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La mia vita, ricordi autobiografici/XXVII

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Capitolo XXVII. Parentesi dolorosa

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XXVI XXVIII
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XXVII.

Parentesi dolorosa.

(1855-1887).

A questo punto della narrazione mi pare opportuno riandare con la mente ad alcuni fatti dolorosi che si svolsero fra l’ottantacinque e l’ottantasette. Sono pietosi ricordi di famiglia che rievoco con malinconica compiacenza in queste pagine improntate alla più schietta sincerità.

All’Egle nell’anno 1872 era morto il marito: glie lo aveva portato via in pochi giorni una fierissima malattia di petto. La mia povera sorella rimase sola col figliolo Ettore e con la piccola Ebe, a cui subito io volli far da mamma, ritirandola presso di me: e dovè accudire personalmente, con l’aiuto di un semplice commesso, agli affari della sua azienda modesta. Oggi giorno una simile responsabilità non ispirerebbe il più piccolo timore ad una giovane donna. In trent’anni si è percorso un grande cammino; ma allora...

Per di più l’Egle era naturalmente apatica. Non possedeva minimamente, quello che si chiama spirito d’iniziativa, ed era assolutamente incapace non solo di atti energici che rivelassero la potenza della sua volontà, ma nemmeno di quelle determinazioni che tutti [p. 208 modifica] prendiamo risolutamente quando ci sovrasta qualche pericolo. Avvezza, fin da piccola, a nutrire la più grande riverenza per l’autorità maschile, convinta che una donna sola, a questo mondo, non dovesse riuscire, grazie alle sue qualità personali, di aprirsi in qualche modo una via; il dolore per la perdita del marito l’accasciò a tal segno, da ridurla quasi all’impotenza.

Non solo non seppe mantenere vivo il suo piccolo commercio, ma l’affidò completamente alle mani del figliuolo, ancora inesperto e di un commesso, il quale — come tutti i commessi — si curava fino ad un certo segno di far prosperare gli interessi della padrona. Così, quantunque Drea alla sua morte, le lasciasse una bella somma in contanti, la bottega ben provvisti! di generi di cartoleria, e la casa piena di ogni ben di Dio, la mia povera sorella non seppe sfruttare abilmente queste risorse e — apaticamente — lasciò fare agli altri. Inutile dire che gli affari andarono sempre peggio, finché un bel giorno le convenne di ritirarsi e farla finita.

Fra il settantasei e il settantasette strinse amicizia col tenente Pietro Leoni, che sposò poi nel 1884. In quegli anni, dal 77 in su, ella lasciò la casa di Piazza Pitti dove conviveva con una sua parente, Teresa Ferrini, 1 e venne a star con me a S. Gallo. Nel 79, volendo vivere assolutumente libera e non volendo d’altra parte [p. 209 modifica] separarmi dai miei cari, presi in affitto un grazioso quartierino sul viale del Pallone (oggi Viale Regina Vittoria) proprio accanto alla casa abitata da mio padre e dall’Egle. L’Ebe, da un pezzo, si trovava in educazione nel Convento di San Niccolò, oltr’Arno. Dopo il matrimonio, mia sorella andò a stare, insieme col marito a Porta Romana; e fu là che si manifestarono i primi sintomi del male che in pochi mesi doveva toglierla al nostro affetto. Un po’ delicata di petto l’Egle era sempre stata; ma nulla avrebbe dato a credere che la logorasse la tisi. Io, sapendo benissimo, che spesso in quelle malattie, il subitaneo cambiamento di aria se non ad una guarigione può almeno condurre ad un lieve miglioramento feci in modo che insieme col marito ella tornasse ad abitare il nostro vecchio San Gallo; e proprio sul viale regina Vittoria le presi in affitto un modesto quartierino. Vedendola però peggiorare ogni giorno, e avendomi detto il medico che ormai la mia povera sorella era condannata, le mie visite si fecero frequentissime, continue. Io avevo già presa la direzione della Cordelia e stavo di casa in piazza del Duomo; ma tutti i giorni correvo a casa dell’Egle per non verificare — pur troppo — che un peggioramento progressivo.

I miei rapporti con l’Egle, fino a che ella non s’infermò, erano sempre stati più che cordiali, ma non molto affettuosi. I nostri caratteri differivano troppo l’uno dall’altro; eravamo separate da un abisso di sentimenti e di idee. Ella — senza farmelo in nessun modo capire — non poteva apprezzar molto una donna così dissimile dalle altre, una donna che invece di consacrarsi esclusivamente alle cure [p. 210 modifica] domestiche, dedicava la sua opera ad altro ideale per lei quasi incomprensibile: l’arte e l’educazione. Io, per mia parte, senza riflettere che la timidezza e l’apatia della mia povera sorella si dovevano forse alla sua straordinarìa gracilità di fibra e al suo fondo patologico, m’irritavo meco stessa nel vedere una donna così assolutamente priva di energia, così incapace di pronte risoluzioni. Ma la grave malattia rilevò tutti i tesori d’amore e di gentilezza che eran chiusi nella bell’anima della povera Egle e mi fecero accorta — troppo tardi — che angelo fosse quella cara donna. Nelle ultime settimane di vita, su lei, come tutti i tisici; era aumentata straordinariamente la sensibilità. Le sue facoltà di intuizione che durante la vita m’erano parse così scarse, e così povere, si affinarono prodigiosamente. Ella mi assediava di domande 5 di quelle domande così terribilmente suggestive a cui è difficilissimo rispondere. I tubercolosi hanno una memoria molto forte: si direbbe quasi che mentre l’organismo si consuma lentamente sotto l’azione del male le forze si adunino tutte nel cervello. Volendoli quindi tenere in calma sul conto della loro salute è necessario rispondere abilmente a ogni loro interrogazione, anche astuta. Un momento di squilibrio intellettuale e tutto è perduto. Mi ricordo che la povera Egle, paurosa forse della morte, e sospettando la gravità della malattia, ricorse alla più terribile delle prove, invitandomi a mangiare quelle stesse vivande delicate e gustose ch’ella appena spelluzzicava. L’esitazione non era possibile. Bastava che la povera malata avesse scorto nel mio viso un’espressione, anche fuggevole, di spavento o di disgusto, perchè le fossero avvelenati dalla disperazione anche quegli ultimi giorni [p. 211 modifica] di vita. Ma — debbo dirlo ad onore — quella esitazione non ci fu e Dio mi protesse2.

L’Egle peggiorò sempre: nella seconda decade di maggio era agli estremi: il medico la vide, l’ultima volta il 16 di maggio (il giorno della mia festa) e se ne andò crollando il capo. Il 17 doveva essere il suo ultimo giorno di vita. Verso sera, ella domandò con voce fioca, che ora forse e perchè si fosse fatto ad un tratto, così buio. Erano le tenebre della morte che avviluppavano gradatamente il suo spirito, giacchè fuori il tramonto accendeva le cime degli alberi e per l’aria purissima passavano tutti gli indistinti profumi della primavera. Le [p. 212 modifica] donne che l'assistevauo (io l’avevo lasciata da poco, non credendo ad una catastrofe imminente) si curvarono su di lei, pregando e piangendo. Ma se il suo pallido viso era coperto d’ombra, l’anima era già nella luce...

Il figliuolo Ettore la raggiunse, sei mesi dopo, nel novembre dell ’86.


  1. Cara simpatica donna che per vent’anni è vissuta presso di me, circondandomi di cure e tenerezze materne. Anch’essa dorme in pace accanto ai miei, sulle laminose alture di Trespiano.
  2. Non posso fare a meno di riportar qui, in omaggio alla cara morta, un mio bozzetto che mi fu in gran parte ispirato dalla sua memoria che ricorda, pur troppo, una mia quasi imperdonabile viltà. Questo bozzetto fa parte di un volume di novelle stampato dai Paggi di Firenze e intitolato: «Realtà e fantasia».

    Storia di tre fiori.

    Siete spiritiste, mie belle lettrici? Io sì; ma intendiamoci: spiritisti a modo mio e non già a modo del bravo Fenzi, del mio illustre collega Eugenio Checchi, del buon Capuana e del malizioso Verdinois. Non credo per esempio ai tonfi negli armadi, ai tavolini che girano e alle apparizioni di Jacopone da Todi e di Cecco d’Ascoli. Credo però fermamente, oh se ci credo! che le anime dei cari nostri vengano spesso a visitarci e ad intrattenersi volentieri con noi. Ciò avviene in certe giornate melanconiche, tristi, quando il cielo è plumbeo, quando il vento geme attraverso le grandi stanze disabitate, quando infine la febbre delle memorie ci assale sordamente, quasi a nostra insaputa, con un crescendo di intensità che ci spaventa.
    Ci eravamo accomodate nell’angolo preferito del salottino, avevamo preso il nostro ricamo, tenevamo aperto sol tavolino l’ultimo romanzo testè comparso alla luce.

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Egli, dopo la morte del padre, avvenuta come ho già detto, nel 72, era stato messo a «bottega»; ma il giovine non era assolutamente adatto a quel genere di vita. Egli si sentiva forte, coraggioso, entusiasta, nè poteva certo vagheggiare un’esistenza oscura, mediocre, o povera come quella ch’egli condusse per alcuni anni, a Firenze. A proposito del suo coraggio, e della sua [p. 214 modifica]perfetta stoicità nel sopportare il male, non credo inutile raccontare di lui il seguente aneddoto.

Mentre, dopo la morte del padre, egli accudiva come meglio sapeva e poteva al suo piccolo commercio di libraio gli toccò, — non mi ricordo più in quale occasione — a recarsi in una tipografia. Era stata messa [p. 215 modifica] in opera da poco tempo una di quelle macchine da taglio di cui si servono i librai per pareggiare i margini dei volumi stampati. Ettore, incuriosito, si avvicinò alla macchina e vi pose sopra sbadatamente la mano, senza accorgersi che la larga lama si abbassava: e così ebbe l’anulare quasi interamente reciso alla seconda falange.

I lettori si possono immaginare le grida, la confusione, lo spavento di tutti. Ma Ettore, vinta la prima impressione del dolore che dovè certo essere spasmodico, dopo essersi ravvolta la mano ferita nel fazzoletto, ed aver caldamente raccomandato agli amici di non raccontar nulla dell’accaduto a sua madre, si fece accompagnare all’ospedale di Santa Maria Nuova. Ma appena il medico ebbe veduta la ferita, disse che era necessaria l’amputazione totale del dito.

L’operazione si compiè benissimo, ed Ettore non mandò nemmeno un grido: anzi, appena finita la [p. 216 modifica] fasciatura se ne tornò a casa tranquillamente, dando ad intendere alla povera Egle spaventata non so più quale storiella di sbucciature o di contusioni.

Dopo aver passato qualche anno nel mezzogiorno d’Italia come soldato, avendo sentito dire che a Genova non gli sarebbe stato difficile l’impiegarsi da Florio e Rubattino, prese il treno e vi andò. Infatti, trovò da collocarsi convenientemente, tanto che dopo non molto si unì in matrimonio con una buona ragazza del popolo che gli si era sinceramente affezionata. Da quell’unione nacque un bambino, Andrea, ch’è oggi un fior di giovinetto, laborioso e buono.

Nel 1886 scoppiò il colera a Genova, e in pochi giorni il numero dei casi raggiunse il maximum. Ettore si trovava nel suo ufficio quando, tutto ad un tratto, avvertì i primi sintomi caratteristici del terribile male. Sperò da principio che si trattasse di cosa leggiera; ma quando vide che i dolori viscerali e le nausee crescevano ogni minuto, non si fece più illusioni. Però, nemmeno in quel momento, perse la presenza di spirito. Uscì dall’ufficio, montò in carrozza e si fece condurre fino a casa.

Appena suonato il campanello, l’Alfonsina (sua moglie) si presentò a capo scala. Egli allora, di fondo, senza salire, le gridò: — Alfonsina, fatti coraggio: ho il colera e vado al lazzaretto. Speriamo bene. Non salgo, perchè se dopo sapessero che qui c’è stato un malato di colera ti brucerebbero tutto, e non ti rimarrebbero nemmeno gli occhi per piangere. Addio, Alfonsina, ti racomando il bambino! [p. 217 modifica]

Proferite queste parole, mentre la moglie era uscita quasi fuori di sè per lo spavento e il dolore, rimontò in carrozza e si fece condurre al lazzaretto. Là fu ricoverato d’urgenza. La moglie, appena rimessa dal primo orribile stupore, gli corse dietro; ma all’ospedale non fu fatta passare. Il giorno dopo il mio eroico nipote era morto.

Mi annunziò la sciagura l’Alfonsina con questo telegramma: «Ettorino ha cessato di vivere. Scriverò. Sono in uno stato incredibile» .

E per una fatale combinazione, come l’Egle era morta il 17 di maggio, giorno successivo al mio compleanno, così Ettore spirò il 13 di novembre, giorno in cui compiva precisamente i venti anni la sua sorellina, l’Ebe!...

Fino dall’epoca del secondo matrimonio di mia sorella, il babbo era venuto a stare con me, nella casa di Piazza del Duomo.

Non era stato facile il persuaderlo, giacchè egli nella sua fierezza non voleva mai esser causa del più lieve imbarazzo per nessuno; io d’altra parte non potevo permettere che mio padre vivesse solo, senza conforto di affetti, sicchè a furia di pregarlo e ripregarlo riuscii a convincerlo. Nei tre anni che egli rimase con me, la sua vita si riassunse in una sola parola: Lavoro. Quantunque gli anni gli pesassero sulle spalle, (era nato nel 1804), non mancò un giorno solo al suo dovere. I colleghi d’ufficio l’adoravano, tanto era buono, onesto, delicato, servizievole. [p. 218 modifica] Accadeva spesso che qualche impiegato giovane lo pregasse di sostituirlo anche nella domenica in cui di diritto, gli toccava la libertà, e il mio buon babbo, per far piacere al collega, rinunciava volentierissimo a questo suo diritto, caricandosi pazientemente del lavoro di un altro. Uscendo dall’ufficio, portava a casa altro lavoro, e a lavorare si sarebbe rimesso anche la sera, dopo desinare, se non lo avessimo sconsigliato. Cedeva però a malincuore, scuotendo il capo, rodendosi internamente di non poter fare a modo suo. Mio padre fu negli ultimi anni un vecchietto originalissimo, che non voleva mai rinunziare alle proprie idee, pretendeva di discutere su tutto e su tutto avere quello che si dice «un’opinione». Eccellente pasta d’uomo, nessuno ricorreva mai inutilmente al suo cuore e alla sua generosità. La vita sobria e regolata gli conservò le forze fino alla più tarda età: aveva da poco compiuti gli ottanta anni quando lo trovai un giorno, in via Calzaioli. Portava sotto il braccio un pesantissimo rotolo di lino che avrebbe retto con difficoltà anche un giovanotto di vent’anni. Io ero in carrozza, e non potei sopportare quello spettacolo. Raggiunsi il babbo e lo pregai a mani giunte di salire. Dopo mezz’ora di preghiere acconsentì a mettere in carrozza il rotolo; ma volle in tutti i modi seguitare la sua strada a piedi. E fece a modo suo non senza avere snocciolata una vera e propria requisitoria contro la fiacchezza dei giovani, la loro nessuna tolleranza alla fatica e chi più ne ha più ne metta.

Nel 1886 cominciò ad accusare alcuni lievi dolori allo stomaco. Erano i prodromi della malattia che [p. 219 modifica] doveva condurlo al sepolcro. Io ignorai però la gravità del male fino agli ultimi mesi, pur facendo tutto quanto era umanamente possibile per migliorarne le condizioni. Quando vidi che i cibi fini e più squisiti non venivano digeriti e che alla deglutizione delle conserve e delle gelatine succedeva immediatamente una reazione dello stomaco, quando finalmente egli stesso si lamentò di un dolore continuo localizzato, il tristissimo dubbio si mutò in certezza; il povero babbo era malato di un cancro allo stomaco.

Come i lettori sapranno benissimo, simili malattie non perdonano. Il male progredisce rapidamente; e nel corso di un anno e mezzo o di due al massimo ha la sua soluzione nella morte dell’individuo. Questa la rigidezza brutale della diagnosi; ma poteva una figliuola amorosa lasciar nulla di intentato anche sapendo assolutamente inutile ad ogni suo sforzo?

Lo assistemmo tutte amorosamente; io, l’Ebe, uscita di poco dal convento e che stava allora con me, ed altre donne gentili. Ma il male era irrimediabile. Le condizioni dello stomaco peggiorarono sempre, finchè il dì 7 aprile 1887 (il venerdì santo) al tocco e mezzo pomeridiano il buon vecchio rese l’anima a Dio. Negli ultimi giorni di vita egli si accorse del suo stato ed ebbe tanta padronanza di sè stesso e tanta lucidezza di spirito da parlarmi di una certa pezza di stoffa nera comprata da lui poche settimana prima di allettarsi, e che giaceva ancora intatta, in una cassetta del cassettone. — «Ne farai un vestito da lutto» — mi disse a mezza voce.

Poi volle dettare da sè stesso la denunzia di morte; e non ebbe bene finchè l’Ebe (immaginiamoci con [p. 220 modifica] che animo!) non l’ebbe contentato: rilesse, indicò alcune correzioni e disse che si lasciasse uno spazio in bianco, da riempirsi dopo la morte. U giorno innanzi di spirare, vedendo che l’Ebe stava in piedi di fianco al suo letto, protestò contro quell’ozio, e le ingiunse di tagliar dei lenzuoli perchè «voleva morire vedendo la gente lavorare».

Egli stesso lavorò fino agli ultimi giorni, quantunque affranto e logorate dalla terribile malattia; quantunque il medico gli proibisse ogni occupazione e i superiori lo avessero ripetutamente pregato di riposarsi; egli volle andare all’ufficio sempre: negli ultimi tempi lo accompagnava e lo andava a riprendere la donna di servizio.

La notizia della morte di mio padre produsse in tutti un’impressione penosissima. Al trasporto intervennero tutti i suoi superiori d’ufficio e moltissimi amici miei.

Il municipio di Firenze volendo in qualche modo testimoniare il suo affetto e la sua riconoscenza alla memoria del diligentissimo impiegato, pensò a tutte le spese del trasporto e volle che la salma fosse sepolta in un posto distinto.

Cosi, in poco più di due anni perdei la sorella, il nipote, il padre, e soltanto il lavoro, un lavoro intenso, prolungato, continuo, potè riuscir di conforto alla mia amara solitudine.



    Inutilmente! I morti si erano annoiati nel silenzio dei loro sepolcreti e ci aleggiavano intorno, accanto, sul capo, sussurrandoci con insistenza:
    — Ti ricordi? Ti ricordi!


    Mi alzai, vinta dallo sgomento, da quella smania, per cui ogni tensione dello spirito e perfino l'immobilità del corpo ci riescono ugualmente insopportabili. Mi alzai, eccitata da una volontà che non era la mia perchè più energica della mia, 1 miei sguardi, vaghi ed incerti, erravano da un soggetto all’altro, senza fermarsi sopra alcuno.
    Finalmente un’idea, l’idea di ravviare i ninnoli del salotto, mi traversò la fantasia a guisa di lampo che solca, luminoso e fuggitivo, la tristezza di un cielo autunnale.
    E subito, di mano in mano che i fragili oggetti passavano e ripassavano dalle mie dita nervose, ecco che al pensiero cominciavano a sfilare, inseguendosi, antiche visioni, dolci fisonomie non ancora dimenticate, paesaggi lontani, misteriosi, quali, talvolta, intravediamo nei sogni.
    Non c’era più dubbio: i morti, i buoni morti, erano venuti a visitarmi. Li sentivo.

    Povero mazzolino di violette, morto sul mio seno e sepolto nel cristallo lucente di quel vasellino chinese: povero mazzolino! La mano che me lo porse è irrigidita da qaasi un anno. Si preparavano qui nella mia Firenze

    le solenni feste di maggio: il velo che nascondeva i marmi della bella facciata di Santa Maria del Fiore, doveva cadere fra breve: ovunque l’occhio si volgesse, ovunque l’orecchio fosse teso era un sorriso di fiori e di luce, era un inno paradisiaco che l’arte e la Religione inalzavano a Dio. E tu buono, e tu poeta, e tu gentile, ti spengesti all’alba di quel bel giorno luminoso, e non sentisti risonare sotto le volte del memore tempio il canto sublime che loda l’onnipotenza di Dio: ti spengesti, povero amico, senza vedere sventolare da le antiche torri di Firenze repubblica, la bandiera tricolore che narra ai figliuoli e ai nepoti le grandezze della patria italiana.

    Un altro fiore, un altro ricordo, nascosto tra le paginette del piccolo albo di madreperla. È un mazzolino di mughetti e me lo porse la povera sorella mia con la mano umida di sudore ghiacciato, pochi giorni prima di volarsene al cielo. Ahimè! Questo mazzolino mi ricorda una colpa grave, ch’io non mi perdonerò mai.
    Quando dalle sue povere manine scarne ricevei il mazzolino vizzo, ingiallito dall’ardore di quelle carni febbricitanti, mi assalì un timore spaventoso, vile; Il timore di contrarre io pure, per mezzo di quei fiori il morbo che la conduceva, sì giovane ancora e sì bella alla tomba: e senza che alcuno si potesse accorgere di quel mio atto codardo, lasciai cadere i mughetti in un angolo oscuro della casa, ove stavano affastellati dei legnami e degli oggetti fuori d’uso. Più tardi, me ne tornai a casa mia. Ma non erano scorse due ore dall’atto crudele, che mi sentii assalita da un improvviso malessere, da una smania angosciosa quanto improvvisa.

    Ahimè! vidi, vidi con gli occhi de lo spirito, fra quei legnacci, fra quei vecchi oggetti fuori d’uso, qualche cosa di candido, di metto che mi chiamava, che mi voleva imperiosamente.
    Mi alzai precipitosa e di notte com’era — sensa badare alle ammonizioni dei miei — che mi supplicavano a rimettere al giorno dopo la mia visita — corsi in casa di mia sorella e prima ancora di entrar da lei, mi slanciai verso l'angelo fatale. Dio buono! Se il mazzolino fosse stato tolto, spazzato, gettato via! Se la povera malata avesse potuto indovinare, supporre! Oh, c’era da smarrire la ragione per sempre.
    Chi la saprà ridire a parole, le mia ebbrezza, la felicità mia, allorché lo intravidi, bianco e gentile, al lume vacillante della candela che tenevo in mano tremando? Lo presi, no, lo ghermii con passione furiosa, me lo sfegai ai labbri, agli occhi, alle gote, lo coprii di baci, lo nascosi in seno, sulla pelle ignuda, per sentirne meglio il contatto.
    «Avevi perduto qualche cosa che ti premeva? — mi chiese mia sorella.
    — Sì, — risposi balbettando, — un anellino d’oro.
    E lei ci credè, poverina.

    Terzo fiore: una viola scempia. Me la porse un solitario, mi poeta, un uomo forte e buono che vive lontano dal mondo ciarliero dei letterati. Voi, lettrici gentili, ne avete letto più volte i versi melodiosi e soavi. Andai a visitar questo amico in compagnia di un’altro amico che ora è morto;.... ma è morto per me, per me sola. C’è chi lo vede ancora per le vie cittadine, c’è chi lo ode tuttavia dall’alto della sua cattedra, intrattener

    con le belle storie d’arte e di poesia le giovani scolare che gli vogliono bene. Io non lo vedo, non lo odo più. Morì in un giorno malinconico di questo lungo inverno, mentre io, ignara e malinconica, lo ricordavo con tenerezza. Morì, ed anche a lui ho composto la tomba qui, in questa sala malinconica, piena di tante memorie.
    E la viola scempia mi ricorda ancora un lieto pomeriggio estivo, una fragile carrozzella volante sul polverone della strada maestra, un giardino dorato dagli splendori del tramonto, e l’accoglienza onesta e cordiale che ci fece quel valentuomo.
    Mia povera viola, tacete: il sole torna a sorridere sui vecchi mobili e sulle brune scansìe: il tiepido cantuccio mi invita, il romanzo testè cominciato mi tenta..... e i morti, non vedete? i morti sono tornati alle loro tombe biancheggianti sotto la nuova luce. Tacete, tacete dunque, ricordi miei. I morti sono passati.