La tempesta (Shakespeare-Maffei)/Atto quinto

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Atto quinto

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William Shakespeare - La tempesta (1611)
Traduzione dall'inglese di Andrea Maffei (1869)
Atto quinto
Atto quarto
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ATTO QUINTO




SCENA I


Rimpetto la grotta di Prospero

Entrano PROSPERO col suo mantello magico

ed ARIELE


                       prospero.
Il mio disegno non fallì: mancate
Le malie non mi sono, obbedïenti
Mi fur gli Spirti, e col suo carro il Tempo
Va per dritto cammin. Dimmi, a qual ora
Siam del giorno?

                        ariele.
                         Alle sesta: ora prefissa
Da te, Signor, pel termine dell’opre
Nostre.

                       prospero.
                  Prefissa già l’avea nel punto
Che destai la procella.... E che ne avvenne
Del re? de’ suoi seguaci? A me rispondi,
Spirto.

                        ariele.
              Come ingiungesti, e come furo
Da te dianzi lasciati, in quel cedreto,

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Schermo contro il mal tempo alla tua grotta,
Tutti son prigionieri; e mover passo,
Se non li sciogli, non potranno. Alonso,
Il suo fratello, il tuo par che smarrita
Abbiano la ragion; gli altri son pieni
Di dolor, di sgomento; e più d’ogni altro
Quegli, o Signor, che il buon vecchio Gonzalo
Suoli appellar. Dagli occhi un largo pianto
Sulla candida barba a lui discende,
Come pioggia invernal dalle cannucce
D’una tettoja. ― Oprò con tale e tanta
Virtù l’incantagion, che ne saresti,
Veggendoli, di certo, intenerito.

                       prospero.
Spirto, lo pensi tu?

                        ariele.
                              Se un uomo io fossi,
Tal sarei.

                       prospero.
                  Tu di vano aer composto
Senti viva pietà del loro affanno,
Ed io sentirla non dovrei che sono
Della stessa natura, ed al bisogno
Stesso di compatir le altrui sventure
Soggetto al par di loro? È ver, trafitto
M’ha nella parte più vital l’offesa
Che mi recàr; ma contro alle lusinghe
Della vendetta la ragione opposi;
Perchè più bello e nobile è il compenso
D’un’opra virtuosa: e poi pentiti

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Non sono? Il fin che mi proposi è giunto,
Nè lo sdegno mi debbe il sopraciglio
Più corrugar. Va, Spirto, e li disciogli.
Sfar l’incanto io decisi, i sensi loro
Liberar dal letargo, e l’intelletto,
Come pria, risvegliarne.

                        ariele.
                                        A te li guido.
                         (Parte)

                       prospero.
Voi, de’ colli, de’ laghi e delle selve,
Silfidi abitatrici, e voi, voi pure
Che vi godete d’inseguir sul lido,
Col piè che nell’arena orma non lassa,
Il fuggente Nettuno, e se ritorna
Gli date, in corsa paurosa, il dorso,
E voi che descrivete a’ rai di luna,
Spiritelli minuti, i cerchi amari
Onde il prato s’imbeve, ed a quell’erba
Nè pecora, nè zeba il dente accosta;
E voi che per trastullo uscir di notte
Fate il fungo di terra, ed esultate
Quando suona la squilla il coprifoco,
Voi che fiacchi bensì, ma pur soccorso
Bastevole mi foste; e per la vostra
Poca virtù velai la faccia al sole
Nel pien meriggio, scatenai la rabbia
De’ venti, e tra la verde onda del mare
E il glauco aere del ciel, della battaglia
L’ululo suscitai, le fiamme accesi

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Al terribile tuon che col potente
Scoppio la quercia dell’Egioco atterra,
Feci i monti tremar su’ lor profondi
Fondamenti, l’abete, il faggio, il cedro
Svelsi dalle radici; e fin le tombe
Spalancai con un cenno, ed i dormenti,
Svegli dall’arte mia, balzàr di novo
Alla luce del dì; voi tutti udite!
Giuro di qui lasciar questi infernali
Prestigi; e poi che desta una divina
Musica avrete che ridoni il senno
A questi sciagurati, e sia raggiunto
Quel fin che cogl’incanti io mi proposi,
Giuro spezzar la verga mia, nel suolo
Più cubiti affondarla, e il mio volume
Sommergere ne’ flutti ove non giunse
Scandaglio mai.
                    (Musica solenne.)

ARIELE ritorna. Lo seguono ALONSO con atti da
    forsennato, indi GONZALO, SEBASTIANO,
    ANTONIO esso pure con gesti frenetici; finalmente
    ADRIANO e FRANCESCO. Entrati nel cerchio
    magico, descritto prima da Prospero, vi ri-
    mangono immobili per virtù dell’incanto.

                       prospero.
               (dopo averli contemplati).
                           La grave, mäestosa
Musica medicina alla demenza

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Miglior d’ogni altra, acqueti il lor cerèbro.
Vano e bollente nel suo cranio. ― Immoti
Statevi là dal laccio avviluppati
Della magia. ― Gonzalo! Oh, senza esempio
Venerabile, probo, ottimo vecchio!
Nel fisar gli occhi tuoi di tale affetto
S’empiono i miei, che lagrime sorelle
Alle tue van piovendo. È tardo a sciorsi
L’incanto; e come l’alba a poco a poco
Pènetra nella notte e l’ombre fuga;
L’intelletto così, che già riprende
La sua ragion, le tènebre dissìpa
Che chiuso lo teneano e rabbujato.
Mio vero salvator, mio buon Gonzalo,
Ed amico leal del tuo Signore,
Reduce ch’io sarò nella mia terra,
Di parole e di fatti avran mercede
I tuoi pietosi beneficj. ― Alonso!
Con me, colla mia figlia incrudelisti,
Ed all’opra crudel fu tuo fratello
Di te più tristo, istigator. Ben dura,
Oggi, Sebastïan, ne fai l’emenda! ―
E tu, mia carne e sangue mio, fratello!
Tu che la coscïenza e la natura
Per sete di dominio hai vilipese,
E coll’ajuto di costui
                (accenna Sebastiano)
                                 (che doppio
Strazio or ne sente) uccidere volevi
Pur dianzi il tuo Signor, che mai dovresti

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Dal mio sdegno aspettar? Ma ti perdono,
Disumano qual sei. ― Già già comincia
L’onda del senno a rifluir; tra poco
Le spiagge coprirà, melmose ancora,
Della ragion. Nessun fin qui mi guarda,
Nessun mi riconosce. ― Entra, Ariele,
Tosto nella mia grotta, e qui mi porta
Spada e cappel. Cangiar di panni io voglio,
E, qual era in Milano, agli occhi loro
Manifestarmi. Affrettati, o mio Spirto;
Libero in breve ti farò.
                      (Ariele parte.)

                        ariele.
(ritorna, e mentre ajuta Prospero a cambiar vesti, canta).
«Come l’ape io suggo il fiore;
Caro tetto
M’è la gemma del mughetto;
E nell’ore
Che la Strige il suo lamento
Fa sentirmi, io m’addormento.
Se l’estate addio ne dice,
D’una nottola sul tergo
Le vo dietro e muto albergo.
In brev’ora
(Me felice!)
Vita libera, gioconda
Ne’ boschetti io condurrò.
Per dimora
Voglio scegliermi una fronda
E su lei dondolerò.»

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                       prospero.
Il mio caro Arïele! Oggi io ti perdo,
Ma tu guadagnerai la sospirata
Libertà. Sì, sì, sì! Vanne al reale
Naviglio in questa non visibil forma;
Troverai quella gente in grave sonno
Sepolta. Il Capitano ed il Nostromo
Sveglia, e guidali a me quanto più ratto
Sai tu.

                        ariele.
                L’aria io divoro, e pria che il polso
Ti ribatta son qui.
                        (Parte.)

                       gonzalo.
                            Scompiglio, angoscia,
Raccapriccio, stupore in ogni loco!
Oh lungi da quest’isola infelice
Trafugar ne volesse un qualche arcano
Poter!

                       prospero.
                       (ad Alonso).
               Mirami, o re! Nel tuo cospetto
Sta Prospero, il tradito, l’oltraggiato
Principe di Milano. A farti certo
Che ti parla un vivente, ecco io t’abbraccio.
Sii tu, siate voi tutti i qui ben giunti.

                       alonso.
Se tu sei vera forma, o vano spettro
Dal prestigio creato ad abbagliarmi,
Non so. Ma batte la tua vena, hai carne,

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Sangue hai tu come un uomo; e dal mio core,
Dacchè ti veggo, allevïarsi io sento
La grave oppressïon che minacciava
Condurmi alla follìa. Se questo incanto
Non è, gli eventi naturali eccede.
Abbiti il tuo Ducato, e mi perdona.
Ma come avvien che Prospero qui viva?
Che Prospero sia qui?

                       prospero.
                               Pria le mie braccia
Chiudano, egregio amico, il tuo canuto
Capo. Non ha confin, non ha misura
La tua virtù.

                       gonzalo.
                     Se false o vere cose
Veggano gli occhi miei giurar non oso.

                       prospero.
Dai prestigi dell’isola confuso
Tu sei così, che pure a quanto è vero
Fede alcuna non dài. ― Ben giunti, amici!
                (ad Antonio e Sebastiano)
Io potrei, se il volessi, o coppia degna,
Corrucciar contro voi del re lo sguardo,
Dicendovi sleali e traditori;
Ma l’ora a ciò non è.

                      sebastiano.
                                    Per quella bocca
Parla il demòn.

                       prospero.
                        T’inganni!

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                      (Ad Antonio.)
                                       A te mi volgo
Ora, o più tristo d’ogni tristo! a te
Che senza tema d’attoscarmi il labbro
Dir fratello non posso. Alle tue colpe
Nondimeno io perdono; e ciò soltanto
Che negar, pur volendo, a me non puoi,
Ti raddomando: il mio ducato!

                       alonso.
                                            Oh dunque,
Se Prospero sei tu, di’ per che modo
La tua vita salvasti, e qui, su questa
Isola ti trovammo, ove sbattuti
Dalla procella e naufraghi, la sponda
(Tre sole ore saran) noi pur toccammo;
Ed ove il figlio mio.... M’è strale al core
Questo pensiero!... il mio caro Fernando
Per sempre, oimè, perdei!

                       prospero.
                                      Ben ti compiango,
Signor!

                       alonso.
                 Questa mia perdita riparo
Non ha, nè per tal piaga ha medicina
L’umana pazïenza.

                       prospero.
                             Io penso invece
Tu non l’abbia invocata. Anch’io percosso
D’una perdita eguale, a lei mi volsi,
La richiesi d’ajuto, e mi fu larga
Di conforto.

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                       alonso.
                   Te pure una sventura
Colpì pari alla mia?

                       prospero.
                                Recente e grave
Così come la tua, nè gli argomenti
Trovo che te consolano, per farmi
Meno acerbo il dolor. La figlia mia
Perdei!

                       alonso.
                La figlia tua?... Perchè non sono
Vivi in Napoli entrambi, e re mio figlio
E tua figlia regina! Oh come dolce
Mi sarebbe giacer, pur che ciò fosse,
Sul letto limaccioso, ove il mio caro
Fernando or giace! E quando hai tu perduta
La figlia?

                       prospero.
                  Io la perdei negli scompigli
Del recente uragan. ― Ma stupefatti
Tutti io miro così, per l’inatteso
Nostro rincontro, che temer mi fate
Nova follia. Più fede in voi non vive
Che veggiate cogli occhi aspetti veri,
Che sia la voce natural respiro.
V’assecuro però, benché smarrito
Fosse per alcun tempo il senno vostro,
Che Prospero son io, quell’infelice
Repulso da Milan, che sulla spiaggia
Di quest’isola ignota, ove gittati

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Foste voi, per miracolo discese,
E signor se ne fece. A questo cenno
State paghi per ora. È storia, amici,
Per molti dì, non piccolo racconto
Da farsi al pasto mattutin, nè tema
Per un primo ritrovo.
                      (Ad Alonso.)
                                     Il benvenuto
Tu qui sei, mio Signore. In quella grotta
Sta la mia reggia, e dentro ha pochi servi,
Nïun suddito fuor. Lo sguardo, o Sire,
Volgivi, prego; e dacchè vuoi ripormi
Nel mio ducato, il don con altro eguale
Ricambiar mi propongo; o, se non tanto,
Offrire agli occhi tuoi tal meraviglia,
Che gradita a te sia come il promesso
Ducato a me.

Il varco della grotta si dilata e ne lascia vedere
    l’interno. FERDINANDO e MIRANDA vi stanno
    giocando agli scacchi

                       miranda.
                      M’inganni!...

                      ferdinando.
                                           Io? Nol farei,
Cor mio, per tutto il mondo.

                       miranda.
                                            Oh sì! per venti

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Regni tu lo faresti, ed io leale
Direi quel gioco tuo.

                       alonso.
                                Se quanto io veggo
Dell’isola è un fantasma, un’altra volta
Perdo mio figlio.

                      sebastiano.
                          Affè, meravigliosa
Visïon!

                      ferdinando.
                  (accorgendosi del padre).
                Formidabili son l’onde,
Ma non senza pietà. Fui bene ingiusto
Quando a lor maledissi.
                (Si getta a’ piedi d’Alonso.)

                       alonso.
                                    Oh quanto un padre
Benedir può nel gaudio il figlio suo,
Sii benedetto! Sorgi e narra il come
Salvo uscisti dal mare.

                       miranda.
                                 O quai gentili
Crëature vegg’io! Come mai belli
Gli uomini son! Felice il novo mondo
Con tali abitatori.

                       prospero.
                           È novo, o figlia,
Solo per te.

                       alonso.
                    Chi, figlio, è la donzella

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Che teco or or giocava? È conoscenza
Ben recente la tua. La diva è forse
Che n’ha divisi ed or congiunti?

                      ferdinando.
                                               Umana,
Padre, ell’è come noi; ma per decreto
D’immortal Provvidenza a me concessa.
Quand’io l’ho fidanzata ah! non potea
Chiedere il tuo consenso: orbo di padre
Mi stimai. Figlia ell’è di quell’illustre
Principe di Milano, ond’io gran cose
Seppi, ma di sembianza erami ignoto.
Una vita seconda ebbi da lui,
E da questa donzella un altro padre.

                       alonso.
E padre io pure le sarò. Ma novo
Ben parer vi dovrà che ad una figlia
Chiegga il padre perdon.

                       prospero.
                                      Non più, Signore!
Con passate amarezze il nostro riso
Non attristiam.

                       gonzalo.
                      Mi chiusi il pianto in core,
Per questo io non parlai. ― Potenze eterne,
Che per oscura via qui ne traeste,
Deh lo sguardo inchinate a quest’eletta
Coppia, ed un serto benedetto in cielo

[p. 374 modifica]

Mandatele quaggiù!

                       alonso.
                              Così pur sia,
Gonzalo!

                       gonzalo.
                  Il duca di Milan cacciato
Sol perche la sua prole al regal soglio
Di Napoli ascendesse? Ah, tanta gioja
D’ immenso tratto le comuni avanza!
Sculto a lettere d’ or sopra colonne
Incrollabili sia che un sol viaggio
Die’ sul lido africano a Claribella
Lo sposo, al fratel suo (che già perduto
Fuor di speranza si tenea) la sposa,
A Prospero il Ducato in una ignota
Isola; ed a noi tutti il sentimento,
Quando più ne fallia la conoscenza
Di noi medesmi.

                       alonso.
               (a Ferdinando e Miranda).
                        Figli miei! Le vostre
Mani! Possa il dolor, possa la cura
Rodere eternamente il cor dell’ uomo
Che a voi non benedica!

                       gonzalo.
                                 E cosi sia.

[p. 375 modifica]

Ritorna ARIELE, nella sua forma invisibile, col
    CAPITANO e col NOSTROMO, che attoniti lo
    seguono.

Guarda, guarda, mio re! Son pur de’ nostri
Color che si fan presso. lo fui profeta
Quando ti presagia che un tal ribaldo
Non morrebbe sul mar, fin che da terra
Si levasse una forca! — O che! sei muto,
Bestemmiator? Tu, tu che dal vascello,
Con sacrilega lingua, allontanavi
La grazia del Signor? Sul fermo suolo
Piu bestemmie non hai? non hai più bocca?
Or via! che nuove arrechi?

                       nostromo.
                                           Innanzi tratto
La prima e la miglior: qui sano e salvo
Troviamo il nostro re con tutti i suoi;
Quest’ altra poscia: il legno, or fan poch’ore
Da noi creduto nell’ onde sommerso,
Novo, integro è cosi, cosi guernito
Com’ era al giorno the salpammo.

                        ariele.
                       (a Prospero).
                                                 Io feci
Tutto questo, o Signor, nel breve tempo
Che da te mi scostai.

                       prospero.
                                   Mio caro Spirto!

[p. 376 modifica]

                       alonso.
Qui prodigio a prodigio ognor s’ aggiunge!
                      (Al Nostromo.)
A noi chi vi guidò?

                       nostromo.
                              Se desto, o Sire,
Credere mi potessi, io d’ appagarvi
Mi proverei. Noi tutti in braccio al sonno
Giacevamo a ridosso (e dirvi il come
Non so) pigiati nella stiva. Un tuono
(E pur or ciò seguì) confuso a grida,
A muggiti, a stridor di conquassate
Catene e d’ altri orribili fragori
D’ un tratto ci svegliò. Liberi, freschi
Sul càssero balziamo, e con profondo
Stupor vi ritroviam la nostra bella
Regal nave arredata e tutta in punto
Qual era pria. Saltella il Capitano
Pari a giovine daino, e noi (vi prego
Di crederlo, o Signor) fummo dagli altri
In un attimo svelti e come in sogno
Portati qui.

                        ariele.
                 (a Prospero in disparte).
                   Signor, mi lodi o biasmi?

                       prospero.
Sta ben, mio prode Spirto. In picciol’ ora
Godrai la libertà.

                       alonso.
                        Mai laberinto

[p. 377 modifica]

Più di questo intricato i pie’ dell’ uomo
Non traviò. Qui certo alcuna possa,
Che sulla legge natural s’ innalza,
Tiene il fren degli eventi, e sol potria
Darvi luce un oracolo.

                       prospero.
                                  La mente,
Sire, non tormentar con tali inchieste.
Ad agio (e l’ora non sarà lontana)
Chiarir le inesplicabili avventure
Di questo giorno ti prometto; e giusto
Ti parrà che a te solo io ciò riveli.
Tranquillo intanto aspetta, e d’ alcun male
Non sospettar.
                  (Ad Ariele sommesso.)
                       T’ accosta! A scior l’incanto
Va’ tosto, e Calibano ed i compagni
Rimetti in libertà.
                 (Ariele parte. Ad Alonso.)
                           Sei pago, o Sire?
Or non manca de’ tuoi fuor che una coppia
Di poveri scempiati, a cui la mente
Forse non dài.

ARIELE ritorna conducendo CALIBANO, STEFANO
    e TRINCULO vestiti degli abiti rubati.

                       stefano.
                      Pensar dee l’ uomo agli altri
E non a sè; però che tutto è caso,

[p. 378 modifica]

Tutto cieca fortuna. Orsù, spavaldo
D’un animal, fa’ core! Ove bugiarde
Non sieno quelle spie che porto in fronte,
Veggo una vista grazïosa.

                       calibano.
                                         O quanti
Leggiadrissimi Spirti, o dio Setebo!
Ve’ com’è bello il mio Signor!... Ma tremo
Del suo castigo.

                      sebastiano.
                          Ah, ah, messer Antonio,
Che roba è quella mai? La si potrebbe
Per denaro acquistar?

                       antonio.
                              Che sì, mi pare.
È pesce uno di lor, da cima a fondo
Pesce, e merce vendibile presumo.

                       prospero.
Osservatene i panni, e poi mi dite
Se costor sieno onesti. A quel deforme
Mariuol genitrice era una strega,
E potente così che fin la luna
Le soggiacea; talchè senza l’influsso
Di quel pianeta la marea destava.
Tutti e tre m’han rubato, e quest’impasto
D’umano e d’infernal (chè spuria prole
Del demonio è colui) con essi avea
La mia morte tramata. A te, di questi,
Due son noti, e son tuoi; quell’altro, infame
Parto delle tenèbre, a me pertiene.

[p. 379 modifica]

                       calibano.
Strazïar mi vorrà fin che mi scoppi
L’anima.

                        alonso.
                   Oh! non è Stefano ch’io veggo?
Quel mio beone cantinier?

                      sebastiano.
                                        Briaco
Pure in quest’ora. Ov’abbia il vin trovato,
Non so.

                        alonso.
                 N’è cotto morto anche Trinculo,
E pencola sui pie’. Come scovaro
Lo stupendo elisir che i volti loro
Cosi ben indorò?... Ma chi, Trinculo,
T’ha concio in guisa tal?

                       trinculo.
                                   Poi che diviso
Venni, o Sire, da te, così m’han concio;
E credo che durevole ricordo
N’avran queste ossa mie per tutta intera
La vita. Or che mi pungano le mosche
Non avrò più paura.

                      sebastiano.
                              E tu, che soffri,
Stefano?

                       stefano.
                  Non toccatemi! Non sono
Stefano più, ma il granchio!

                       prospero.
                                           E pur volevi

[p. 380 modifica]

Farti re di quest’isola.

                       stefano.
                                      De’ granchi
Fatto il re mi sarei.

                       antonio.
                 (additando Calibano).
                                 Poffare il mondo!
Cosa più nova e singolar di questa
Da che vivo io non vidi.

                       prospero.
                                      Ha sconcio il core
Come le membra.
                       (A Calibano.)
                                 Scostati, ributto
Di Strega! In compagnia de’ tuoi seguaci
Entra nella mia grotta, e, se ti curi
Del mio perdon, la metti in buono assetto.

                       calibano.
Obbedirò. Con novi e ben diversi
Costumi in avvenir la grazia tua
Spero riguadagnar. — Tre volte ciuco
Fui nel credere un dio questo beone,
Nell’adorare un pazzo tal!

                       prospero.
                                           Ti scosta
Di qui!

                        alonso.
                 Riporterete ove trovaste
Quegli arredi, o più tosto ove rapiti

[p. 381 modifica]

Dianzi gli avete.
     (Calibano, Stefano e Trinculo partono.)

                       prospero.
                          Sire! Entrar ti piaccia
Co’ tuoi nella mia povera capanna,
Ove riposerai per questa notte
Sola: ed acciò men lenta ella ti scorra
Di cose parlerò che noja, io spero,
Non ti denno recar. La storia intendo
Della mia vita, dacchè posi il piede
Su quest’isola, e i vari e strani casi
Tollerati da me. Col novo giorno
La nave ascenderemo, e teco, o Sire,
A Napoli verrò; là, mi confido
Veder di questi giovani amorosi
Celebrarsi il connubio, indi a Milano
Tornarmene diviso, ove il mio terzo
Pensier sarà la tomba.

                        alonso.
                                  Assai mi tarda
Saper de’ casi tuoi, chè gran diletto
Dal lor racconto mi verrà.

                       prospero.
                                  Li udrai
Tutti da me: poi mare io ti prometto
Tranquillo, aura seconda e gonfie vele,
Che di qui porteran velocemente
La tua nave real.
                       (Ad Ariele.)
                           Questa fatica

[p. 382 modifica]

Ultima a te confido, o mio gentile
Augellin! poi ti mesci agli elementi
In piena, eterna libertà. Per sempre
Vale, Ariel! — Signori! entrar vi piaccia.

                      EPILOGO

               recitato da prospero.

   Se ne andaro gl’incanti e le malie,
E sole mi restàr le forze mie;
   Però fiacche così che in tal momento,
Con vostro pieno e libero talento,
   Qui lasciar mi potete o trarmi insieme
A Napoli con voi. Ma pure ho speme
   Che la vostra potente incantagione
Non mi voglia far oggi una prigione
   Di quest’isola ingrata; oggi che il trono
Ducal racquisto, e al traditor perdono.
   Anzi mi presterete il vostro braccio
Con animo cortese a sciormi il laccio.
   Perchè sol di piacervi amo e desio
Spiri ii vostro favore al legno mio,
   Chè Spirti or più non tengo a’ miei servigi,
Nè più fattucchierie, nè più prestigi;
   E dovrei disperato uscir di vita,
Se la preghiera non mi desse aita;1

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   Quella preghiera che va dritta al core,
E pia riparatrice è dell’ errore.
   Qual dunque la sperate ai vostri falli,
Deh, la vostra indulgenza a’ miei non falli!

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  1. Allude alla credenza di quei tempi, che coloro i quail s’erano dati alle malie sarebbero senza redenzione, se la preghiera dei buoni amici non li avesse soccorsi.