La secchia rapita (1930)/Canto ottavo

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Canto ottavo

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Canto settimo Canto nono

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CANTO OTTAVO

ARGOMENTO

               Il corno manco alfin de’ Gemignani
          giugue a forza pugnando a’ suoi steccati.
          Vede Ezzelino in mostra i Padovani,
          ch’a danno de’ Petroni ha radunati.
          Fan tregua i campi: e con partiti vani
          son da Bologna ambasciator mandati,
          che di Renoppia fra i ricami e l’armi
          del cieco Scarpinello odono i carmi.


1
     Giá la luce del sol dato avea loco
a l’ombra de la terra umida e nera;
e le lucciole uscían col cul di foco,
stelle di questa nostra ultima sfera:
quando le trombe in suon giá lasso e fioco
a raccolta chiamâr da la riviera.
Usciro i fanti e i cavalier de l’onda,
e si ritrasse ognuno a la sua sponda:
2
     e quinci e quindi alzaro incontro al ponte
gli eserciti trinciere e padiglioni.
Tornaro in tanto di Miceno il conte
e Manfredi e Roldano, i tre campioni
che le bandiere de’ nemici conte
cacciate avean per boschi e per valloni;
e fu da loro in arrivando al lito
il suon de l’armi e de’ cavalli udito.

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3
     E poi che da le spie certificati
del vario fin de la battaglia fòro,
in dubbio se dovean per gli steccati
ripassar de’ nemici al campo loro,
o guazzando in disparte i lor soldati
ricondur cheti a ripigliar ristoro;
a guazzo al fin passâr fanti e somieri,
e al ponte si drizzâr co’ cavalieri.
4
     E dato aviso al Potta in diligenza
perché le sbarre a tempo e loco alzasse,
de le spoglie de’ vinti in apparenza
di ferraresi armâr la prima classe:
e acciò che l’arte lor maggior credenza
tra gl’inimici a l’arrivar trovasse,
quando lor parve esser vicini assai:
— Viva Frarra, gridâr, guardai, guardai.
5
     Gli abiti ferraresi e le favelle
nel fosco de la notte e ’n quel tumulto
ingannaron cosí le sentinelle,
che fu il pensier de’ valorosi occulto.
Giunti nel campo, alzâr fino a le stelle
i gridi e gli urli; e con feroce insulto
trasser le spade, e apersero il cammino,
dove piú il ponte a lor parea vicino.
6
     Eran confusi ancor gli alloggiamenti,
gli animi incerti e i corpi affaticati,
quando dal suon de’ minacciosi accenti
d’improviso terror fur saettati.
Come scossi dal ciel folgori ardenti,
venian di sangue e di sudor bagnati
Manfredi e ’l buon Voluce a la frontiera
e in ultimo Roldan chiudea la schiera.

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7
     Come pere cadean le genti morte
sotto il furor de le sanguigne spade.
Vede il conte Romeo ch’ad una sorte
pedoni e cavalier sgombran le strade;
onde il nipote suo Ricciardo il forte
chiamando, corre ove la gente cade:
ma l’impeto lo sbalza, e prigioniero
porta seco Ricciardo in su ’l destriero.
8
     Come suol nube di vapori ardenti
far ne’ campi talor strage e fracassi,
vomitando dal sen fulmini e venti,
e portar seco svelti arbori e sassi;
così porta il furor di que’ possenti
seco ogn’incontro ovunque volge i passi:
così, secondo i greci ciurmatori,
porta l’ottavo ciel gli altri minori.
9
     Giunto al Potta fra tanto era l’aviso,
e Gherardo su ’l ponte avea mandato:
ma fu l’arrivo lor tant’improviso,
che ’l ritrovaro ancor chiuso e sbarrato.
Quivi a Roldano fu il destriero ucciso,
e rimanea da tutti abbandonato,
se non si ritraean fuora del ponte
i due guerrier che combatteano in fronte.
10
     L’uno di qua, l’altro di lá si mosse
dove incalzar vedea l’ultima schiera,
e l’impeto in sé tolse e le percosse,
fin che tutti spuntâr su la riviera.
Gherardo in tanto al giugner suo rimosse
le sbarre, che piantate avea la sera,
e i suoi raccolse, e lasciò quei dal Sipa
con un palmo di naso a l’altra ripa.

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11
     De l’orribile pugna il gran successo
sparse intorno la fama in un momento;
onde ne giunse a Federico il messo,
che sospirò del figlio il duro evento.
Scrisse a gli amici, e maledí se stesso,
che fosse stato a quell’impresa lento;
ma sopra tutti scrisse ad Ezzelino,
che di Padova allor tenea il domino.
12
     Ezzelin, come udí che prigioniero
del suo signore era il figliolo, in fretta
armò le sue milizie; e fe’ pensiero
di farne memorabile vendetta.
Avea allor seco un principe straniero,
cui per fresco retaggio era suggetta
la nobil signoria de la Morea,
e a cui sposata una nipote avea.
13
     In tutto l’Oriente uom di piú core
di lui non era o di miglior consiglio.
Fu detto Eurimedonte: e ’l suo valore
fea tremar da l’Eusino al mar vermiglio.
Or a questi Ezzelin diede l’onore
di liberar di Federico il figlio:
e con piú ardor, quand’egli udí, si mosse,
ch’era infreddato e ch’egli avea la tosse.
14
     Dieci schiere ordinò, ciascuna d’esse
di ducento cavalli e mille fanti;
e ghibellini capitani elesse,
perché fosser piú fidi e piú costanti.
Musa, tu che migliacci e caldalesse
vendesti lor, déttami i nomi e i vanti,
che fèr dal piano a gli ultimi arconcelli
l’alta torre tremar de gli Asinelli.

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16
     Giá l’uscio aperto avea de l’oriente
la puttanella del canuto amante,
e ’n camicia correa bella e ridente
a lavarsi nel mar l’eburnee piante.
Spargeasi in onde d’oro il crin lucente,
parea l’ignudo sen latte tremante,
e a lo specchio di Teti il bianco viso
tingea di minio tolto in paradiso:
16
     quando a la mostra uscí tutta schierata
la gente. E prima fu l’insegna d’Este,
che l’aquila d’argento incoronata
portar solea nel bel campo celeste:
or d’uno struzzo bianco è figurata,
impresa del tiranno e di sue geste.
Di Sant’Elena il fiore indi seconda,
terra di rane e di pantan feconda,
17
     e Castelbaldo, a cui tributa rena
l’Adige che fa quindi il suo cammino.
Savin Cumani è il duce, e da l’amena
piaggia di Carmignano e Solesino
e dal Deserto e da Valbona mena
gente, dove costeggia il vicentino:
l’armi ha dorate, ne l’insegna al vento
spiega un nero leon sovra l’argento.
18
     Schinella e Ingolfo, onor di casa Conti,
gemelli e dal tiranno ambiduo amati,
da la Creola e da’ vicini monti
guidano dopo questi i lor soldati;
San Daniel, Baone, e le due fronti
che toccano del ciel gli archi stellati,
Venda e Rua, Montegrotto e Montortone
Gazzuolo e Galzignano e Calaone.

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19
     Abano va con questi in una schiera,
e quei di Montagnon seco conduce.
L’aria e la terra affumicata e nera
di sulfureo color gente produce.
Quivi l’orrendo albergo è di Megera,
che di foco infernal tutto riluce.
Se v’era Pietro allor, co’ fieri carmi
traeva i morti regni al suon de l’armi.
20
     A liste di color vermiglio e bianco
segnata de’ due conti è la bandiera.
Nantichier di Vigonza è loro al fianco,
e conduce con lui la terza schiera:
Vighezzolo e Vigonza e Castelfranco
seco ha in armi; e, di lá da la riviera
de la Brenta, le terre ove serpeggia
la ’Pergola e ’l Muson fremendo ondeggia.
21
     Camposanpier, Balò, Sala e Mirano,
Strá, la Mira, Oriago, il Dolo e Fiesso,
Arin, Caltana, Melareo, Stigliano,
e ’l popol di Bogione era con esso.
Ne lo stendardo il cavalier soprano
l’antico segno ha di sua schiatta impresso,
ch’una sbarra di vaio è per traverso
in campo d’oro, e ’l fregio è bianco e perso.
22
     Passa il quarto Inghelfredo, uomo che nato
d’ignota stirpe, e a ministerio indegno
da prima eletto, a poco a poco alzato
s’è per occulte vie con cauto ingegno.
Tesoriero fu dianzi; or è passato
a grado militar piú illustre e degno:
ma superbo al sembiante e al portamento,
sembra scordato giá del nascimento.

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24
     Dichiarato è baron di Terradura,
e la Battaglia va sotto il suo impero,
dove fa risonar l’antiche mura
l’incontro di due fiumi e ’l corso fiero:
tempestata di gigli ha l’armatura,
e un levriere d’argento ha su ’l cimiero:
e ’l tiranno Ezzelin l’ha fatto duce
del patrimonio suo, ch’egli conduce.
24
     Le bandiere d’Onara e di Romano,
quelle di Cittadella e Musolente
regge, e di Fontaniva e di Bassano
e de la Bolzanella arma la gente.
Va con questi Campese a mano a mano;
Campese la cui fama a l’occidente
e a’ termini d’Irlanda e del Catajo
stende il sepolcro di Merlin Cocajo,
25
     latino autor di mantuani versi,
per cui la donna sua Cipada agguaglia,
e i monti di Cucagna e i rivi tersi
levan la palma a quei de la Tessaglia.
Erano i campesani in Lete immersi,
or li solleva al ciel l’onda castaglia:
e forse ancor su questi scartafacci
faran del nome lor diversi spacci.
26
     Brunor Buzzaccarini è il quinto: e a gara
vanno seco Conselve e Bovolenta,
Are, Cona, Tribano e l’Anguillara
quei di Sarinasa e di Castel di Brenta,
di Pontelungo, e quei di Polverara,
dov’è il regno de’ galli e la sementa
famosa in ogni parte: e questa schiera
dogata a verde e bianco ha la bandiera.

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27
     L’altra che segue, ove congiunte a stuolo
vanno Pieve di Sacco e Saponara,
Montemerlo, Sanfenzo e di Brazolo
la gente, e seco in un Camponogara,
San Bruson e Cammin, guida un figliolo
de l’antico signor di Calcinara,
che Franco Capolista è nominato,
e porta un cervo rosso in campo aurato.
28
     De la Riviera e de la Mandra ha unite
ereditarie e bellicose genti.
Quelle di Paluello instupidite
fûro ad armarsi allor sí negligenti,
ch’eran le guerre giá tutte finite
quando spiegaron la bandiera ai venti:
onde i vicini lor ridono ancora
del soccorso che diêr que’ sciocchi allora.
29
     Con la settima squadra Aicardo passa
Capodivacca, e seco ha Montagnana;
Monterosso e Zoone a dietro lassa,
e guida Revolon, Torreggia e Urbana,
Meggiaino e Merlara in parte bassa,
Luvigliano piú in alto a tramontana,
Selvazzan, Saccolungo e Cervarese,
Saletto e Praia, e tutto quel paese.
30
     Ma di Teolo la famosa insegna
fra l’altre a grand’onor splender si vede;
Teolo ond’usci giá l’anima degna
che ’l glorioso Livio al mondo diede:
lo stendardo vermiglio Aicardo segna
di tre spade d’argento; e in guisa eccede
ogni altro coll’altezza de le membra,
ch’eccelsa torre in umil borgo ei sembra.

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32
     Vien poi Monselce, incontra l’armi e i sacchi
securo giá per frode e per battaglia,
sotto la signoria d’Alviero Zacchi,
e ’l popol di Casale e di Roncaglia.
Ha l’insegna costui dipinta a scacchi
azzurri e bianchi: e Gorgo e Bertepaglia
e Corneggiana e Montericco ha drieto
e Carrara e Collalta e Carpineto.
32
     Il nono duce Ugon di Santuliana
de le vicine ville avea la cura;
Terranegra conduce e Brusegana,
dove Antenore fe’ le prime mura,
Villafranca, Mortise e Candiana,
San Gregorio, Sant’Orsola e Cartura,
le Tombelle, Noventa e Villatora,
ed altre terre che Soriano allora:
33
     e de’ vassalli suoi non poca parte,
ché Pernumia e Terralba ei signoreggia,
e ’l bel colle d’Arquá poco in disparte,
che quinci il monte e quindi il pian vagheggia;
dove giace colui, ne le cui carte
l’alma fronda del sol lieta verdeggia;
e dove la sua gatta in secca spoglia
guarda dai topi ancor la dotta soglia.
34
     A questa Apollo giá fe’ privilegi
che rimanesse incontro al tempo intatta,
e che la fama sua con vari fregi
eterna fosse in mille carmi fatta:
onde i sepolcri de’ superbi regi
vince di gloria un’insepolta gatta.
Ugon su l’armi e ne la sopraveste
un pardo d’oro e ’l campo avea celeste.

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35
     La squadra di Vicenza ultima guida
Naimiero Gualdi, a la sembianza fuore
amico d’Ezzelin che se ne fida,
ma non risponde a la sembianza il core.
Quel campo non avea scorta piú fida,
d’ogni bellica frode era inventore;
ma facea ’l goffo, e si tenea col papa,
e ne la finta insegna avea una rapa.
36
     Egli era un uom d’anni cinquantadui,
dotto e faceto, e con le guance asciutte;
solito sempre a dar la baia altrui,
che sapea tutti i motti di Margutte.
Gran turba di villani avea con lui
con occhi stralunati e ciere brutte,
ch’armati di balestre e ronche e scale
nati a posta parean per far del male.
37
     Valmarana, Arcugnan, Pilla e Fimone,
Sacco e Spianzana guida; ove le chiome
de la Betia cantò su ’l Bachiglione
Begotto e ’l volto e l’acerbette pome,
e dove la sampogna di Menone
fe’ risonar de la Tietta il nome;
e Montecchio e la Gualda, Olmo e Cornetto,
e trenta ville e piú di quel distretto.
38
     Dopo l’ultime squadre il cavaliero,
che dovea comandar, solo veniva
sovra un baio corsier macchiato a nero,
con armi di color di fiamma viva:
ondeggiava su l’elmo il gran cimiero,
pompeggiando il caval se stesso giva,
e avea dietro e dinanzi e d’ambo i lati
greci per guardia e saracini armati.

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39
     Mentre s’armano questi a la vendetta
del famoso figliol di Federico,
l’un campo e l’altro su ’l Panaro aspetta
che stanco si ritiri il suo nemico.
Quinci e quindi si veglia; e a la vedetta
stanno continue guardie a l’uso antico
con archi e balestroni a canto a gli argini
che scopano del fiume i nudi margini.
40
     L’architetto maggior mastro Pasquino
fe’ molte botti empier di maccheroni,
altre di biscottelli, altre di vino;
e ne formò ripari e bastioni:
onde i soldati sempre a capo chino
stavano a custodir le guarnigioni,
fin ch’a trattar del fin de le contese
furon per dieci dí l’armi sospese.
41
     Ed ecco comparir due ambasciatori,
l’un con la veste lunga e incappucciato,
e l’altro in su le grazie e in su gli amori
con la spada e ’l pugnal tutto attillato:
il primo è del collegio e de’ signori,
e ’l dottor Marescotti è nominato;
il secondo di Rodi è cavaliero,
di casa Barzellin, detto fra’ Piero.
42
     Questi venian per ritentar se v’era
partito alcun di racquistar la secchia,
avendo udito giá per cosa vera
che’l tiranno Ezzelin l’armi apparecchia.
Furo onorati, e si fermâr la sera,
né trattâr piú de la proposta vecchia;
ma di cambiar la secchia in que’ baroni,
eccetto il re, ch’essi tenean prigioni.

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43
     Il Potta, che ’l disegno a’ cenni intese,
rispose lor ch’era miglior riguardo
finir tutte le liti e le contese,
e barattar la secchia col re sardo,
e ’l duca di Cremona e ’l gorzanese
col signor di Faenza e con Ricciardo:
e in questo si mostrò sí risoluto,
che d’ogni altro parlar fece rifiuto.
44
     Gli ambasciatori, a’ quali era prescritto
quanto dovean trattar, spediro un messo,
ch’andò dal campo a la cittá diritto
a ragguagliarne il Reggimento stesso:
e in tanto il figlio di Rangone invitto
e ’l buon Manfredi, a cui fu ciò commesso,
condussero a veder le lor trinciere
gli ambasciatori, e l’ordinate schiere,
45
     Menârgli a spasso poi, dove alloggiate
Renoppia le sue donne avea in disparte,
non quelle tutte, che con lei passate
erano pria, ma la piú nobil parte.
Stavano a’ lor ricami intente armate,
imitando Minerva in ogni parte:
ma lasciar gli aghi e fêr venire in tanto
il cieco Scarpinel con l’arpa e ’l canto.
46
     Questi in diverse lingue era eloquente,
e sapeva in ciascuna a l’improviso
compor versi e cantar sí dolcemente,
ch’avrebbe un cor di Faraon conquiso.
L’arpa al canto accordò subitamente;
e poi che fu d’intorno ognuno assiso,
col moto della man ceffi alternando,
incominciò così tenoreggiando.

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47
     — Dormiva Endimion tra l’erbe e i fiori
stanco dal faticar del lungo giorno,
e mentre l’aura e ’l ciel gli estivi ardori
gli gian temprando e amoreggiando intorno,
quivi discesi i pargoletti Amori
gli avean discinta la faretra e ’l corno,
ch’ai chiusi lumi e a lo splendor del viso
fu loro di veder Cupido aviso.
48
     Sventolando il bel crine a l’aura sciolto,
ricadea su le guancie in nembo d’oro:
v’accorrean gli Amoretti, e dal bel volto
quinci e quindi il partian con le man loro;
e de’ fiori, onde intorno avean raccolto
pieno il grembo, tessean vago lavoro,
a la fronte ghirlanda, al piè gentile
e a le braccia catene, e al sen monile.
49
     E talor pareggiando a l’amorosa
bocca o peonia o anemone vermiglio,
e a la pulita guancia o giglio o rosa,
la peonia perdea, la rosa e ’l giglio.
Taceano il vento e l’onda; e da l’erbosa
piaggia non si sentia mover bisbiglio:
l’aria e l’acqua e la terra in varie forme
parean tacendo dire: «Ecco, Amor dorme».
50
     Qual ne’ celesti campi ove il gran Toro
s’infiamma ai rai di luminose stelle,
sogliono sfavillar con chioma d’oro
le figliole d’Atlante, alme sorelle;
ch’a la maggiore e piú gentil di loro
brillando intorno stan l’altre men belle:
tal in mezzo agli Amori Endimione
parea tra l’erbe e i fior de la stagione.

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51
     Quando la bella dea del primo cielo
tutta cinta de’ rai del morto sole,
a la scena del mondo aprendo il velo,
le campagne mirò tacite e sole:
e sparsa la rugiada e scosso il gielo
dal lembo sovra l’erbe e le viole,
a caso il guardo in quella piaggia stese,
e vaga di veder dal ciel discese.
52
     Sparvero i pargoletti a l’apparire
de la dea spaventati; ed ella, quando
vide il giovane sol quivi dormire,
ritenne il passo e si fermò guardando.
L’onestá virginal frenò l’ardire:
e ne gli atti sospesa, e vergognando,
avea giá per tornare il piè rivolto;
ma richiamata fu da quel bel volto.
53
     Sentí per gli occhi al cor passarsi un foco
che d’un dolce desio l’alma conquise:
givasi avicinando a poco a poco,
tanto ch’ai fianco del garzon s’assise;
e di que’ vaghi fior, ch’avean per gioco
gli Amoretti intrecciati in mille guise,
s’incoronò la fronte e adornò il seno,
che tutti fûr per lei fiamma e veleno.
54
     Trassero i fior la man, la mano i baci
a le guance, a le labbra, a gli occhi, al petto,
che s’impresser sí vivi e sí tenaci,
che si destò smarrito il giovinetto.
Al folgorar de le divine faci
tutto tremò di riverente affetto;
e ad atterrarsi giá ratto surgea,
s’ella non l’abbracciava e nol tenea.

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32
     — Anima bella, disse, e dormigliosa,
che paventi? che miri? I’ son la Luna,
ch’a dormir teco in questa piaggia erbosa
amor, necessitá guida e fortuna.
Tu non ti conturbar: siedi e riposa;
e nel silenzio de la notte bruna
pensa occultar l’ardor ch’io ti rivelo,
od isperimentar l’ira del cielo. —
56
     — O pupilla del mondo, in cui la face
del sol s’impronta, pastorello indegno
son io, disse il garzon; ma se ti piace
trarmi per grazia fuor del mortai segno,
vivi sicura di mia fé verace;
e questo bianco vel te ne sia pegno,
ch’a mia madre Calice Etlio giá diede,
mio padre, in segno anch’ei de la sua fede. —
57
     Cosí dicendo, un vel candido schietto,
che di gigli di perle era fregiato,
e ’l tergo in un gli circondava e ’l petto
giú da la spalla destra al manco lato,
porse in dono a la dea; ch’ogni rispetto
giá spinto avea del cor tutto infiammato,
e, come fior che langue allor ch’aggiaccia,
si lasciava cader ne le sue braccia.
58
     Vite cosí non tien legato e stretto
l’infecondo marito olmo ramoso,
né con sí forte e sí tenace affetto
strigne l’edera torta il pino ombroso;
come strigneansi l’uno all’altro petto
gli amanti accesi di desio amoroso:
saettavan le lingue in tanto il core
di dolci punte, che temprava Amore.

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59
     Cosí mentre vezzosi atti e parole
guardi, baci, sospiri e abbracciamenti
facean dolcezze inusitate e sole
agli amanti gustar lieti e contenti;
levò la diva l’uno e l’altro sole,
accusando le stelle e gli elementi,
poiché con tanti e con sí lunghi errori
seguite avea le fiere e non gli amori.
60
     — Misera me, dicea, quant’error presi
quel dí ch’io presi l’arco e ’l bosco entrai!
Quant’anni poscia ho consumati e spesi,
che di ricoverar non spero mai!
O passi erranti e vani e male intesi,
come al vento vi sparsi e vi gettai!
Quant’era meglio questi frutti côrre,
ch’a rischio il piè dietro a le belve porre!
61
     Or conosco il mio fallo, e farne ammenda
vorrei poter; ma il ciel non me ’l consente:
restami sol che del futuro i’ prenda
pensier, di cui mai piú non sia dolente.
Però l’aria, la terra e ’l mare intenda
quel che di terminar giá fisso ho in mente,
e la legge, ch’io fo, duri col sole
sovra me stessa e la femminea prole.
62
     Io stabilisco che non copra il cielo,
ch’io governo, mai piú femmina bella
(eccetto alcune poche ch’io mi celo,
che fien di me maggiori e d’ogni stella),
che sopporti con casto e puro zelo
finir la vita sua d’amor ribella,
e che stia intatta di sí dolce affetto,
se non mentitamente o al suo dispetto. —

[p. 151 modifica]

63
     Volea l’orbo seguir, come dolente
tornò la diva a la sua bella sfera;
se non che lo mirò di sdegno ardente
Renoppia, e in voce minacciosa e altera,
— Accecato de gli occhi e de la mente,
brutta effigie, gli disse, anima nera,
va’, canta a le puttane infami e sciocche
queste tue vergognose filastrocche,
64
     E se vuoi ch’io t’ascolti e che il tuo canto
ritrovi adito piú per queste porte,
cantami di Zenobia il pregio e ’l vanto
o di Lucrezia l’onorata morte. —
Il cieco allor stette sospeso alquanto;
poscia in tuono di guerra assai piú forte
l’amor di Sesto e gli empii spirti ardenti
incominciò a cantar con questi accenti:
65
     — Il re superbo de’ romani eroi
a la regia di Turno il campo avea,
e con fanti e cavalli e servi e buoi
di trinciere e di fosse ei la cingea,
Eran con lui tutti i figlioli suoi:
e quivi si mangiava e si bevea
con gusto tal, che il dí di san Martino
bebbero in sette un carratel di vino.
66
     Finito il vin, nacque fra lor contesa
chi avesse moglie piú pudica a lato:
e perch’ognun volea per la difesa
combatter de la sua ne lo steccato,
per diffinir la strana lite accesa,
di consenso comun fu terminato
di montar su le poste allora allora,
e andarsene a chiarir senza dimora.

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67
     Non s’usavano allor staffe né selle:
e quei signor con tanto vino in testa
correndo a lume di minute stelle,
ebbero a rimaner per la foresta.
Chi perdé il valigino e le pianelle,
chi stracciò per le fratte la pretesta,
chi rese il vino per diversi spilli,
e chi arrivò facendo billi billi.
68
     Era con lor Tarquino Collatino
che la moglie Lucrezia avea a Collazia.
Ei non era fratel, ma consobrino
e lor parente di cognome e grazia.
Tutti in corte smontar su ’l Palatino
e le mogli trovâr, per lor disgrazia,
che foco in culo avean piú ch’un Lucifero
e stavano ballando a suon di piffero.
69
     Fecero una moresca a mostaccioni,
la piú gentil che mai s’udisse in corte
e trovate al camin starne e capponi,
verso Collazia ne portar due sporte.
Giunti colá, di spranghe e di stangoni
d’ogni parte trovâr chiuse le porte;
e bussaron piú volte a l’aer bruno,
prima che desse lor risposta alcuno.
70
     Una schiavetta al fine in capo a un’ora
affacciatasi a certe balestriere,
e spinto un muso di lucerta fuora,
disse: — Chi bussa lá? Non c’è Messere. —
— C’è pur, rispose il Collatino allora,
venite a basso e vel farem vedere. —
Riconobbero i servi a quelle voci
il padrone, e ad aprir corser veloci.

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32
     Lucrezia venne in sala ad incontrarlo
con la conocchia senza servidori;
tutta lieta venia per abbracciarlo,
ma vedendo con lui tanti signori,
trasse il pennecchio, ché volea occultarlo,
e dipinse il bel volto in que’ colori
ch’abbelliscon la rosa, e fe’ chiamare
le donne sue che stavano a filare.
72
     Di consenso comun la regia prole
diede il vanto a costei di pudicizia.
Dormiron quivi, e a lo spuntar del sole
ritornarono al campo e a la milizia.
Ma la bella sembianza e le parole
rimasero nel cor pien di nequizia
del fiero Sesto, un de’ fratelli regi,
e le caste maniere e gli atti egregi.
73
     Onde il dí quinto ripassando il monte
tornò a Collazia sol, lá dov’ella era;
e giunto a rimbrunir de l’orizonte
disse ch’ivi alloggiar volea la sera.
La bella donna, non pensando a l’onte
ch’ei preparava, gli fe’ lieta ciera.
La notte il traditor saltò del letto,
e a la camera sua corse in farsetto.
74
     E la porta gittò mezzo spezzata,
entrando col pugnal ne la man destra.
Quivi una vecchia, che dormia corcata
in un letto di vinco e di ginestra,
incominciò a gridar da spiritata,
ond’ei la fe’ balzar per la finestra:
ed a Lucrezia, che facea schiamazzo,
disse: — Mettiti giuso, o ch’io t’ammazzo. —

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75
     A questo dir chinò Renoppia bella
prestamente la man con leggiadria,
e si trasse di piede una pianella:
ma l’orbo fu avvisato, e fuggí via.
S’alzaron que’ signor ridendo; ed ella
gli ringraziò di tanta cortesia,
e con maniera signorile e accorta
gli andò ad accompagnar fino a la porta.