Le massere/Nota storica
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NOTA STORICA
Le Massere (o Massare, come si legge nell’edizione Pitteri), cioè le serve di casa, a Venezia, nel carnovale del 1755, ecco le protagoniste della presente commedia. Non e’ è chi non pensi, a bella prima, alla parte grandissima dei servi nel teatro greco-romano e in quello del Cinquecento e del Seicento, alle servette della commedia dell’arte in Italia, alle Lisette di Manvaux in Francia, alla crescente insolenza di Crispino e di Figaro. E già Goldoni stesso ci fece sfilare Colombine, Coralline e Argentine unite in lega con Brighella e Arlecchino a fare o a dire il male dei padroni. E il Chiari a S. Samuele aveva scritto per il Truffaldino Sacchi una sua bislacca commedia, i Nemici del pane che mangiano, la quale ridotta a nudo scenario si recitava ancora sulle lagune nei primi decenni dell’Ottocento. Ma qui è altra cosa; e i ricordi del passato poco nulla giovano a immaginare la ridente creazione di Carlo Goldoni. Bisogna dal mondo delle maschere, sempre un po’ fantastico, e dal mondo classico degli eredi del Molière discendere alla vita reale, più umile in apparenza, ma forse più varia e più viva.
L’autore, quasi a scusare l’originalità dell’arte sua, di fronte a coloro che lo accusavano di avvilire la nobiltà delle scene, ebbe a citare le tabernariae latine e la commedia poissarde in Francia (Vadè, 1720-57; les Racoleurs 1756) e poteva risalire fino ai mimi di Sofrone. Ciò serve soltanto a mostrare i ricorsi storici del teatro comico, per la curiosità nostra. Nulla suggerirono, stiamo pur certi, al Goldoni, le Fiere o le Vendemmie di Dancourt, i teatri della Fiera a Parigi, e nemmeno l’opera buffa napoletana. Anche nelle Serve al forno di J. A. Nelli, commedia stampata a Siena nel 1751, si incontrano delle scene dialettali e di sapor popolare; e per Rattoppa ingalluzziscono balie e fantesche, come per Anzoletto le massere: ma quanto stento in quei mal cuciti frammenti dell’autore senese, soffocati da un vecchio e stolido e prolisso intreccio. Se mai ebbe la pazienza di leggere, e potè ricordarsene, il Dottor nostro cavò questa volta la fiamma dal fumo. (A. Moretti pensa che questi riscontri «sieno del tutto casuali»: v. J. A. Nelli, in Rassegna nazionale, anno XII, vol. 51, 1 febbr. 1890, pag. 419). Io penso più volentieri che passassero davanti alla sua fantasia certe scene del teatro a soggetto, come per la Putta onorata, o meglio ancora che lo ispirassero le sue proprie creazioni (v. la pref.). Poichè si fatti precedenti storici, di nessuna importanza per la genesi di un capolavoro, ci rendono manifesta la grandissima differenza fra gli scherzi più o meno comici e la vita gettata crudamente e interamente sul palcoscenico.
Il quadro delle Massere è tutto veneziano, tutto goldoniano; è il quadro della Putta onorata, dei Pettegolezzi, delle Donne gelose, giocondi capolavori di una bellezza artistica nuova: con la recita dei quali si chiusero i memorabili carnovali del ’49, del ’51, del ’52 nel teatro di Sant’Angelo (v. la pref.). Bisogna porre questa commedia nel fondo, come dicevo, del rigido ma lieto inverno del 1755 a Venezia. Annota ne’ suoi Diarj il Gradenigo, alla data 12 gennaio: «Resi sempre più aggiacciati gli esterni canali, il popolo e le mascare camminavano sopra il giaccio da Venezia a Marghera e dalle Fondamente nuove verso Murano». Cominciava a mancare l’acqua dolce. E alla data 24 gennaio: «Si vendeva l’acqua dolce per la città a tre bezzi al secchio da coloro che giravano con le barche... non essendo piovuto in abbondanza dal mese di ottobre in qua». — E Goldoni intanto scriveva: ascoltava sorridendo nella calle, al caffè, all’osteria, i dialoghi di Anzoletto e donna Rosega, di sior Biasio e sior Zulian; seguiva Dorotea in casa di Costanza, al ritorno dal Ridotto. Bisogna pensare ai disegni del Longhi, alle vedute del Guardi, del Canaletto; bisogna riudire i canti del volgo nei baccanali. Nell’arte letterana italiana, quasi sempre accademica e aristocratica, entra una luce nuova, un tumulto nuovo. — Altro che le farse rusticali del Cinquecento! — Qui tutto ride, ciancia, si muove, come in un raggio di sole che illumini d’improvviso un piccolo mondo oscuro. E un attimo della vita di un popolo fino allora ignorato, nell’ombra, negletto da tutti, che palpita nell’arte. E anche una prima rivendicazione sociale. Questo mondo reale e pittoresco dei gondolieri, delle lavandaie, dei paroni di tartana, delle massere, delle rigattiere, dei merciai, ricongiungesi nella nostra letteratura e si contrappone a quello fantastico cavalleresco dell’Ariosto e del Boiardo.
Il Settecento, come fu molte volte osservato, è nell’arte democratico; e Goldoni obbedisce, per la scelta dei suoi personaggi, oltre che al proprio genio, a una consuetudine del tempo. Le Marianne, le Manon, le Pamele, le Clarisse, Robinson, Figaro, trionfano nel teatro e nel romanzo del Settecento, prima che nella società. E finito il mondo eroico, mentre il popolo si appressa alla rivoluzione. Tanto meglio scendeva all’umile volgo la commedia, che per un antico precetto, consacrato nei libri e nelle scuole di rettorica, doveva attingere la materia del riso alle classi minori. Nè questa può parere una colpa.
Qui Goldoni è sovrano: nessun altro commediografo gli si avvicina. Vadè, con tutta la grazia del Settecento francese, è ben volgare accanto a lui. Goldoni non è volgare, come non è volgare un quadro di paesaggio campestre, un quadro di costumi fiammingo. Qui è la sua potenza, la sua originalità. Invano si lusinga di giudicare Goldoni, chi non può gustare queste commedie dialettali popolari: a quasi tutti gli stranieri e alla più parte degli italiani è tolto pur troppo di godere pienamente Goldoni. Onde tanti giudizi si leggono, errati o imperfetti. Sarebbe come dover parlare del Foscolo e non conoscere i Sepolcri. — La lode che il De Sanctis diede al Manzoni di aver finalmente aperto all’arte nostra la visione del reale, è lode che spetta tutta quanta a Carlo Goldoni. I personaggi della Putta onorata e della Buona moglie, dei Pettegolezzi delle donne, delle Donne gelose, delle Massere e di altre commedie che incontreremo, vivono come gli umili personaggi dei Promessi sposi. È poi strano che alcuni fra quelli che in Italia si affermano rispettosi del pensiero filosofico, ostentino un certo disdegno per la semplicità della grande arte goldoniana e manzoniana, semplicità e ingenuità di creatori non già di fantasmi e di simboli, ma di figure immortali. È assurdo negare la psicologia goldoniana. Come si possono creare dei personaggi, uomini vivi e veri, non trastulli di carta dorata, senz’arte psicologica? Conviene inoltre ammirare come il Goldoni ci trasporti lontano dal Seicento con la potenza del dialogo, e lontano dall’Arcadia: mentre il Seicento sopravviveva fra noi nella stessa commedia dell’arte e nel romanzo, e Carlo Goldoni chiamavasi pure nella colonia Alfea di Pisa Polissena Fegejo. Questa grande arte moderna, sì diversa dai secoli passati e dai suoi tempi, egli la trasse dunque tutta dal suo cuore! E pare che da lui cominci veramente nelle lettere un’altra Italia.
Nel gruppo delle massere emerge donna Rosega, tipo indimenticabile di serva astuta. Bisogna fare uno sforzo, fin da quando ci si presenta questa vecchia matta, per ricordare la moltitudine dei servi e delle servette del teatro comico, che ingannano i padroni ingenui: Goldoni ha conosciuto donna Rosega sul palco della vita, non su quello del teatro. Un po’ le somiglia, nel libro delle memorie goldoniane, la Teresa brutta ma ardente, che a Udine insegnò le malizie femminili al futuro commediografo appena diciannovenne (vol. I della presente ed., pp. 43-44, e Mém.es I, ch. 16). in quell’episodio giovenile c’è l’intreccio principale delle massere, con la storia del gioiello venduto da Teresa (qui Zanetta) alla padroncina. Ma forse Goldoni conobbe donna Rosega proprio a Venezia: la sorprese a braccio di Anzoletto, come alla fine dell’atto quarto, quando piglia per mano l’imberbe Momolo: «Vien qua, caro forner: — Dame man anca ti, che ghe ne voggio un per»; e si allontana ringalluzzita. Questo è comico goldoniano. Ed è spirito comico quello del secondo atto, quando Costanza, la moglie tradita, parte con uno scoppio di pianto, e donna Rosega si commuove e si asciuga anch’essa una lacrima: non buffoneria, perchè è qui la vita con i suoi contrasti incomprensibili di bene e di male.
Soltanto un esame particolare dell’intero teatro potrebbe mostrare di che natura sia il riso di Goldoni. Ci accontentiamo di uno o due esempi dalle Massere. I personaggi goldoniani, come avviene della più parte degli uomini, ignorano i propri difetti, anzi li riprendono con serietà negli altri: vivono poi spesso in una beata ingenuità, nella perfetta incoscienza della propria illusione. Così donna Rosega nel soliloquio del terzo atto, scena terza: «Sti vecchi i s’ha confuso, quando i m’ha visto in fazza; — Bisogna che i credesse che fusse una vecchiazza. — Poveri sgangarai ecc.» Così sior Biasio nella chiusa del medesimo atto: «Se pol dormir seguri drento delle so porte, — Quando che se gh’ha in casa massere de sta sorte». — Di qui prorompe facile l’umorismo.
Oh, i vecchietti goldoniani! Quel sior Zulian che non vuol sentir parlare di età e di vecchiezza: «Gh’ho dei anni, xe vero, ma tanto ben li porto, — Che no li sento gnanca. Xe vecchio chi xe morto». (I, I). E quando a gara esaltano le virtù delle proprie serve, nella prima scena dell’atto terzo! E di fronte ai due vecchi quel «pissotto» di Momolo, un po’ ammalizzito ormai dalla familiarità colle massere, che si vanta di aver speso per Meneghina il suo daotto (IV, 6). E ancora donna Rosega, tutta «in gringola», quando nell’ultima scena, in mezzo al pentimento generale delle sue compagne, confessa seriamente: «E mi farò giudizio, co vegnirò in ti anni». — Lascio poi le scene pittoresche, come quelle con cui s’apre la commedia, al fischio mattutino di Momolo che fa venir alla finestra le massere. Lascio il dialogo tutto moderno fra Costanza e Dorotea sulle magagne della servitù (sc. 3, a. IV, che fa riscontro alla 1.a a. III); e quello così ricco di astuzie e di arguzie di donna Rosega, in mezzo a sior Raimondo e a Meneghina confusi per diversa cagione.
Ecco un’altra commedia in versi, la quinta e ultima di quell’anno comico, dopo il Terenzio, la Peruviana, il Torq. Tasso, il Cavalier Giocondo. Fu questo il trionfo dei martelliani. N’era stanco e noiato il Goldoni, e il popolo stesso cominciava a mostrarsene sazio (v. lett. all’Arconati dei 5 apr. 1755). Pare impossibile che Gasparo Gozzi si ostinasse ad aver fede nei miracoli di quel metro (v. lett. ad Amedeo Swajer, 9 ott. ’55). Fino a questo punto il Goldoni aveva onorato della rima le commedie storiche, e le commedie orientali o di costume straniero, ma nel Festino si arrischiò a far cantare nei settenari a coppie madama Doralice e donna Rosimena. Per la prima volta nelle Massere fece uso dei versi dialettali, in una commedia di costume popolare veneziano. E la prova mirabilmente riuscì, che il Goldoni fin dai primissimi intermezzi vi aveva esercitato l’ingegno. Ma chi lo avrebbe creduto, dopo gli oltraggi poetici del Filosofo inglese, della Sposa persiana, del Terenzio? Scrive giustamente Maria Ortiz: «Le ineguaglianze, le sciatterie che in prosa passavano inosservate, nel verso apparivano come macchie che deturpavano l’opera. Ma le commedie in versi e in dialetto chi potrebbe biasimarle? Le Donne di casa soa, le Massere, le Morbinose sono addirittura dei gioielli, che a nessun patto vorremmo vedere prive della loro veste poetica. Quei versi hanno una festività, un brio, una grazia leggera che incantano...» (Commedie esotiche del G., Napoli, 1905, p. 49). Ricordiamo che un felice saggio dialettale ci aveva offerto sior Tomio nel T. Tasso.
Certo sarebbe qui opportuno indicare quale posto occupi Goldoni nella poesia veneziana: ciò che nessuno ha detto finora (v. il breve cenno di B. Gamba, Serie degli scritti impressi in dialetto ven., Ven. 1832, pp. 152-4). Primissimo, se non isbaglio, poichè l’autore di quell’originalissimo poemetto ch’è il Mondo novo, è anche l’autore di certe graziosissime scenette dei drammi giocosi, e ha scritto il Campiello, le Morbinose, i Morbinosi, le Donne de casa soa, le Massere! Crescono questi capolavori dialettali in mezzo allo stupendo rigoglio della musa popolare a Venezia nel Settecento: una folla varia di poeti noti ed ignoti, fra i quali, intorno al ’50, predominano pel colorito Giuseppe Pichi, volgarizzatore del Bertoldo, per l’arguzia e la grazia Marcantonio Zorzi, per la facilita e l’oscenità Giorgio Baffo.
Clamoroso fu il successo delle Massere a S. Luca, con cui si chiuse lietamente il carnovale la sera degli 11 febbraio 1755. La commedia fece «strepito grande ed estraordinario davvero» come il Goldoni annunciava al conte Arconati-Visconti (lett. 5 apr.; v. anche il Complim. fatto al popolo ecc. l’ultima sera di carn., dopo la precedente comm. delle Massare ecc., ed. Pitteri, t. IV, p. 348; e Mémoires, II, ch. 21). L’onore più grande fu del Brighella Gandini, abile trasformista, che sostenne la parte di donna Rosega, e aveva l’anno prima interpretato quella un po’ affine di donna Rosimena nel Festino (v. Introduz.e per la prima sera dell’aut. dell’a. 1755, ed. Pitteri, t. V, p. 8. — Il Bartoli e il Rasi lo confusero con Luzio Landi, che restò fedele al Medebach e recitava a Sant’Angiolo). — Ma non durò a lungo la fortuna di questa commedia: sia per il crescente favore dei drammi spettacolosi e piagnucolosi, sia per la difficoltà della recita (come avviene dei Pettegolezzi, delle Baruffe ecc.), sia infine per esser stata la fama delle Massere superata e oscurata dal Campiello e dalle Baruffe chiozzotte. Si può anzi dire che in quest’ultimo capolavoro concludano i tentativi già per se stessi meravigliosi della commedia popolare di Carlo Goldoni. Qualche rara apparizione fece donna Rosega sulla ribalta, come per esempio nel novembre del 1827 a Milano (Teatro Re, comp. Ducale di Modena Romagnoli-Bon: v. I Teatri, giom. dramm.o, Milano, t. I, P. 2.a, p. 570): ma non osiamo affermare che oggi il pubblico le farebbe buona accoglienza. Manca nelle Massere il soffio d’umanità dei veri capolavori che resistono sul palcoscenico al tempo, manca il contrasto delle passioni; vi occupa buona parte il quadro di costume; Raimondo non ci persuade; nelle fila ben unite dell’intreccio qualche scena s’allunga forse troppo; sfuggono nella recitazione i pregi più belli del dialogo.
Il Goldoni poi, dove ne parla, sembra preoccuparsi più della morale che dell’arte. Nel capitolo ad Alvise Vendramin, per la monacazione di donna Chiara (1760), dice:
... Ma in casa Vendramin no gh’è sto vizio:
Tutti xe boni, tutti xe discreti;
E fin la servitù gh’ha bon giudizio.
Zente in casa no i tien con quei difeti,
Che in te le mie Massere ho colorio,
Piene de vizi e piene de grileti.
So Zelenza Francesco savio e pio.
Voi che la zoventù se toga spasso,
Ma onestamente, e col timor de Dio.
Nelle Memorie giudica la commedia utilissima a correggere le padrone, se non le serve, ma poco interessante e debole («...malgré sa foiblesse ...» l. c).! critici si mostrarono questa volta molto più teneri dell’autore. Salvo, s’intende, l’implacabile Carlo Gozzi, salvo l’implacabile Baretti, che consideravano le commedie popolari goldoniane, compresi i Rusteghi, farse basse e triviali, «guazzetti scenici» indegni della letteratura (Opere del co. C. Gozzi, I, 80, XIV, 85 [Baretti] e 121; Memorie inutili. I, 279).
Naturalmente l’ammirazione più schietta è degli scrittori o nati sulle lagune, o esperti d’ogni segreto del dialetto veneziano. Primo Pier Alessandro Paravia: «Non è il G. che ci rappresentò così al vivo ... quelle scodate fanti che rinnovano negli ultimi giorni de’ carnesciali moderni le ilarità e la licenza de’ saturnali antichi?" (Orazione in onore di C. G. recit. ai 26 die. 1830: in Op.i varii, Torino, 1837, p. 118). E con vivacità il Molmenti: «Nelle Baruffe chiozzote, nel Campielo, nelle Massere ecc. l’anima dell’artista è divenuta anima del popolo. Battono allegramente le pianelle e passano ancora sulla scena stupendamente colorite le massere ecc» (C. G., 1.a ed. Milano, 1875; 2.a ed. Ven. 1880, p. 100. — Il Masi ripete: «Nelle Baruffe, nel Campielo, nei Rusteghi, nelle Massere, nelle Donne di casa soa l’anima del poeta e quella del popolo si trasfondono completamente l’una nell’altra»: Lettere di C. G., Bologna, 1880, p. 78). Il Galanti: «Colle Massere [Gold.] ripiglia la commedia popolare in dialetto, nel qual genere e insuperabile. Il poeta descrive gli spassi d’una giornata di carnevale nella quale le donne di servizio hanno libertà di divertirsi; non v’è intreccio; sono scene, ma che colla loro vivezza tengono allegro il pubblico...» (C. G., ecc., Padova, 1882, p. 230). Meglio, e con novità. Ercole Rivalta: «... Da altre finestre le massere si sporgono urlando, insolenti, prepotenti, con i pugni minacciosi... Nel G. l’ambiente popolare assume tutta la schiettezza della sua realtà... Quella magnifica dona Rosega, la più complessa e completa e quasi dimenticata figura di serva che forse esista nel teatro, non nel teatro del G. soltanto:» (C. G., dalla Nuova Antologia, 6 febbr. 1997, p. IO). — Benchè non veneziana, con intuito felice Maria Ortiz chiamò più d’una volta le Massere «un gioiello di commedia» (Rassegna goldon., in Giorn. stor. lett. it., vol. LII, 1908, p. 197; e 1. c. sopra). Un «capolavoro» parvero ad Anita Pagliari (La donna nella vita e nella comm. di C. G., in Vita femmin. italiana, Roma, apr. 1907). E già il modenese Carlo Borghi le ricordava nella schiera gloriosa delle commedie popolari, dove risplendono le Baruffe e i Rusteghi (Mem.ie sulla vita di C. G., Modena, 1859, cap. XI): dai quali capolavori poco lontano le collocò il triestino Giulio Caprin (C. G., Milano, 1907, p. 301). Al Gavi poi, quantunque ne riconoscesse l’arte e la piacevolezza, non parve di poterle segnare fra le ultime «nella prima sfera», bensì fra le prime «nella seconda» (Della Vita di C. G., Milano, 1826, pp. 166-7).
Per contro non potè gustarne il dialetto C. Rabany e non si curò di parlarne. C. Dejob afferma che «les Massere... ont moins de portée» del Festino: «d’abord les passions y sont étudiées d’une manière plus superficielle; puis Dorotea, qui inspire de la jalousie à Costanza, femme de Raimondo, n’a en réalité que le jeu en tête; mais les scènes où elle vient emprunter d’abord, rembourser ensuite de l’argent à Costanza sont intéressantes... Mais les traits les plus mordants se trouvent dans quelques paroles d’un domestique, qui procurent a Dorotea une humiliation méritee...» (Les femmes dans la comédie etc, Paris, 1899, pp. 261-3). Né sfuggì meno ad Ang. De Gubernatis l’efficacia di questa commedia, la quale dovette piacere ai contemporanei di G. per la sua " vivacità, non dissimile da quella dei Pettegolezzi d.d., delle Baruffe ch. ecc.» «... Essendo poi la commedia in versi, per la tenuità del chiacchericcio, e per la prolissità di alcune scene, arieggia pure alquanto le commedie, rusticana e popolare. La Tancia e La Fiera del Buonarroti; ma le Massere vanno prese come scene di vita popolare veneziana e di costumi meglio che come vera e propria commedia. È vita bassa, futile, meschina; il G. riesce, tuttavia, col suo brio, ad animarla...; ma le scene, le mascherate, gli equivoci si seguono, senza bene allacciarsi, il che rende la commedia un po’ vana e scucita; nè vale a darle maggior peso ed unità l’appicciaticcio del predicozzo messo al fine dell’ultima scena» (C. G., Firenze, 191 I, pp. 251-2).
Il Meneghezzi, che volle giudicare secondo i princìpi della morale, non ne restò soddisfatto: «... E quelle Massere mezzane, false, ladre, intriganti, che per le loro ribalderie non ottengono altro castigo che di essere licenziate dalle loro padrone e dai loro padroni, e tutti gli altri poco convenienti accessori di questa commedia, vorrem noi dire che presentino un lodevole scopo morale, fine principalissimo che aver debbe ogni teatrale produzione?» (Della Vita e delle opere di C. G., memorie di Ferd. Meneghezzi di Mantova, Milano, 1827, pp. 149 e 147). — Pochi anni dopo, uno scrittore francese ci fa tornare alla mente le critiche di C. Gozzi e del Baretti: «Au comique noble succèdent des intéréts et des personnages populaires, comma dans I Rusteghi (les Rustres), le Massere (les Femmes de service, les servantes, etc), où l’on peut méme accuser l’auteur d’étre descendu quelques rangs trop bas (Aignan, in Théâtre Européen — Théâtre Ilalien, II.e sèrie, t. I, Paris, 1835, pp. 4-5).
L. Falchi, studioso soltanto degli «intendimenti sociali» del Goldoni, prima di parlare della Serva amorosa, a cui le Massere in certo modo si contrappongono, avverti che «in questa realistica rappresentazione, tutta veneziana» «scarsissime sono le traccie del sentimento dell’autore» e citò i versi finali (Intendimenti soc. di C. G., Roma, 1907, pp. 62-3). Della quale osservazione, giusta per il concetto, ma espressa in una forma poco felice, lo rimproverò M. Ortiz (Rassegna gold.a cit., p. 197).
Nessuna meraviglia che a questa commedia veneziana mancassero traduttori. Ma è strano che restasse esclusa dalla massima parte delle raccolte di commedie scelte di Carlo Goldoni. Giova ricordare invece che di qui Giacinto Gallina trasse inspirazione per le sue Serve al forno (come affermò G. Sabalich in Dalmata, Zara, 27 febbr. 1907), lavoro giovanile (1873).
Del N. U. Ferd. Toderini a cui sono dedicate le Massere, fu fatta menzione nella Nota storica del Filosofo inglese (vol. X). Nato agli 8 febbraio 1727 (credo more veneto), sposò nel 1766 Lucrezia Longo; appartenne alla Quarantia Civile fin dal ’59, e attendeva ancora al delicato ufficio alla caduta della Repubblica. La famiglia Toderini, di nobiltà novissima, fu assunta al patriziato nel 1694, per l’esborso di centomila ducati durante la guerra di Morea. Non lasciò Ferdinando nome alcuno nelle lettere.
G. O.
Le Massere (o Massare) furono stampate la prima volta nel t. IV dell’ed. Pitteri di Venezia, l’anno 1758 e ristampate a Torino (Guiberl e Orgeas, XI, 1777), a Modena (Soliani, s. a.), a Venezia (Savioli. III. 1772; Zatta. cl. 3. IX. ’93), a Livorno (Masi, XXVI, ’92), Lucca (Bonsignori. XXIX, ’92) e certo altrove nel Settecento. Non si trovano nell’ed. Pasquali. - La presente ristampa seguì principalmente il testo dell’ed. Pitteri. riveduto dall’autore. Valgono, circa la grafia, le considerazioni già fatte per la Famiglia dell’antiquario (vol. III, p. 406) e per le altre commedie. Le note a piè di pagina segnate con lettera alfabetica appartengono al Goldoni, quelle con cifra al compilatore di questa raccolta.
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