La pastorizia/VI

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Libro sesto

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V
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LIBRO SESTO.



Qual cura alfin ti salverà l’armento
Da’ rei malori, e come il torni in vita
Il poter de’ rimedj ov’egro ei giaccia,
Io canterò, se le invocate Muse
5Risponderanno all’ultima fatica.
Difficil opra invero, e alle felici
Grazie di Pindo avversa, a seguir resta;
Chè duro è il noverar di vario aspetto
Rei morbi, e fiere pesti, e orribil danni.
10Pur se a verace utilità congiunti
Saran miei versi, onde da quelli apprenda
Il pastor, come còlto il morbo arresti
Ne’ suoi principj antivedendo, e dove
Morte era sopra paurosa e cruda,
15Speme rifulga: io mi conforto e spero
Che tanto mi verrà da quelle dive
Favor che basti a compier l’alta impresa.
     La pecorella che vedrai soletta
Cercar spesso fresche ombre, e dello stuolo
20Andar l’ultima, o starsi in mezzo al campo

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Pascendo al suol corcata, ed alla tarda
Notte venir raminga a le capanne,
Quella al certo segreta ira consuma
D’occulto morbo; a quella il miglior vitto
2525Si studj, a lei converti ogni tua cura.
Quando più cresce il mal, stupida fassi
La vivace pupilla, e la sanguigna
Vena dell’occhio appar languida e smorta,
La rosea pelle imbianca, e mal si regge
3030Sopra a gli arcati femori e vacilla;
Simile a chi da lunghe alterne febbri
Riuscito poc’anzi, in su i ginocchi
Mal fermo tiensi e cade ad ogni scossa.
Se poi la gamba deretana all’agna
3535Stringendo, ella con molti a sè la tira
Liberi sforzi, e nel divincolarsi
Per fuggirti di man tenta ogni via,
Di’ ch’è in vigore, e non vi aver sospetto.
     Il più fiero di quanti infestan morbi,
4040Contro cui non varrà di medic’arte
Argomento o poter, dalle crudeli
Angosce accompagnato e dalla morte,
Capostorno lo appella in suo linguaggio
L’attonito pastor. L’infermo agnello

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45A cui s’apprende, di stordito in guisa
(Quasi che tutta conoscenza in lui
Dall’esser primo lo diparta) il vedi
Non più seguir la torma, e nell’ovile
Ristar quand’esce il gregge, immobil, mesto,
50Come non vegga e nulla senta. Il capo
Stranamente contorto ognor reclina
Ad una parte; irrequïeto e stolto
Talor si storce, come angoscia il prenda
Subitamente e un pizzicor segreto;
55E talor lieto ai pascoli ritorna
E festoso si mesce in fra i compagni.
Ma desiderio di salvezza, o speme
Non ti deluda; chè frequente il move
Ognor più spesso un palpito ansïoso
60Che intorno lo rigira e a cader sforza
Stramazzando; nè dato gli è di terra
Se non l’aiti di levarsi; e l’ire
Morte addoppiando, d’ogni senso il priva
Miseramente e della vita insieme.
65Nè lo scambiar giovò, movendo altrove,
Pascoli e stanza; e non giovò di pure
Onde lavacro, chè il seguia per tutto
L’indivisibil morbo ognor più crudo.

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A quel modo, che ai fianchi un giorno infisso
70Il mortifero assillo, opra di Giuno,
La flebil Io dell’Inaco paterno
Disperata correa le verdi sponde,
Fatta giovenca, e le foreste intorno
Di pietosi muggiti e d’ululati
75Empiea, cozzando misera! ne’ tronchi,
Sè ravvolgendo tra la polve e i dumi
Irti di sproni; e non però le avvenne
Torsi da tergo la volante Erine.
Estro più crudo il moribondo agnello
80Persegue, e in più vital parte s’accoglie
Dell’infelice; perocchè condotto
Per le narici all’intimo cerébro
Un verme rio che Idatide si appella,
Rode gli stami dilicati, e vive
85Limando ognor più addentro, e di mortali
Punture offende la vìtal midolla.
Morto l’agnel, se il cerebro discopri
Dell’osseo usbergo, tu vedrai su quello
Prominenti apparir più o men profonde
90Bianche vesciche, in che notando vive
Il mal concetto verme. Indarno estimi
D’avvisarne le forme; al redivivo

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Polipo somigliante, a cui non pare
Orma di capo o viscere palese.
95Quando per manifesti indizj è noto
In alcun degli agnelli il morbo crudo,
Tronca la vita misera, e con quella
Ogni affanno, cui va morte dappresso;
Nè patir che sì lunga e dolorosa
100Agonia l’innocente egro travagli.
     Ma se abbandoni disperato al ferro
L’immedicabil pecorella, e spegni
La combattuta vita, un più solerte
Amor si deve inverso a quella inferma
105Che sanarsi potrebbe a le tue cure.
E prima il sottil ferro apra la vena
Di quella, a cui soverchio il sangue abbonda
Concitato dal caldo ai giorni estivi.
Quando più ricco il pascolo verdeggia,
110Più lieta è l’agna, perocchè dal vitto
Prende il sangue incremento, e si disserra
Più fervido dal core, e da per tutto
Vigoroso soverchia. Allor, se molto
Sol la molesta, od agita improvvisa
115Di correr foga, o rio vento rapprende
Il sudor nella cute, immantinente

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Il suo troppo vigor si disquilibra,
E segreta una smania urta e combatte
La vital forza. Le oppilate nari
120Mandan sangue: interrotto dai precordj
Move affannoso il respirar: spumeggia
La bocca, e in sangue appar l’occhio vermiglio.
Al concetto calore apri una via,
E gli ardor tempra col ferir le vena
125Giù nella bifid’unghia o a le mascelle;
Chè se tardi è il soccorso, ognor più denso
Torpe il sangue nel gravido cerébro,
E il senso istupidisce; o le barriere
Dirompendo veloce, in ampio lago
130Lo affonda e preme e in rio letargo avvolge.
Se campar dal periglio ami il tuo gregge,
Di pingui erbe sii parco, e dell’amato
Sale; abbondevol sempre onda di fonte
Lo disseti alla state; e i ben pasciuti
135Agnelli esercitando, ogni dì mena
Sovr’aerie colline, ed a lontani
Paschi, ’ve più l’erbette appajon rare.
Quando ferve la quarta ora del giorno
Li ritraggi al coperto, o dove scende
140Rimota opaca valle, o dove negra

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D’elci foresta in queta ombra si giaccia.
E chi il muto silenzio e l’orror cupo
Sul merigge appressò delle solinghe
Selve, non pur scorgea moversi al dolce
145Sospir delle incostanti aure le frondi,
E limpidi ruscelli in lor vïaggio
Mormorando piegar l’erbe sorgenti;
Ma spesso vide i rozzi tronchi aprirsi,
O ribollendo le chiare acque, uscirne
150Dell’imo fondo boscherecce dive
Di non mortal bellezza; e discoprendo
L’intatto omero e il seno, e le rosate
Braccia, ignude posarsi a le bell’ombre,
Finchè dagli antri i Satiri procaci
155Sopra le Dee correndo, il timor caccia
Le vergini ritrose, e qual ne’ tronchi,
E qual nelle materne onde si cela.
     Sebbene esizïal morbo non sia,
Tuttavolta crudele e nell'aspetto
160Di sconcia lebbra, i mal guardati armenti
La scabbia assale e i bei corpi difforma.
Dura peste per certo, impazïente
Di soccorso e di posa: che dai vivi
Il divino Alighier tradusse un giorno

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165Nelle confuse bolge dell’inferno;
E in miserabil modo ai falsatori
Crucia i putridi membri, e li martira,
E incessante dell’unghie a quegli offesi
Con immenso dolor basta il travaglio.
170Sia, che ingenito rio venen distempre
Con pungente acre la corrotta linfa,
O la cute rimorsa si pertugi
L’Acaro parassito, e a depor l’uova
Vi scenda, che il tepor schiude sui dorsi
175Inverminando; la contrattil pelle
Scolora e ingrossa ruvida, e montando
La scaglia ognor, più spesse e più profonde
Le pustule si fanno. Intenso allora
Il pizzicor si manifesta, e tutta
180Si distacca la lana e si disperde,
Chè i bulbi ond’esce il vello, il venen rode.
L'acre allor del tabacco arida foglia
Abbiti cara, e lungamente in serbo
A macerar la poni, e l’acqua infondi
185Sugli egri corpi; e se restio non parte
Il malor che più addentro ognor si mesce,
Del mercurio ti vali; il qual, disciolto
Agilissimo in atomi, si spinge

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Dove non giunge altro rimedio, e il sangue
190Addolcisce appurando, e tutto assorbe
L'umor nemico, o lo si assembra e spegne.
     Infesta segue ai mansueti armenti
Peste più rea di quante in su la terra
Partorì furie degli Dei lo sdegno.
195Questa, condotta in suo poter, la speme
Frodò de’ padri un giorno; o i dolci aspetti
Disonestando, disfiorar le piacque
La pudica bellezza e le serene
De’ fanciulli sembianze; infin che tolto
200Dall’Asia popolosa e da le belle
D’Eusin contrade, a Venere dilette,
Trasse il felice innesto e lo diffuse
Nella più culta Europa una Donzella,
A cui, meglio che ad Ebe e alla fiorente
205Igia, sull’are fumano gl’incensi.
Poiché tutti una volta il doloroso
Morbo coglier ne dee, spontaneo eleggi
Del regnante velen qual più si mostri
Benigno; e macolando i nati figli,
210L’ire ne tempra e i rei dardi ne spunta.
E agli armenti non men (chè le giovenche
Assale e i tauri men feroce e l’agne )

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Reca l’innesto che li salvi, e sotto
Alle morbide ascelle il fatal germe
215Poni con ferro del veleno intriso.
Prima che l’arte fortunata e l’alto
Trovato un nume rivelasse, acerbo
N’era il flagello, e molte innanzi tempo
Vittime andàro alla magion di Pluto;
220E le schiatte periano e le famiglie
Fino all’ultimo ceppo, e degli armenti
Ne’ campi e nell’ovil morian le torme.
E di tal peste un dì la Tarentina
Piaggia s’afflisse, a cui (pria che dai sette
225Colli sorgesse l’invincibil Roma)
Venia Falanto, dalla patria escluso
Co’ fuggiaschi Partenj. E chi, movendo
Da’ Liburni veniva ai sinüosi,
Di Taranto bei lidi, i pingui colti
230Vedea scendendo, e il biondeggiar dell’alte
Spighe all’aure marine, e la campagna
Sparsa esultar di pascoli e di rivi.
Felici armenti possedean le sponde
Dell’opaco Galeso, e della ricca
235Ebalia, amor di Flora e di Pomona;
E bionde lane si tondea da quelli

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Il Lucanio pastor; che tinte in vario
Color dalle marittime conchiglie,
L’arte imitò di Tiro e di Sidóne.
240Deserta or fatta e quella piaggia, e nuda
Vi biancheggia del mar la steril rena;
Deserti sono i solchi, e de’ pastori
Vóti gli ovili e vedove le selve.
Nè certo alcun dimenticò de’ padri
245Le sacrate ossa, o ricusò devote
Vittime addur propizïanti all'are;
Nè sagrilego ferro i seggi amati
Abbattea delle Dive, o le tranquille
Fonti e i puri lavacri, immondi e brutti
250Vi fea col piè stupido gregge; e nullo
Invid’occhio, per entro a le rimote
Ombre spiando, rivelò maligno
Le ignude Ninfe. Ma poichè del Tauro
Nella spera condotto ebbe il lucente
255Carro Febo dall’alto, e in su la terra
Per diritto sentier giù volse i raggi,
Igniti strali disfrenò dall’arco
Mortalissimi, orribile, inusata
Siccitade adducendo. A lui ghirlanda
260Fean sanguigna le nebbie aride e meste

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Per l’Olimpo vaganti, e fosca ed ampia
Rutila nube l’accogliea, cadente;
Che di sè tutto poi vestendo il cielo,
Nella tacita notte agli arsi campi
265Contendea la rugiada. In larghi solchi
Tutto apriasi il terren, cui lievemente
Lambian vampe notturne, e al secco vento
Fremean le spiche inaridite e vote.
In tanto aspro travaglio, ultimo apparve
270Lo sconosciuto morbo, e primo colse
All’uomo. E lieve penetrando i corpi,
Di lievito mortale alzò le bolle,
Cui rossicce da pria, più scure ed adre
Fe’ la tabe crescente: allor suffuso
275L’occhio di sangue ardea come facella,
Ed un acre fervor l’intime sedi
Possedea della mente, onde le dure
Vigilie erano presso, e del turbato
Spirto la tema e le mortali ambasce.
280Se non che d’ogni affanno a fin li trasse
Invocata la morte; chè di schianze
Gli egri corpi coprendosi, disciolte
Di cotanta sozzura uscivan l’alme.
Gli arsi colli pertanto, e le soggette

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285Valli, e l'ampie capanne, d'ogni parte
Sonavano di pianto e d’ululati;
Poiché l’orrida furia entro gli armenti
Si avvolse, e tutte vi perîr le torme
Fino all’ultimo capo; e negli ovili
290E disperse pe’ campi orribilmente
Corrotte accumulò putride salme,
Fiero pasto agli augelli ed alle fere.
     Molti ancora, che lungo e discortese
Tema sarebbe alle Castalie suore,
295Infestano malori. Or la contorta
Rachitide trafigge i nati agnelli;
Aspra or la tosse insulta; or nel capace
Alvo molt’aria accogliesi e addolora,
E a zoppicar la pecorella sforza
300Giù tra la bifid’unghia ulcere ascosa.
Ma di tutti il peggior (colpa dell’erbe
Di troppa onda satolle e delle piogge)
L’acquosa cachessìa, dell’anelante
Idrope suora, incrudelisce e spegne
305Gli armenti; e la consegue, ove la cruda
L'ampie capanne a desolar si volga,
Dal nero Averno uscita a’ rai del giorno
La tremenda Tesifone, che i morbi

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Si caccia innanzi e le paure e il pianto.
310Primamente l’agnella, a cui sovrasta
La grave idropisia, tarda commina
Dopo dell’altre, e perde il consueto
Desio del cibo; pallide le vene
Si fan dell’occhio, e pallide le labbia
315Visibilmente, e si dimagra e strugge.
Mosso da tali indicj, a miglior stanza
Guida l'inferma ed a miglior pastura;
Spesseggia il sale, e puro zolfo intridi
In cereal semente, e l’animosa
320Canfora la ravvivi e riconforti.
Ma se procede oltre più assai, riparo
Non è che la ti salvi incontro a morte.
Lieta del suo morir brulica intanto
Ria famiglia infinita entro i viventi
325Seni riposta, e da per tutto innonda
Crudelissima. Invan domandi come
Questo di vermi popolo confuso
In lei si pose, e come visse e crebbe
Senza misura; ed or per l’aer vago
330L’uova natanti accusi, che deposte
Sovra i beenti pori, il sangue accolse;
Or nelle sucid’onde o d’in su l’erbe

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Della palude le inghiottì non viste
La pecora; ma forse al ver più presso
335Colse il pastor, che ad un medesmo parto
Nati que’ vermi sospettò coll’agna,
E fatti adulti a’danni suoi. Natura,
Prodiga a un tempo e avara, alternamente
Strugge e ricrea la vita: e così forse
340Ciascun nascendo dal materno seno
I germi della morte seco tragge;
E crescendo cogli anni, i passi affretta
Per ignota cagion verso la tomba.
     Ma non sia chi perduta opra stimando
345Verso l’inferma ogni sua cura, al fato
Cieco s’arrenda; ma sì ben provveda
Che per sua colpa non incolga all’agne
Un qualche danno. Alla ridente Igia
Servatrice di vita alzi le palme
350Dai coronati altari, e ne la invochi
Ognor benigna; e quella ravvolgendo
Il sacro innocuo serpe alle rosate
Sue braccia, e in man recandosi la coppa
D’infinita virtude e la potente
355Verga Epidauria, scenderà d’Olimpo
A le sue preci, e purgherà gli ovili,

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E farà lieti i pascoli, e salubri
Le correntie de’ fiumi. Ov’ella il piede
Volga leggiero, e il guardo apra sereno,
360Fuggono i morbi e le paure e il pianto;
E le malìe disfannosi, e pe’ campi
Muor l’aconito freddo e la cicuta
Ingannatrice e l’orrido nappello
Del mortifero seme; e si dilegua
365Dagli agnelletti il fascino letale,
Se mai su quelli alcuno invido pose
Occhio maligno, o mormorò segrete
E piene d’ira e di livor parole.
Se dai fertili siti, umidi e bassi
370Fuggendo, a pascer guiderai l’armento
Sopra lieve terren, cui rara adombri
L’erba, e saglia dolcissimo; se parco
Dispensier non sarai dell’animoso
Amato sale, ove la pioggia il colga
375Per lungo tratto, o in vile ozio poltrisca
A’ dì piovosi nell’ovil; se monda
Ognora acqua gli appresti di corrente
Rivo, nè mancheran quando bisogni
Temprar del fien l’arsura, o verdi fronde
380O commisto alla beva orzo od avena:

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Men ti dorrai che i visceri discioglia
Sconcio profluvio al mal guardato armento.
Lo stipato ne’ chiusi aere condenso,
E il troppo sole i petti affanna, e scalda
385Il sangue, e in foco avvampa; e le mortali
Febbri adduce, e la pelle arde con larghe
Margini e schianze; del supposto fimo
Grave è alla lunga e triste il lezzo, ed aspra
Scabbie sui corpi fermentando impronta.
390Non lo addur dove molta in sul mattino
Piovve rugiada, o dove in tra le spesse
Ombre adorezza, e bianca appar la brina;
Nè per molto viaggio si affatichi,
Nè per aspri sentier, quando è satollo,
395O quando alle fattrici il ventre ingrossa
In sul chiuder de’ mesi. I luoghi alterna
Del pascolo ogni dì; non lo percuoti
Disonesto, e garrendo non consenti
Che paura lo assaglia, e dolcemente
400Lo scorgi, e il fischio consueto intenda.
Più che il vincastro e il cornïol ferrato,
Reggalo il fischio; e le percosse, e il molto
Garrir nemico obblia; che a’ miti spirti
Vuolsi miti adoprar modi e parole.

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405Bello è veder ne' piani al pasco usato
Di sè stessa avviarsi in un ristretta
La greggia, a cui dinanzi il pastor move
Securamente, e ne prescrive i passi.
Obbedienti al consueto sibilo
410Lascian le folte macchie, in che si avvolgono
Le pecorelle, e l'ime valli e l’ardue
Balze, e congiunte d’ogni parte adunarisi.
Alto levando i capi oltre procedono
Premendosi e belando, e al leggier scalpito
415Alzasi e mesce la commossa polvere;
E via sovr’esso il guardo erra sui candidi
Mobili dorsi, e vi s’arresta e spazia.
Solo in andando il generoso arïete
Vedi lascivo tra le agnelle emergere
420Sui piè levato, e accavallarle e perdersi:
Così quando più il mar sotto alla sferza
D’avversi venti mormora e ribolle
Spumeggiando, e biancheggia il salso flutto,
Talor la decumana onda si leva
425Su tutte l’altre, e solvesi improvvisa,
Le canute mescendo umide spume.
     Avverrà ancor, che subita magrezza
Coglia nel verno all'agna, che dal figlio

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Estenuata, a sostener non vale
430Più la fatica del cammin, nè il carco
Delle nodrici; e il freddo ognor più addentro,
L’aggela e istupidisce, e gemebonda
Presso all’agnello, inutil pondo giace
Di labili ossa, e rio digiun sopporta.
435Nel debil corpo allor sorge diverso
Di morbi assalto, e in un col figlio a morte
Va tosto, se miglior vitto all’inferma
Non si studj sollecito, e ritragga
Al primo stato. A lei dinanzi appresta
440Molli farine in tepid’onda, e molto
Mescendole da prima, sì che bianca
S'alzi la spuma, e il presso latte agguagli,
Liberal le disponi entro l’ovile.
Dolce de’ corpi allor nelle segrete
445Intime parti il buon tepor si mesce,
E gli aggrezzati visceri ristora
Di nuova vita: e misto a la bevanda
Il glutine disciolto (ond’è la pingue
Cereal messe a tutte l’altre innanzi)
450Si devolve allattando ogni fibrilla,
E irrora i seni dilicati e molce;
Nè al digerir d’assiduo lavoro

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Gli stomachi affatica. E quel, cui forza
D’arcani morbi il petto ad altro cibo
455Fatto ha ribelle, il sacro beveraggio
Abbia, e il travaglio interior s’acqueti;
Che di man propria all’abbattuta salma
La veneranda Cerere compose,
Additandone gli usi, il dì che venne
460All’odorata Eleusi ramingando
Per cercar della Vergine rapita.
Scambiando atti e sembianza, tutta quanta
Trascorsa avea la terra, e da per tutto
Spegnendo i germi, e le feconde glebe
465Disertando la Dea (così la prese
Disperato dolor della sua figlia)
Nuovo indusse ai mortali anno crudele
Di rea fame. Tra via quindi sostando
Dal cammin lungo, di nodrice antica
470L’abito assunse, e di Celèo la bella
Reggia appressò non conosciuta, e tolse
A crescergli un figliol, che a’ suoi tardi anni
Gli partorio la vaga Metaníra.
Del ben costrutto albergo entro le soglie
475Tutte levàrsi all’apparir di quella
Le giovinette di Celèo figliole,

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E le furo d’intorno riverenti
Con ospitali uffici in nobil gara.
E chi bei lombi in pingue adipe avvolti
480Proferiale cortese, e chi ricolme
Di buon vino le patere, e le terse
Idrie di fresca empiendo e lucid’onda,
Porgeva a quella afflitta, onde n’avesse
Conforto alcuno. Non però le dapi
485Gustar le piacque o rubicondo vino;
Ma sibbene di queste alla più vaga,
Recami, disse, un’ampia tazza: e quella
La rintracciò fra quante in serbo avea
Bellissime la madre; ed alla Diva,
490Tersa che l’ebbe in molla onda, la porse.
Fattasi indietro allor la vesta, e tutte
Le d’ambrosia olezzanti discoprendo
Rosate braccia, sì che Diva apparve
D’incorrotta bellezza, entro la coppa
495Di ben cernito riso e farro mise
Molli farine, e in calda acqua stemprando
Quella mistura, l’odorò di trito
Puleggio e d’appio e di selvaggia menta.
Di questa ella soccorse al travagliato
500Animo, e nuova lena all’ansio petto

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E vigor nuovo al piè Cerere aggiunse.
Notàro allor dall’ospite divina
Quelle figlie il lavoro; e a quanti appresso
La ricca Eleusi cittadini accolse
505Ne insegnàr l’uso; che mirabil parve
Rimedio agli egri; ed alla Dea libando
Le piene tazze, ne adornàr gli altari.
     Poichè giovenilmente a la mia fronte
Cinsi il Tritonio ulivo, e a quel leggiadro
510Del Vindelico cielo Astro Sereno
Mostrato ebbi, cantando, i porporini
Seggi delle Nereidi, e del lucente
Corallo i germi e le viventi fronde;
Per la chiara amistà che a te mi stringe,
515Egregio Tosi, e per l’amor che dolce
In sen mi parla delle agresti Muse,
Così cantai del gregge e de’ pastori.
E già nuovo pensier l’irrequïeto
Animo volge, e nella mente accolgo
520Nuovo Dirceo lavoro; a cui, d’elette
Rime porgendo le maestre fila,
Erato bella mi verrà. Cantando
Della tenera Psiche il pianto amaro,
E l’esilio infelice e la sventura

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525Che d’Amor la partía (quel dì che, punta
Di grave odio Ciprigna, la ravvolse
D’ogni miseria al fondo, e tanti mali
Adunò sul bel capo), util pietade
Ne verrà, spero, all’esule divina
530Dall’Itale donzelle, a cui d’amore
Preme lo imperio ne leggiadri ingegni.




f i n e.