui eco perdevasi fra le circostanti colline. Il signor Stella si armò in tutta fretta, e ci ordinò di fare altrettanto, avvegnacchè ritenesse che avremmo potuto essere assaliti da qualche nemico. In un attimo tutti furono all’ordine; le femmine degli indigeni, presi in braccio i loro figliuoli, si diressero alla montagna di Zadamba, mentre, a guardare la città rimasero i più deboli ed i vecchi, insieme al padre Stella, con una piccola guarnigione. Gli altri uscirono sollecitamente, ed io con loro.

Varcammo un tratto della foresta, dirigendoci a quella parte dalla quale c’era giunto quel grido; ma appena scesi alla pianura, e posto il piede in una valle circolare, simile ad un bel prato, ecco un enorme leone sbucare da un lato e dirigersi pian piano verso la foresta che ci stava di fronte. Ruggiva la fiera, ruggiva sì fortemente che ogni suo urlo rassomigliava più al [p. 100 modifica]romore del tuono che a quello d’un animale, per quanto forte lo si possa immaginare.

C’incontrammo per via in due dei nostri pastori, che erano andati pascolando quattro somieri e un vecchio camello acquistato a Suakin. Domandammo tosto contezza di ciò che era accaduto, e ci risposero che stavano per esser assaliti da un leone e che uno d’essi, avendogli gettato contro il proprio bastone, lo aveva costretto a indietreggiare. Però, siccome i quattro somieri avevano proseguito la via e si trovavano distanti da loro, la fiera voltossi d’un tratto e ne sbranò uno, ritirandosi poscia nella foresta ruggendo orribilmente.

La vittima era stata proprietà di Glaudios, ed era la medesima sulla quale aveva egli percorso il cammino da Suakin a Zadamba. E a quell’ora Glaudios trovavasi a caccia nei dintorni.

Seguitammo per qualche tempo le orme della fiera coll’animo di sopraggiungerla e di culpirla; ma non potemmo venirne a capo.

Nel ritorno, trascinammo il somiero sotto un’adansonia per salire su questa ed aspettarvi la notte qualche iena attirata dall’odore, e forse lo stesso leone che l’aveva sbranata. Studiando però il modo di salirvi, ci accorgemmo che non era sì facile, stante la grossezza straordinaria del tronco e le poche e lievi sue sporgenze; cosicchè, abbandonato il progetto, ritornammo al nostro posto.

Avvicinandoci allo steccato, gl’indigeni che ci accompagnavano, intuonarono dei canti giulivi per far intendere, a chi ansiosamente ci aspettava, che nulla eraci accaduto di sinistro.