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La fine di un Regno/Parte I/Capitolo XV

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Capitolo XV

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CAPITOLO XV


Sommario: Vita sociale di Palermo — Vincenzo Florio — Politica economica del governo — L'interno dell'Isola giudicato dal Meli — Il clero e sua funzione sociale e morale — Il colera del 1854 e il cadavere di don Santo Migliore — La vita dei teatri — Principali spettacoli di quegli anni — Mirate, la Lotti e la Boschetti — Ricevimenti nelle grandi famiglie — Casa Starrabba, casa Pignatelli e casa Trabia — I signori siciliani domiciliati a Napoli — Le più belle signore dell’aristocrazia — Duelli e sale di scherma — Nascita del conte di Caltagirone e don Giacomo Crescimanno — I giornali e le Riviste — Il canonico Sanfilippo e il chierico Di Marzo — Il granduca Costantino di Russia a Palermo — Suo contegno e stravaganze.


Fin dai primi tempi della luogotenenza del principe di Satriano, la città di Palermo cominciò a rivelare nella vita aristocratica una gaiezza, che non ebbe forse Napoli negli ultimi dieci anni di dominazione borbonica. La grande città tornava allo splendore dei suoi balli, dei suoi conviti, dei suoi teatri e delle sue pompe religiose. Pur non concentrando la vita economica e morale di tutta l’Isola, perchè Catania, detta l’Atene della Sicilia, e Messina, avevano vita propria con le loro Università e nobiltà e borghesia, resa ricca dai commerci, Palermo fu in ogni tempo la capitale dove affluiva la vita amministrativa dell’Isola, che per i Palermitani era semplicemente il Regno. Per essi gli abitanti delle provincie erano regnicoli, e però considerati quasi come membri di una razza inferiore e fatti oggetto di facezie, di epigrammi, di burle e anche di frodi esilaranti e imbrogli diabolici, come per i provinciali del continente si costumava dai napoletani. In quegli anni si venne affermando tutta la forza delle varie iniziative di quel grande cittadino, che fu Vincenzo Florio, benemerito della Sicilia più di qualunque Re o dinastia. [p. 300 modifica]Comparando la Sicilia all’Inghilterra, vedendo da vicino ed apprezzando tutto ciò che il popolo inglese ha di buono, di forte e di grande, e tuttociò che il popolo siciliano ha di comune con esso, nonché gl’insuperabili doni naturali, Florio ebbe il proposito di dare la ricchezza alla sua patria di adozione. Egli non era siciliano. Nato a Bagnara nel 1800, andò col padre a Palermo, per aprir bottega di droghiere, che tuttora esiste, in via dei Materassai. Morto il padre, fu aiutato da uno zio. Da giovinetto viaggiò molto e molto apprese, e lavorando senza tregua, con lo spirito aperto alle più. audaci iniziative, divenne il restauratore dell’economia siciliana. Istituendo fin dal 1846 la prima linea di navigazione a vapore, aprì la Sicilia al mondo, ma singolarmente all’America e all’Inghilterra. Istituì una fonderia di ferro, trasformò su basi razionali l’industria della tonnara, col magnifico stabilimento della Favignana, diè notorietà mondiale al vino Marsala, creandone un tipo più confacente al gusto generale, e ai prodotti principali dell’Isola fece acquistare un valore che non avevano. L’industria siciliana si affermò ad un tratto sul nome di Vincenzo Florio. Morì nel 1868, senatore del Regno d’Italia e molte volte milionario, né mai ricchezza al mondo potè dirsi di migliore acquisto della sua, come di lui scrisse lo Smiles, che gli diè un posto d’onore fra gli uomini più benemeriti del suo secolo. Il nipote ne continua l’opera e seguita ad illustrarne il nome onorato.


La vita nelle città era a un buon mercato inverosimile, e scarsi dappertutto i bisogni morali, anzi limitati alle classi più ricche. Nessuna legislazione fiscale inceppava il movimento della proprietà, e le fittanze a lunga scadenza, le enfiteusi temporanee e perpetue, le vendite, le espropriazioni e le stesse donazioni erano favorite da un sistema legislativo, che non le opprimeva, benché una gran parte delle proprietà immobiliare fosse gravata di vincoli enfiteutici. In Sicilia, più della metà del territorio, forse i due terzi, sottostà anche oggi ad enfiteusi e subenfiteusi, governate dalle antiche leggi. Allora la situazione pareva peggiore della presente per l’inalienabilità dell’immenso patrimonio delle chiese, delle corporazioni religiose e di altri corpi morali: dico pareva, perchè questa grande manomorta rispondeva a fini sociali e morali che la rivoluzione, quando divenne governo, [p. 301 modifica]distrusse senza discernimento. Garibaldi e i suoi prodittatori la rispettarono, perchè, tranne che richiamare in vigore la legge del 1848 contro i gesuiti e i liguorini, non fecero di più. Bisognava distinguere molto e procedere per gradi, ma invece si confuse tutto, si soppresse tutto, ignorandosi che la manomorta in Sicilia era diversa da tutte le altre.

Il principe di Castelcicala continuò, come aveva fatto Filangieri, ad applicare il sistema economico del governo di Napoli. Così, se nell’ottobre del 1849 Filangieri non aveva creduto pericoloso permettere l’esportazione di granoni e legumi, e nel luglio del 1853 aveva ritenuto utile vietare l’uscita dei grani, dell’avena, degli orzi e più tardi quella delle patate, Castelcicala, finito il pericolo, permetteva l’esportazione delle patate e delle paste lavorate, e se proibiva quella dei bovini e degli ovini, permetteva la libera importazione dei cavalli e degli animali destinati al macello ed esentava dal dazio d’entrata per un anno i formaggi e per tre mesi i carboni. La libera importazione degli animali da macello era necessaria, perchè nei sedici mesi di rivoluzione e di guerra se n’era fatto grande consumo. I raccolti e 1 bisogni della popolazione continuavano ad essere regolati dalla bilancia doganale. Nella misura dei dazi di esportazione vi era trattamento di favore per la Sicilia. Cosi, quando nel 1856 venne ridotto il dazio di esportazione sugli olii di oliva, il dazio sugli olii di Sicilia fu della metà inferiore a quello, che colpiva gli olii del continente. Era favorita la marina mercantile nazionale, perchè questi dazi salivano del doppio se l’esportazione si compiva con legni esteri. Grazie al Florio l’esportazione era più che triplicata. Gli zolfi, il sommacco, i vini, gli olii, le paste, gli agrumi erano i prodotti che l’Isola esportava, e il Governo, come si è veduto, ne favoriva l’esportazione, prendendo alla sua volta dai contribuenti siciliani il meno possibile. Essi si lagnavano a torto per questa parte. La Sicilia, che paga oggi 120 milioni d’imposte, ne pagava allora poco meno di ventidue, e se mancava di ferrovie e di strade, di telegrafi elettrici e di cimiteri, aveva il porto franco di Messina, l’esenzione dalla leva e dalla gabella del sale e la libera coltivazione del tabacco. Il Governo si studiava di garantire ai poveri i generi di prima necessità a buon mercato, e la sicurezza alle classi benestanti. L’apparenza del benessere vi era tutta nelle [p. 302 modifica]grandi città marittime, le quali vivevano sfruttando le risorse della parte interna dell’Isola, la quale se non era nelle condizioni di cinquantanni prima, descritte dal Meli, di poco ne differiva. "Il primo aspetto della maggior parte dei paesi e dei casali del nostro Regno — scriveva il Meli — annunzia la fame e la miseria. Non vi si trova da comprare né carne, né caci, né tampoco del pane, perchè tolto qualche benestante, che panizza in sua casa per uso proprio, tutto il dippiù dei villani e dei bifolchi si nutrono d’erbe e di legumi, e nell’autunno, di alcuni frutti spesso selvatici e di fichi d’India .... Non s’incontrano che facce squallide sopra corpi macilenti, coperti di lane cenciose. Negli occhi e nelle gote dei giovani e delle zitelle, invece di brillarvi il natural fuoco d’amore, vi alberga la mestizia, e si vedono smunte, arsicce, deformi sospirare per un pezzetto di pane, ch’essi apprezzano per il massimo dei beni della loro vita„ .1

Il quadro è triste, e se dal tempo in cui scriveva il Meli, qualche cosa si era fatta, purtroppo nel complesso le condizioni erano rimaste le medesime, soprattutto nella regione del latifondo e delle miniere. Lo scritto del Meli è pieno di buon senso e di verità. Egli sembra un buon socialista dei nostri tempi: sposa coraggiosamente la causa dei lavoratori della terra contro "quell’immenso stuolo di parassiti, di cui abbondano le città e specialmente la capitale e che, a guisa di mignatte, succhiano e si nutrono del sangue e dei sudori degli uomini onesti, utili e industriosi„. Spiega e deplora il crescente spopolamento delle campagne e il continuo aumento degli accattoni nella città; e perchè medico e poeta, riproduce nel manoscritto un’ottava dei suoi versi, bellissima d’impeto lirico e sociale:

Vui autri picurare e viddaneddi,
Chi stati notti e jornu sutta un vausu
zappannu, o guardannu picureddi
Cu l’anca nuda, e cu lu pedi scausu,
Siti la basi di cità e casteddi,
Siti lu tuttu, ma ’un n’aviti lausu;
L’ingrata società scorcia e maltratta
Ddu pettu, chi la nutrì, ed unni addatta.

[p. 303 modifica]Non si era divenuti più umani, con la povera gente delle campagne, che nelle apparenze. Se non si vedeva più. lo spettacolo, contro il quale insorgeva lo stesso Meli, di buttare addosso ai campagnoli pietre, torsi e sporcizie e di metterli in dileggio nelle commedie dialettali, non si era più giusti con essi. I signori vivevano lontani dai loro fondi sterminati, dei quali forse ignoravano il confine, né vi andavano per difetto di strade principalmente, così come oggi non ci vanno per difetto di sicurezza, e ignoravano veramente le condizioni dei lavoratori di campagna, affidati alla mercè dei così detti "gabelloti„.

Il popolo siciliano è uno dei più rassegnati della terra. La dominazione musulmana vi lasciò una larga, anzi doviziosa eredità di fede incrollabile in una forza superiore, da cui tutto dipende. È qualità di razza e però non muta, e solo lentamente potrebbe modificarsi. Cosi si spiega come nella terra più ferace del mondo, vi erano allora ed esistono anche oggi pregiudizii ed esempii di miseria materiale e morale, che non sembrano credibili, e a pochissima distanza, quasi l’una accanto all’altra, l’estrema civiltà e l’estrema barbarie; e come, infine, negli anni che son corsi dal 1860 ad oggi, la classe più pervertita è sempre quella contro la quale alzava la voce il Meli: la classe dei paglietti, dei fiscali e dei parassiti, precisamente di quelli che formano oggi la così detta clientela elettorale, da cui emana il potere. Allora la rassegnazione aveva due elementi maggiori a suo vantaggio: uno materiale, la Chiesa con le corporazioni religiose che esercitavano un’azione economica moderatrice; ed uno morale e politico, che vi era cioè un nemico comune, autore di tutti questi mali e di tutte queste miserie: un nemico forestiero, contro il quale, un giorno o l’altro, sarebbero tutti insorti e il nemico era il Re e col Re, i napoletani. Questo sentimento, diffuso nelle campagne non senza malizia dai proprietari stessi e dai loro fattori, teneva sempre vivo il malcontento contro le autorità, non lo rivolgeva mai contro i padroni, reputati vittime anche loro; e rendeva facile la formazione delle squadre, quando v’era da menar le mani contro il governo. Il latifondo, in ispecie, mutava i miseri contadini in insorti, o li raccoglieva e nascondeva, divenuti malandrini.

Ho accennato alla funzione sociale ed economica che esercitava il clero, ricchissimo. La terza parte del patrimonio dell’Isola [p. 304 modifica]era manomorta ecclesiastica, la quale rappresentava un’altra Provvidenza, che sovveniva con le sue larghe entrate tanti infelici, reintegrando così alcuni bisogni sociali, ed era meno esigente nei suoi feudi coi proprii salariati e dipendenti. Sulla Sicilia non era passata la pialla livellatrice della rivoluzione francese. Ricchissime le diocesi di Palermo, di Catania, di Cefalù, di Mazzara, di Messina e di Girgenti. I gesuiti e i liguorini, soppressi nel 1848 dalla rivoluzione, tornarono nel 1850 e riebbero patrimonio, privilegi e istituti d’insegnamento, missioni, congregazioni e noviziati: in tutto, quattordici case e, fra i collegi, quello dei Nobili in Palermo, ma i gesuiti erano malveduti dal clero indigeno e malveduti i liguorini, perchè ad essi devoti. L’Ordine religioso, veramente straricco, era quello dei benedettini, di cui si è parlato innanzi, con le case di Palermo, di Monreale e di Catania. Il clero secolare numeroso e ricco anch’esso; ma, in Sicilia, come nel Napoletano, il sacerdozio rappresentava uno stato di passaggio fra il ceto campagnolo e la borghesia. Dei due sacerdozii, il regolare valeva più del secolare, per cultura e moralità, ma l’uno e l’altro valevano forse poco, pure non dimenticando che nell’uno e nell’altro erano filosofi, come il D’Acquisto riformato, il Romano gesuita; letterati come il Pardi paolotto, il Previti gesuita, il Galeotti e il Villareale scolopii, il Vaglica prete; orientalisti come l’Ugdulena prete; eruditi quali il sommo Alessio Narbone gesuita, e il Ferrara gesuita anche lui, e il Casano, il Di Chiara e il Cultrera; e poiché le leggi e la distanza li sottraevano quasi interamente da Roma, e non avevano altra dipendenza che dai rispettivi vescovi e dal tribunale della Monarchia, i vincoli della disciplina erano piuttosto fiacchi. Il clero siciliano ritraeva le qualità e possedeva i pregiudizi tutti delle classi, da cui emanava e alle quali rimaneva affratellato. Nutriva lo stesso senso d’orgoglio e sentiva lo stesso aborrimento per i Napoletani, e l’affermazione che la Sicilia era considerata da Napoli come l’Irlanda dall’Inghilterra, era comune anche agli ecclesiastici. L’alto clero non avea perdonato ai Borboni l’abolizione della Costituzione del 1812, che gli dava il diritto di sedere nella Camera dei Pari, in numero di 65 membri, fra arcivescovi, vescovi, archimandriti, gran priori, priori e abati. Il sentimento d’indipendenza era dunque vivacissimo nel clero, anche perchè in quello regolare, soprattutto nei filippini e benedettini, le più. [p. 305 modifica]nobili famiglie dell’Isola vi erano rappresentate, e ricorderò i due Lanza di Trabia, padre Ottavio e padre Salvatore, tra i primi; il padre Castelli di Torremuzza, il padre Benedetto Gravina e il padre Lancia di Brolo, oggi arcivescovo di Monreale, fra i secondi. La rivoluzione non poteva che trovar favore in esso: favore, non aiuti compromettenti, perchè il prete siciliano è un dialettico, discute e riflette molto prima di risolversi, rifugge dalle risoluzioni rischiose e parla il meno che può. Giudice della Monarchia era monsignor don Diego Pianeta, siciliano, arcivescovo di Palermo monsignor Naselli, di famiglia siciliana, benchè nato a Napoli, e siciliani quasi tutti gli altri arcivescovi e vescovi dell’Isola, tranne il vescovo di Catania, Regano, nativo di Andria; monsignor Salomone, vescovo di Mazzara, nato in Avellino, e monsignor Attanasio, vescovo di Lipari, nato a Lucera. I primi due erano molto amati per la pietà e la dottrina. Un solo cardinale, l’arcivescovo di Messina, Villadicani. Un vescovo aveva autorità vera, perchè le diocesi essendo sole quattordici, in media due per provincia, erano vaste di territorio e i seminari, pochi anch’essi e nell’insieme discreti, anzi, quelli di Palermo e Monreale avevano una storia illustre.

Tutto ciò contribuiva a mantenere un certo equilibrio sociale, per cui ciascuno era al suo posto, e in luogo delle corrotte e piccole tirannie che pullularono nei tempi della libertà, era la grande tirannia coi suoi sfarzi e le sue apparenze non volgari, le quali nascondevano magagne d’altro genere. Chi visitava la Sicilia, limitandosi a vedere Palermo, Messina e Catania, Taormina, Siracusa e l’Etna, ne riportava un’impressione indimenticabile, cosi come la riportava da Napoli, percorrendola nelle sue strade principali ed osservandola dal mare, o visitandone i dintorni. I signori non erano odiati, anzi il rispetto per essi aveva qualche cosa di molto caratteristico, e il clero era davvero amato dalla povera gente; e nobili, borghesi, clero e povera gente tutti affratellati, come ho detto, contro il comune nemico, il governo di Napoli, ritenuto autore persino del colera, che nel 1854 e 1855 fece grandi vittime a Palermo e a Messina, sebbene inferiori di molto a quelle del 1837, quando morirono nella sola Palermo 40 000 persone. Nel 1854 i morti furono 6000, e se non si rinnovarono le scene barbariche del 1837, fu perchè le autorità fecero il loro dovere. Maniscalco si recava egli [p. 306 modifica]stesso a portar soccorsi, vigilando con energia e umanità il servizio sanitario. Ma non mancò qualche incidente bizzarro, che rivela come il contagio fosse ritenuto opera di umana malvagità. Fu tra i morti don Santi Migliore, che era stato direttore di polizia prima del 1848 e poi, per poco tempo, intendente di Palermo. Abitava al palazzo Orléans. Egli era nativo di Borgetto, paesello presso Partinico, e i suoi concittadini l’avevano in gran conto. Come seppero ch’era morto, corsero a Palermo in gran numero, convinti che il Migliore era stato avvelenato, per rapirne il cadavere nella notte e portarlo a Borgetto, dove, secondo loro, avrebbe avuta più degna sepoltura che non nell’ospedale dei colerosi. E così fecero. La commissione sanitaria della sezione Greto, composta dai dottori Lodi, Meleti, Macaluso e Lamanna, riferì la cosa al senatore della sezione don Antonino Benso e il luogotenente ordinò che la salma fosse riportata a Palermo ad ogni costo. Maniscalco eseguì l’ordine con una rapidità, che il fatto strano si venne a sapere dopo che il Migliore era stato sepolto ai Rotoli.


Il 26 dicembre, festa di Santo Stefano, si apriva il maggiore teatro, che era il Carolino, oggi Bellini, sempre con compagnie di prim’ordine e ballerine di cartello e relativo strascico di critiche teatrali, polemiche e duelli. Ma di teatri Palermo difettava veramente. Oltre al Bellini, non ampio, a cinque ordini di palchi, grazioso ed elegante, ma senza vestibolo e dove si andava in gran lusso, vi era il teatro di Santa Cecilia, che serviva per la prosa nell’inverno e nell’estate per le operette, allargato e abbellito dal bravo architetto Giachery. Solo nei nuovi tempi Palermo potè veder esaudito il suo desiderio, quello di avere un grande teatro: il Politeama e più tardi il Massimo, il quale se fu una follia economica e costò la demolizione di un grande monastero, che si sarebbe potuto mettere a profitto come uno dei tanti edifici scolastici o di servizi pubblici, dei quali la città ha tanto bisogno; se fece sparire la chiesa delle Stimmate, ov’erano stupendi stucchi del Serpotta, la chiesetta di Santa Marta e tutto il monastero con la sua caratteristica e proverbiale cupola di San Giuliano e la chiesa di Sant’Agata li Scorruggi, opera del Quattrocento, conta oggi fra i più ampli e belli di Europa e forse del mondo. Venne costruito per [p. 307 modifica]l’ostinazione di quel forte e sventurato cittadino, Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, sindaco della città.

La vita dei teatri e dei clubs era di certo la più mossa. Nella stagione di carnevale del 1854 si rappresentò al Carolino, con esito brillante, la Saracena del maestro siciliano Andrea Butera, rappresentata poco tempo prima alla Cannobbiana di Milano, con esito egualmente felice. Questo maestro, del quale si è perduta la memoria, aveva scritta un’altra opera, l’Atala. La stagione teatrale del 1855 fu magnifica. Cantarono al Carolino, con ottimo successo, Carlotta Carrozzi nei Foscari e nel Birraio di Preston, e Marcellina Lotti nel Trovatore, nel Rigoletto e nella nuova opera del giovane maestro Geraci, l'Ettore Fieramosca. La Lotti fece andare in visibilio il pubblico palermitano, il quale nella stagione intera le prodigò fiori, applausi e inni nei giornali. La sua beneficiata ebbe luogo la sera del 14 febbraio di quell’anno e fu un avvenimento. Gli articoli dei giornali palermitani sembrerebbero iperbolici, se tutti quelli della mia generazione non ricordassero il valore di questa maravigliosa cantatrice, che più tardi creò la parte di Amelia nel Ballo in Maschera, e concorse ad assicurare alle opere maggiori di Giuseppe Verdi un successo mondiale. La Zanzara, a proposito della beneficiata della Lotti, scriveva così: ". . . . Per la Lotti, però è stato ben altrimenti: v’erano le poesie, i fiori; vi erano i nastri, ma al disopra degli uni e degli altri, v’era l’emozione e il fremito continuato e perenne di un pubblico intero, che, magnetizzato dalla voce e dal talento della incomparabile artista, si attaccava alle sue sublimi ispirazioni e batteva le mani, e gridava ed urlava, come fa chi non ha ricevuto altro mandato che quello del suo cuore e delle sue ispirazioni„. L’orchestra le offri una corona d’alloro con un superbo nastro, sul quale erano impressi i nomi dei professori. Fu una serata indimenticabile. Ebbe per compagni, veramente degni di lei, il Graziani, uno dei grandi tenori dei suoi tempi, il Fiori e la signora Orlandi.

Nel gennaio del 1857 andò in iscena allo stesso teatro il Roberto di Devereux, con la Sardesi, la Briol, Mirate e Pizzigati. Tranne Mirate, il quale, a dire del cronista del Tutto per tutti, "strappò quegli applausi pieni e sinceri, nei quali la mano si muove, perchè il core si è mosso, e le ha detto: muoviti e batti», gli [p. 308 modifica]altri cantanti fecero naufragare la bella musica del Donizetti. E così nel nuovo ballo, La ninfa Cloe, si salvò la sola prima ballerina Ernestina Wuthier, la quale "a furia di grazia e di maestria, spiegata costantemente nei più piccoli passi e nelle più piccole movenze, ispirò al pubblico (e sempre lo stesso cronista) tale simpatia, che l’apparizione di lei e gli applausi più entusiastici divennero una cosa sola„. E trascinato da un’iperbole tutta meridionale, il cronista, che poi era il direttore del giornale, il galante Stefanino de Maria, scriveva: "ella è stata la colonna, che si è posata sulle acque di quel mare in tempesta, l’arcobaleno, che ha rischiarato quel cielo burrascoso, colei infine che è stata e sarà sempre segno all’entusiasmo del pubblico intero, colei, che si farebbe sin anco applaudire da uno degli automi del teatro meccanico„ . Un vero entusiasmo aveva destato l’anno innanzi la Boschetti nel ballo Beatrice di Gand del coreografo David Costa, e nell’altro, la Silfide. Un giornale la chiamò danzatrice acrobatica; vi furono polemiche, e per poco non scesero sul terreno entusiasti e critici della signora Amina.


Le maggiori famiglie palermitane ricevevano con la tradizionale grandiosità. In casa Riso era un succedersi di pranzi e di balli, e per la novena di Natale del 1859 vi si ballò per nove sere con brio inenarrabile. In quei giorni tutte le case patrizie, per antica tradizione, si aprivano a sfarzosi ricevimenti. Dicembre era il mese più allegro dell’anno, perchè cominciava con le feste e la processione dell’Immacolata, protettrice di Palermo, e dove la credenza nella verginità di Maria aveva preceduto, per sentimento di popolo, la definizione del dogma, tanto che nel secolo XVII il Senato della città aveva fatto il così detto giuramento del sangue, cioè di voler sostenere fino al sangue la verginità di Maria, e si compiva nella notte di Capodanno, con balli nelle case patrizie e nella Reggia, e balletti e giuochi nelle famiglie della borghesia.

Si riceveva in casa Rudinì il lunedi, nel palazzo ai Quattro Canti, allora di proprietà della famiglia. Don Franco Starrabba aveva sposata una delle figliuole del principe di Cassare ed era Sopraintendente dei teatri e spettacoli: semplice uomo ed alieno da politica e da studii, borbonico convinto, ma senza ardore, [p. 309 modifica]era andato o piuttosto l’avevano mandato a Caltanisetta i suoi congiunti Statella, a portare le chiavi della città di Palermo al generale Filangieri; ma quando Vittorio Emanuele andò a Palermo per la prima volta nel 1860, fu lui, il quale, avendo conservato l’ufficio di sopraintendente dei teatri, lo ricevette al Carolino.

In casa Monteleone si giocava molto, perchè la duchessa. Donna Bianca nata Lucchesi Palli, era giocatrice appassionata. Questa casa rappresentò la maggior fortuna dell’Isola fino al principio del secolo, quando pel matrimonio di Stefania Branciforti, principessa di Butera e ultima della sua casa, con Giuseppe Lanza principe di Trabia, i due casati divennero un solo, e i due cospicui patrimonii un solo immenso patrimonio. Casa Pignatelli aveva una rendita superiore ai duecentomila ducati, tenuto anche conto dei beni di Calabria e del Messico; e il vecchio duca, noto per la sua bontà, forse non priva di qualche stravaganza, fu Pari nel 1848, votò la decadenza dei Borboni e sottoscrisse poi la revoca di quell’atto con tutto l’alto patriziato, ma senza dichiarazioni vergnose, come fecero altri. A dar brio ai ricevimenti di casa Monteleone contribuivano le cinque figliuole del duca, una delle quali, che divenne poi marchesa Airoldi, contava fra le maggiori bellezze. Dei figliuoli, il primogenito Diego viveva ordinariamente a Napoli e Antonio a Palermo. Erano due tipi assai diversi, anche fisicamente, ma si volevano un gran bene. Diego, il quale non ebbe figliuoli ed assunse alla morte del padre il titolo di duca di Monteleone, era uomo tutto pace e aborriva da impicci di ogni genere. Morì senatore del Regno d’Italia nel 1880. Antonio, invece, irrequieto, vivacissimo, un po’ anche prepotente e noncurante di pericoli, ebbe dei duelli e fu uno dei pochi liberali del patriziato e forse il più audace. Messo in prigione per i fatti del 4 aprile, corse rischio di essere fucilato coi compagni, come appresso si dirà; eletto deputato di Terranova nel 1874, mori a 63 anni nel 1881. Antonio fu padre di Peppino, presente duca e deputato di Terranova.

In casa San Cataldo davano rappresentazioni i filodrammatici, e benché il principe fosse in fama di liberale, egli invitava il luogotenente, i direttori e tutto il mondo ufficiale, non escluso il Maniscalco, cotìae facevano tutti gli altri. Sontuosi i balli in casa Montevago, Tasca, Niscemi e Manganelli. [p. 310 modifica]Casa Trabia fu chiusa in quegli anni ad ogni festa o conviti. Il vecchio principe era inconsolabile per la lontananza del primo figliuolo, il principe di Scordia e Butera, che era stato ministro durante la rivoluzione, e poi uno dei 43 esclusi dall’amnistia. Il vecchio principe morì nel 1855, senza il conforto di rivederlo, perchè il governo di Napoli non permise che l’esule tornasse. Il principe di Butera sopravvisse al padre di pochi mesi soltanto, essendo morto a Parigi nel giugno dello stesso anno, come si dirà più innanzi. E della borghesia vanno ricordate le riunioni in casa Amari e Ondes, e quelle tanto interessanti in casa Bracco, dove intervenivano Corrado Lancia di Brolo e Andrea Guarnieri, oggi senatori; Domenico Peranni, che poi fu benemerito sindaco di Palermo, e quel Benedetto Travali, che divenne segretario generale della segreteria di Stato della Dittatura e poi direttore del Tesoro. Casa Bracco fu centro di cultura e di liberalismo in quegli anni. La padrona di casa era sorella di Emerico Amari. Del circolo dei Cavalieri o casino dei nobili, annesso al teatro Carolino, facevano parte nobili di antico lignaggio e perciò difficili vi erano le ammissioni. Vi si ballava più volte nell’anno, ed erano forse i balli più sontuosi, ma la vita del club si affermava piuttosto di giorno. Si preferiva passar la sera con le signore, reputandosi molto chic, finito il teatro, correre nelle case dove si riceveva e rimanervi fino ad ora tarda. Palermo, più di Napoli, era ed è anche oggi una città dove si vive molto la notte.

Una parte del patriziato dimorava a Napoli e ricorderò, tra gli altri, il vecchio principe di Cassaro, Antonio Statella, don Vincenzo Ruffo, principe della Scaletta, capitano delle guardie del Corpo e brigadiere effettivo nell’esercito, il principe di Aci, maggiordomo e il giovane marchese della Sambuca, il quale, seguendo a Napoli suo padre, il principe di Camporeale, cavallerizzo maggiore, vi sposò la bellissima Laura Acton nel 1847. Il vecchio principe di Cassaro, unico suddito del Re delle Due Sicilie insignito del collare dell’Annunziata, per aver condotto a termine da ministro le trattative di matrimonio tra Ferdinando II e Maria Cristina di Savoia, era uomo di assai mediocre levatura, ma retto. Borbonico convinto, tutto d’un pezzo e senza paura, fu l’ultimo primo ministro di Francesco II, Re assoluto, ultimo ministro di Sicilia a Napoli e capo di quella numerosa famiglia [p. 311 modifica]degli Statella, la più beneficata e protetta dai Borboni. Era tanta la penuria degli uomini di Stato, che il principe di Cassaro per la Sicilia e Ferdinando Troja per Napoli passavano per tali.


Le più belle ed eleganti signore dell’alto patriziato erano la marchesa Airoldi, nata Monteleone; la baronessa di Colobria, Riso, nata Du Hallay-Coetquene, figlia del conto Du Hallay famoso per i suoi duelli, ma emergeva su tutte la Stefanina Starrabba di Rudinì, oggi vedova principessa di Paternò, bellezza rara a giudizio di tutti, e colla quale rivaleggiava soltanto l’Eleonora Trigona di Sant’Elia, divenuta poi principessa di Giardinelli e detta la bellezza bionda, così come la Stefanina era detta la bellezza bruna. Brillavano inoltre la Mariannina Lanza Mirto, ora principessa Papè di Valdina, e la Lauretta Pignatelli di Monteleone, per breve tempo duchessa di Cumia. Quest’ultima e la marchesa Ugo non sono più. La duchessa di Cumia morì a diciannove anni nel marzo del 1852, e la sua morte fu davvero pietosa. Alcune di queste signorine erano state alunne dell’istituto Scalia, dove avevano avuto per professore d’italiano il vecchio barone Pisani, il quale, dopo i casi del 1848, si era dato all’insegnamento.

C’era la mania dei duelli, e benché il codice li punisse severamente, la pena era resa vana dal costume. Non si faceva degno ingresso nel mondo senza essersi battuti almeno una volta. Indole ombrosa e orgogliosa il siciliano, un qualunque motivo anche frivolo, un gesto male interpretato, una parola equivoca, era motivo o pretesto per scendere sul terreno. Dopo un gran ballo dato dal principe di Sant’Antimo, nel suo palazzo in via Toledo, ci fu al guardaroba lo scambio di qualche parola fra il conte di San Marco e Francesco Fazio, direttore della Zanzara e usciere di Palazzo, regiae aulae porterius, che equivaleva a introduttore degli ambasciatori. Causa del duello fu la mantiglia della Stefanina di Rudinì, facendo a gara i due cavalieri a chi dovesse ritirarla prima! Il dì seguente ebbe luogo 1o scontro e il Fazio fu ferito gravemente. Il principe di Paternò contava parecchi duelli, e suo figlio, il conte di Caltanisetta, che aveva natura mite e detestava gli accattabrighe, ne ebbe uno con Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, di cui era amicissimo, per futili motivi. Si battevano nobili e borghesi, e le polemiche letterarie ne erano [p. 312 modifica]soventi l’occasione; ma talvolta la cagione vera era un’antipatia momentanea e allora bisognava trovare subito il pretesto per scambiarsi delle sciabolate.

Il duello era in società il tema del quale forse più si parlava, dopo i teatri, Stefano de Maria, morto prefetto di Lucca, famoso per le sue avventure d’amore e i cosmetici dei quali faceva largo uso, si battè con un ufficiale dei cacciatori e poi con Aristide Calani. Martino Beltrami Scalia, insegnante di geografia, d’italiano e di francese e oggi senatore del Regno, si battette per frivoli motivi con Pietro Thonckowich e rimasero feriti entrambi. La nota comica di questo duello fu che ebbe luogo nella villa reale della Favorita, poiché la polizia aveva reso impossibile ogni altro posto. Negli ultimi tempi che precorsero al 1860, Pietro Ilardi si battette col barone Gaetano Mazzeo e il marchese di Fiume di Nisi, morto duca di Cesarò e deputato al Parlamento italiano, col principe di Giardinelli. Francesco Brancaccio di Carpino, che aveva autorità in questioni di cavalleria, fu padrino negli ultimi tre scontri. Le sale di scherma non erano pubbliche, ma alcuni signori, come Antonio Pignatelli, Pietro Ugo delle Favare, Emanuele e Giuseppe Notarbartolo e i giovani Sant’Elia, dei quali era primogenito l’elegantissimo duca di Gela, oggi senatore del Regno e principe di Sant’Elia, invitavano per turno a casa loro gli amici a esercitarsi. Non vi era giovane signore, o giovane della ricca borghesia, che non sapesse tirare di sciabola o di fioretto; la scherma compiva l’educazione e perciò le partite di onore si succedevano con frequenza. I maestri di scherma più in voga erano Francesco Pinto, Claudio Inguaggiato, Giambattista Velia, Raffaele Basile. Un tal Neli, detto 'u quarararu, tirava benissimo con la mano sinistra e molti signori si misurarono con lui. Fu curiosa nel 1867 una polemica schermistica fra l’Inguaggiato e Blasco Florio, maestro di scherma a Catania. Si affermò che l’opuscolo dell’Inguaggiato in questa polemica fosse stato scritto da Corrado Lancia di Brolo, il quale aveva lasciato il servizio militare dopo la restaurazione e si era dato agli studii legali e meccanici, e visse a Palermo senza ricevere mai molestie. Sovente faceva un viaggio all’estero o andava a Roma dov’era suo zio, il cardinal Grassellini. Un opuscolo di notevole valore scientifico, da lui pubblicato nel 1856, a proposito di una macchina idraulica inventata dal sacerdote [p. 313 modifica]don Giuseppe Vaglica, gli procurò la nomina di socio dell’Istituto d’incoraggiamento.


Una parte notevole del giornalismo siciliano era rappresentata da Riviste, dirette a promuovere lo sviluppo industriale e particolarmente agricolo dell’Isola. Ricordo gli Annali d’agricoltura siciliana, redatti dal professore Giuseppe Inzenga; il Giornale della Commissione d’agricoltura e pastorizia, della quale era presidente Filippo Majorana e il Giornale del R. Istituto d’incoraggiamento di agricoltura, arti e manifatture per la Sicilia: pubblicazione che il Governo sussidiava in vario modo. Nel 1860, Giuseppe Biundi, impiegato al ministero d’istruzione, fondò l’Empedocle, una vera Rivista, di cui ogni fascicolo conteneva monografie originali, rubriche di varietà e rassegne bibliografiche fatte assai bene. I libri di Placido De Luca, di Gioacchino di Marzo, di Longo Signorelli, di Gaetano Vanneschi, del barone Anca e di altri scrittori ebbero nell’Empedocle ampie recensioni e autorevoli giudizi. Nonostante l’indirizzo piuttosto teorico per la necessità, dei tempi, la rivista mirava anche ad effetti pratici e utili alla Sicilia. Trattò della coltura delle canne da zucchero, rilevando che non c’era convenienza ad estenderla in Sicilia; ammaestrò circa la coltura della vite e dell’ulivo e sul modo più adatto e sollecito di rimboschire l’Isola; patrocinò l’istituzione d’una banca territoriale nell’interesse dell’agricoltura e trattò pure della pubblica beneficenza, con notevoli studii del Biundi stesso sui Monti di pietà, e sui rapporti fra la popolazione dell’Isola e le sue condizioni economiche. L’Empedocle finì nel 1860 e il Biundi passò impiegato al ministero d’istruzione del Regno d’Italia. Quella sua Rivista, dati i tempi, fu un primo tentativo che gli costò dieci anni di lavoro e non pochi sacrifìcii; ma nessuno ha pensato finora a fondarne una sul genere di quella, la quale, se pubblicava articoli che duravano anni, e se alcuni di questi erano scritti per non farsi leggere, l’Empedocle rivelava nell’insieme che le condizioni della cultura nell’Isola erano assai più alte di quanto non rivelassero i giornaletti letterarii.

Va certamente ricordato e con la maggior lode, il Giornale di Statistica, compilato nella direzione centrale della Statistica di Sicilia, della quale era capo il barone D’Antalbo. Esso [p. 314 modifica]pubblicava interessantissimi studi di statistica comparata, scritti dallo stesso direttore, e principalmente dal Ferrara e dal Busacca, esuli entrambi, e più da Gaetano Vanneschi, uomo eccellente per virtù, d’intelletto e di animo e autore di Alcuni elementi di statistica che videro la luce nel 1851. Io devo rendere alla memoria di lui, che fu dopo il 1860 presidente del Collegio di musica, un tributo di riconoscenza, perchè nel Mondo Culto scrisse con grande affetto di mio padre, Antonio de Cesare, che gli era amico e morì a Napoli nel gennaio del 1860 a 37 anni.

Altri tentativi di fondare una seconda Rassegna furono fatti, ma senza fortuna. Nacque nel 1865 una Rivista scientifica, letteraria, artistica, fondata dal Ventimiglia. Visse un anno e le successe il Poligrafo, anch’esso Rivista di scienze, lettere ed arti, ma durò due anni e cedette il posto nel 1857 alla Favilla. Giova però osservare che questi periodici raccoglievano, intorno a loro, gruppi di scrittori non omogenei e di tendenze politiche ben diverse. Il Poligrafo, perchè fondato dal Ventimiglia, non poteva partecipare ai sentimenti che più tardi trasparirono dal gruppo dei collaboratori della Favilla, che avevano tendenze liberali, spesso mal celate. Pare che al Ventimiglia fossero stati promessi aiuti dal Governo e poi mancassero. Il Ventimiglia era irrequieto e perciò non poteva la sua attività esaurirsi nel Giornale di Sicilia, la cui ufficialità non gli permetteva nessuna delle esercitazioni letterarie, alle quali si abbandonavano i giornaletti d’occasione, mezzo umoristici e molto rumorosi, come il Rigoletto, che nacque e morì nel 1856; la Zanzara di Francesco Fazio; il Somaro, giornale pei dotti, come s’intitolava; il Baretti di Giovanni Villanti, l’Armonia, il Vapore e il Passatempo per le dame: piccoli fogli, i quali a leggerli ora non s’intendono più, tanto è mutato l’ambiente in cui vissero e in cui parvero persino spiritosi: giornaletti che resistevano qualche mese o qualche anno, e poi finivano o mutavano nome, come a Napoli, tale e quale. Qualche volta le riviste dei teatri erano spiritose, ma più sovente, diluite e insipide. Il Tutto per tutti, il Mondo Unico, seguito dal Mondo Culto, poi la Ricerca, la Lira e la Gazzetta di Palermo avevano miglior forma di giornale; il Tutto per tutti giunse a sei numeri; il Mondo Unico ad otto; la Ricerca, che si diceva giornale di utili scoverte e di letterarie conoscenze, visse dal 1855 al 1858; due anni visse la Lira e tre anni la Gazzetta di Palermo, il Giornale del commercio e il [p. 315 modifica]Vapore. Rileggendo quei fogli, i quali erano settimanali, quindicinali mensili, si prova davvero un senso di stupore anche per gli abbonamenti, non solo alti, ma sproporzionati al formato stranamente minuscolo. Solo la Favilla rappresentò, in fatto di giornali letterari, il tentativo meglio riuscito. Fu messo insieme da un nucleo di giovani di valore. Ricorderò Achille Basile, morto prefetto di Venezia e senatore, Carmelo Pardi, Luigi Sampolo, Giuseppe Lodi, Giuseppe Sensales, impiegato al ministero dell’interno. Vi collaborarono Isidoro La Lumia, Gaetano Daita, Luigi de Brun, Onofrio di Benedetto e Cammillo Randazzo. La cronaca, non esisteva affatto: tutta la vita locale era muta, tranne pei teatri. Ricorderò infine l’ultimo di questi periodici, L’Idea di F. Maggiore-Perni, rivista tra statistico-economica e letteraria, nata nel 1859 e morta poco dopo il 1860.

Sulle cose della politica d’Italia tacevano, o rivelavano una mirabile ingenuità. Nel suo secondo numero, ch’è quello del 12 novembre 1856, il Tutto per tutti annunziava fra le notizie varie, che il 20 ottobre di quell’anno aveva avuto luogo l’inaugurazione della ferrovia Vittorio Emanuele, che partendo da Chambery, conduce a Venezia, per Torino e Milano! E dire che Chambery non fu congiunta per ferrovia a Torino prima dell’apertura del Frejus, cioè quindici anni dopo, quando non apparteneva più al Piemonte, e Torino, Milano e Venezia facevano parte del Regno d’Italia. E nel sesto numero, fra le stesse notizie varie, vi erano queste, che l’archeologo Canina era morto di veleno e che "fra pochi giorni uscirà dalla tipografia Pelazza un nuovo giornale di gran formato, intitolato L’Indipendenza e ne saranno principali redattori La Cecilia, Angelo Brofferio e l’avvocato Villa„. Ma dove fosse morto il Canina, che poi era vivo, e dove sarebbe uscito L’Indipendenza vi è affatto taciuto. In quel numero del Tutto per tutti il barone Pisani pubblicò un geniale articolo: Un’ironia alla moda.

Tutto compreso, il Giornale di Sicilia era il più completo. Pubblicava in quarta pagina il servizio postale, con l’itinerario delle vetture per la Sicilia, lo stato civile di Palermo, una rivista della borsa e l’annunzio dei teatri, oltre alla parte ufficiale che si stampava in prima pagina a lettere più grosse. Era il solo foglio quotidiano, ma, ripeto, esso non assorbiva che una piccola parte dell’attività del Ventimiglia, per il quale tutto il lavoro giornalistico si riduceva ad una visita quotidiana a Maniscalco [p. 316 modifica]e alla permanenza per una o due ore nell’ufficio, allogato nello stesso palazzo dei ministeri. Gli altri redattori erano impiegati sine cura. Il foglio seguiva il suo andare, e poiché non richiedeva alcuna fatica speciale, tutti vi attendevano il meno che potessero, e così avvenne che nella parte ufficiale, a grossi caratteri, scivolò più tardi l’annunzio della vittoria di Solferino!


A Palermo, tranne per le opere teatrali, non esisteva un vero ufficio di revisione. Era compreso nel primo carico del ripartimento di polizia, sotto il nome di stampa e revisione. Sulla decenza degli spettacoli e sulla polizia interna delle sale vigilava la soprintendenza, che decideva anche su tutte le controversie fra impresarii e compagnie, fra impresarii, governo e pubblico. Ed era sopraintendente, come si è detto, lo Starrabba di Rudini, che esercitava quell’ufficio con apparente passione, ma chi faceva tutto era il segretario Zappulla. Per le produzioni teatrali in prosa e in musica e per i balli, aveva ufficio di revisore il Bozzo, professore di eloquenza e letteratura italiana all’Università: mite uomo, per cui non si verificavano a Palermo le inesauribili scempiaggini di Napoli, anzi i giornalisti facevano alla revisione curiosi scherzi. Il dottor Lodi, redattore della Lira, vi pubblicava articoli letterarii sottoscritti G. M. ed erano brani cavati dalle opere di Giuseppe Mazzini; o sottoscritti G. L. F., ovvero B. C., e che appartenevano a Giuseppe La Farina e a Benedetto Castiglia, e di questo il Bozzo non si accorse mai. Per i libri la revisione era dalla polizia affidata ai redattori del Giornale di Sicilia, o a persone ritenute competenti, ma un ufficio speciale come a Napoli non esisteva, né esisteva neppure presso la posta, né presso la dogana per i libri provenienti dall’estero; onde libri, opuscoli e giornali politici entravano nell’Isola assai più che a Napoli, e provenivano da Genova e da Malta ordinariamente, e in alcuni casi, da Livorno, da Marsiglia e da Alessandria di Egitto.

Pubblicandosi qualche opera di non comune importanza, si affilavano le armi della critica. Il canonico Pietro Sanfilippo, della Metropolitana di Palermo, pubblicò nel 1855 una storia della letteratura italiana, nella quale espresse l’opinione che la popolazione di Sicilia contenendo molti elementi arabi, la sua poesia del Medio Evo potè acquistare più direttamente quella maniera di [p. 317 modifica]sentimento e quella forma di versificazione, che aveva più attrattive per le orecchie di quei Re, poeti essi stessi. Ebbe vivaci critiche, essendo l’opinione sua in opposizione con tutte le altre, che fanno derivare quella poesia dalla maniera dei trovatori provenzali, numerosi alla Corte di Palermo. Ma si fu giustamente benevoli col chierico Gioacchino Di Marzo, che traduceva dal latino il celebre Lessico topografico della Sicilia di Vito Amico, completandolo con annotazioni erudite ed opportune. Il Di Marzo aveva allora ventidue anni, e quella traduzione fu l’inizio della sua fortunata carriera scientifica, che lo rese tanto benemerito della cultura storica e archeologica della sua Isola.


Nel febbraio del 1857 la regina Maria Teresa si sgravò dell’ultimo figliuolo, al quale fu dato il nome di Gennaro e il titolo di conte di Caltagirone. Non è immaginabile la gioia ufficiale e pubblica che invase quella caratteristica e popolosa città, per l’alto onore che volle concederle il Re. Fu mandata a Napoli una deputazione per umiliare ai piedi del trono un indirizzo di ringraziamento. Era patrizio il cavaliere don Giacomo Crescimanno, il quale disse al Decurionato: "Tutto quello che faremo sarà poco, misurato con l’immensurabilità del nostro affetto verso colui, che può dirsi padre piuttosto che Re„. Vi furono feste religiose e civili e atti di beneficenza che costarono al Comune 3500 ducati, somma grossa in quei tempi. La deputazione andò a Napoli, umiliò l’indirizzo ai piedi del trono e portò al marmocchio una reliquia miracolosa dell’apostolo San Giacomo maggiore, protettore della città. Il Re accolse con vero compiacimento questo dono, che del resto non portò fortuna al principe, morto a dieci anni di colera, ad Albano Laziale e fece ringraziare anche con lettera il Decurionato di Caltagirone. E perchè la memoria di quanto vi si era compiuto non andasse obliata, venne ogni cosa raccolta in un grosso volume in folio, del quale fu principal poeta e prosatore il professore Audilio, che tuttora vive. Il volume venne pubblicato dal Galatola a Catania, con rara eleganza di tipi.


La venuta del granduca Costantino, fratello dello Czar e della arciduchessa Alessandra col figliuolo Nicola, risuscitò le simpatie del patriziato siciliano per i principi russi. Costantino prese alloggio nella stessa villa Serradifalco, all’Olivuzza, dove, meno [p. 318 modifica]di quattordici anni prima, aveva abitato l’imperatore Nicola con l’imperatrice Alessandra e la figlia, la bellissima arciduchessa Olga ed egli stesso, Costantino, appena diciottenne. La Corte russa andò a Palermo nell’ottobre del 1845, per curare una malattia dell’Imperatrice, vi restò quarantadue giorni e fu visitata dal Re e dai principi reali, onorata e festeggiata in prosa e in versi. Giuseppina Turrisi Colonna, non ancora divenuta principessa di Galati, indirizzò alla bella e interessante Olga inspirate ottave, e scrittori coraggiosi, come il giovane principe di Scordia, misero insieme una pubblicazione commemorativa, dal titolo l’Olivuzza, tutta piena di allusioni sullo stato della Sicilia. Si ricordava pure che in quell’occasione erano state scelte le più belle fanciulle di Palermo, dai dieci ai dodici anni, ad eseguire dinanzi alla Corte russa il ballo nazionale, la tarantella, e la ballarono le due Starrabba di Rudinì, Caterina e Stefanina; la Monroy, attuale principessa Alcontres di Messina; l’Elisabetta Niscemi, maritata poi al marchese Ugo; l’Agatina Villarosa, divenuta baronessa Piccolo e l’Eleonora Trigona di Sant’Elia, presente principessa di Giardinelli.

Questo granduca russo mise a dura prova tutta la pazienza di Castelcicala e di Maniscalco per il suo contegno stravagante, anzi scorretto. Viaggiava con gran seguito e cinque navi da guerra, e pretendeva entrare nel porto di Palermo a capo della sua flotta. Il luogotenente non lo permise, e Costantino dovè sottostare all’ordine di entrare con due navi soltanto, mandando le altre a Castellamare. Questo lo irritò, perchè seppe che l’ordine era venuto da Napoli. Aveva dei cani mastini che incutevano terrore e chiese anche un orso, ma gli fu risposto che nelle foreste della Sicilia non vi erano orsi. Assunse un contegno addirittura irriverente verso la persona del Re. Chiedeva notizie della salute di lui, ma solo per contraddirle, rispondendo: Ce n’est pas vrai, il est mori, je vous l’assure: le roi est mort. Manifestò un’incredibile crudeltà, infliggendo a quattro suoi marinari pene bestiali. Ne fece legare quattro rei di ubriachezza, e ordinò che così legati fossero per quattro volte costretti a girare sotto la carena della nave ammiraglia. Morirono tutti e quattro. Castelcicala andò in gran pompa a visitarlo, ma appena il granduca cominciò a dir male del Re, si levò e con inglese cortesia gli chiese il permesso di ritirarsi. Per non mancargli di [p. 319 modifica]riguardo, pose il Gallotti a disposizione di lui, e Costantino finì con l’avere molta benevolenza per il cortese segretario del luogotenente. Ne ebbe anche per il Maniscalco, ma quando seppe che lo faceva spiare, come aveva fatto spiare l’anno innanzi il duca di Aumale, andato a Palermo per visitare le sue tenute, non volle più vederlo. Il granduca partì il 21 marzo, e fu la sua partenza una liberazione per le autorità, ma non per l’alta società che perdette una desiderata occasione di svaghi. Si fermò a Napoli sino al 19 aprile e andò a Caserta a visitare il Re. Il contegno di lui rispetto a Ferdinando II e alla famiglia dei Borboni, rivelava non solo un astioso suo sentimento personale, ma il sentimento della Corte di Pietroburgo, di cui si era avuta una prova nel silenzio serbato dai plenipotenziarii russi al Congresso di Parigi, tre anni prima.






Note

  1. Riflessioni sullo stato presente del Regno di Sicilia (1801) intorno all’agricoltura e alla pastorizia, autografo pubblicato per cura del prof. Giuseppe Navanteri. — Ragusa, Piccitto e Antoci, 1896.