Lepida et tristia/Chi sarà lo sposo?

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Chi sarà lo sposo?

../Pietro Panzeri ../Dalla padella nella brace IncludiIntestazione 16 aprile 2024 100% Da definire

Pietro Panzeri Dalla padella nella brace

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CHI SARÀ LO SPOSO?



F
ortunio, il bell’adolescente, nel tempo gaio d’aprile, che segna il rinnovarsi della vita in ogni cosa, se ne stava sotto l’aureola delle sue chiome bionde presso una siepe di vitalba e di caprifoglio, selvaggiamente insieme avviluppati; ed ecco sentì gridare:

— Olà, olà, libera la via!

E un gran cocchio con gran rimbombo passò. Il cocchio era tanto splendente a vedere che pareva tutto d’oro fino; i cavalli erano più bianchi del fiore del caprifoglio presso cui giaceva Fortunio, con bei finimenti di metalli che suonavano, e anche suonavano i corni dei postiglioni per la campagna.

— Oh, il bel cocchio d’oro, felice chi vi sta dentro! — sospirò Fortunio.

E guardando attorno, scorse un vecchierello. Gli si accostò e disse:

— Sapete voi chi ci sarà dentro quel cocchio? [p. 6 modifica]

— Io dico — rispose il vecchierello — che ci sarà dentro il duca di Gaula, perchè nessuno è tanto ricco come lui da avere un cocchio d’oro, quale voi avete veduto.

— E dove andrà mai quel nobile signore?

— Dove andrà? Voi lo domandate? Ma certo al castello della Regina: oggi la nostra Reginella, se non lo sapete, compie i sedici anni e deve farsi la sposa; e io scommetto che sarà il duca di Gaula l’eletto perchè nessuno è più ricco di lui.

— Ed è molto lontano il castello della Regina?

— E chi lo sa, figliuolo? Chi ci è stato racconta che vi sono cento miglia e poi altro cento, e che v’è un fiume da passare e una foresta che ha mal nome da attraversare. Ma io non ci sono mai stato!

E Fortunio andò avanti per la via per cui era passato il cocchio, e l’eco delle ruote era tutto spento e per l’aprile sacro si sentiva il pigolare degli augelletti che fanno il nido tra le fronde e il ronzio degli insetti che portano la vita de’ fiori.

Ma non fu molto l’andare che udì un gran galoppo dietro di sè: si voltò e vide un lampeggiare d’arme. Poi una cavalcata passò: rapida passò, ma ben distinse i cavalieri sui palafreni, che reggeano aste e gonfaloni.

Dio! come cavalcavano fieramente, come splendevano le loro insegne!

E in mezzo a loro veniva su di un destriero il più leggiadro e il più superbo giovinetto che Fortunio avesse mai veduto ai suoi giorni.

Le piume del cappello di lui ondeggiavano, le piume dei cappelli di que’ baroni, i manti, le criniere ondeggiavano al ritmo e al galoppo de’ palafreni. [p. 7 modifica]

Ma dopo alcun tempo passarono molti carri, così pesanti che i cavalli non riuscivano che a fatica a levare il trotto: allora potè accostarsi ad uno de’ sergenti che guidava il convoglio e gli domandò chi fosse quel bel cavaliere che era passato prima.

— Quegli è figlio di un Re di corona! — rispose il sergente.

— E dove va?

— Va con la sua baronia al castello della Regina.

— Allora tutti s’avviano al castello della Regina?

— Cosi è: domani la Reginella si fa la sposa, e le nozze saranno belle e grandi, che chi le avrà vedute potrà ricordarsene per un pezzo. Ma sappiate, signor viandante, e ditelo per certa fede a chiunque sosterrà il contrario, che la Reginella non isposerà altri che il cavaliere che avete veduto passare testè, nostro signore, perchè solo il figlio di un Re di corona può ragionevolmente pretendere di essere sposo della Reginella!

Cosi disse e mandò un grido e tutti i sergenti fecero il simigliante incitando i cavalli, i quali piegarono le groppe e levarono il trotto; e il convoglio che portava le tende e i doni nuziali, si allontanò, con gran rumore.

Allora Fortunio fu sopraffatto dal desiderio di andare egli pure al castello della Regina a vedere le nozze e, come egli era a piedi, così camminò a quella volta.

E andò, e dopo molto andare passò per un borgo dove era un popolo di gozzuti e di nani che oziavano per la via, ed era tutta gente sucida e macilenta. Pensò che quivi avrebbe potuto domandare del cammino: ma l’uomo a cui si rivolse lo fissò con due occhi smemorati, poi gli aperse una gran bocca sgangherata e davanti a lui si accovacciò con le palme su le ginocchia per ridere meglio. E rise, e poi che ebbe riso a sua voglia, puntò il dito contro di lui e volgendo quella sua ebete faccia ai vicini, disse: [p. 8 modifica]

— Venite, venite a vedere, gente, chi vuole andare al castello della Regina!

E la voce si sparse per tutto il borgo e i gozzuti e i nani lo circondarono e lo dileggiavano e, non che indicargli la via, gli impedivano persino il passo. Dico che gli si paravano davanti e dicevano l'uno all'altro ridendo:

— Voi lo vedete, lo vedete chi vuole andare al castello della Regina!

Fortunio fendè la folla e ad uno che, più audace degli altri, lo aveva preso per il farsetto, diè un tale strappo che lo mandò a ruzzolare sin giù per il fosso, e rotolò così sconciamente che tutti si misero a ridere, dimenticando Fortunio che proseguì il suo viaggio.

E cammina, cammina per ignoto paese finchè, quando fu vespero, giunse presso il limitare di una foresta.

Il sole cadeva ferendo con una luce sanguigna tutta la pianura, e le fronde degli alberi della foresta corruscavano nel colore del rame. Ma appena fu dentro il bosco, lo sorprese la notte e il gelo del putrido terreno che non avea sentiero tracciato.

Il bosco era pieno di grande orrore, e dopo alcun tempo che Fortunio andava, vide sul prato disegnarsi tante macchie bianche, come stranii fiori che fossero sorti per incantamento, e ogni fiore si attaccava ad un filo di luce, che saliva su; e tutti quei fili salivano in su e si riunivano nel lume della luna piena che era sospesa su le cime di quelle piante.

Come ognuno intende, il sole era da un pezzo tramontato, ed era già sopraggiunta alta la notte. Ma della vicenda della gran stella e del pianeta non si era Fortunio potuto render conto per l'oscurità della selva. [p. 9 modifica]

Non molto andò che sparvero i fiori dalla luna dipinti e i tronchi divennero tanto serrati che era gran fatica il camminare.

Certo era giunta l’ora ormai che il lupo lascia la tana e il gufo canta dalle fessure delle piante morte, e intanto la Reginella dormiva nel suo gran castello e attendeva lo sposo.

Ma ecco il bosco risplendere di fiamme lontane. I tronchi si disegnavano negramente su lo sfondo della rossa fiamma.

Erano masnadieri seduti al desco nella strana aula delle piante?

No: era l’attendamento di quel gran Re di corona che era passato il mattino. Ora si vedevano nettamente i padiglioni dove dormiva il nobile Re; e a torno erravano le bianche groppe dei palafreni pascolando; e i sergenti e gli scudieri facevano la scolta vegliando presso ai padiglioni.

Le spade e le lance pendevano alle branche delle piante, ed un cignale, infitto negli schidioni, si rosolava attorno alle braci chè:

Dadi, vino e buon mangiare
Fan uom d’arme sveglio stare.

— Signor sergente — domandò Fortunio a quello che gli parve il più gentile fra coloro — dove è la via per andare al castello della Reginella che domani si fa la sposa?

— Va avanti per la tua strada, ladroncello — rispose con burbanza quel sergente.

— Ebbene, signor mio — replicò non meno cortesemente Fortunio — se non mi volete dire la strada, siate almeno tanto pietoso da lasciarmi scaldare alla vostra fiamma. — [p. 10 modifica]

Ma quel sergente gli replicò che avrebbe fatto bene a levarsi di lì e subito, se no lo avrebbero toccato con le aste delle loro partigiane.

Allora convenne a Fortunio allontanarsi di lì e camminare ancora.

E dopo molto canimino vide un fuoco da lontano.

Vi si accostò e gli fu manifesto quello essere una catasta di legna, che i carbonai ricoprono di piote bagnate e fanno ardere lentamente per averne il carbone.

Si guardò attorno e non c’era nessuno; si accostò e sentì per le membra agghiacciate il ristoro di quel tepore.

Ma allora lo sorprese questa misteriosa voce:

— E vero che fa bene un po’ di caldo? Siamo in aprile, ma le notti sono rigide, specialmente nei boschi. Ben è vero che chi esercita il nobile mestiere del carbonaio può riparare a questo difetto della natura. Iddio non ci poteva con ciò dare un segno più evidente del conto in cui tiene la nostra professione. Ma accostatevi senza timore, ragazzo; la mia catasta non soffrirà se qualche viandante approfitta del suo calore: la legna quando arde, manda calore e luce al prossimo anche se l’uomo cattivo non vuole: ciò torna ad onore della legna e a discapito dell’uomo. Questo io vi dico perchè qualche mio collega, di cuore meno nobile del mio, potrebbe intimarvi lo sfratto. Io no: mio padre e mia madre devono aver recitato con ogni devozione e cuor sincero il Paternostro la notte che mi hanno concepito, perchè io da quel tempo che mi accorsi di essere vivo ho avuto sempre gran generosità di cuore a dispetto del bosco selvaggio! Dunque che cosa ne concludete? Voi non rispondete? Allora concluderò io: Non è il bosco che rende l’uomo cattivo, come non è il palazzo che rende l’uomo buono. Se qualcuno vi sosterrà il contrario, abbiatelo in conto di un egregio imbecille. Ma non glielo dite. Ogni insulto [p. 11 modifica] che esce dalle nostre labbra genera un nemico: ma la parola «imbecille» ne partorisce due di nemici. Concludo: non abbiate paura: voi siete vicino ad un uomo buono. Non lo sentite dalla voce che io sono un uomo buono? Vi dico dunque: fatevi da presso e riscaldatevi.

Fortunio a quella voce che veniva da vicino ma di cui non vedeva l’autore, fu da prima sorpreso paurosamente e perciò si era allontanato dalla catasta; ma a pena si fu abituato al suono delle parole (un suono che avea le rassegnate profondità dei boschi) ne fu confortato, prima per il senso umano che esse esprimevano, e poi perchè l’uomo verboso e divagante nel suo pensiero non sarà mai quello che vi colpirà.

Il silenzio è dei savi: ma anche gli omicidi e i sanguinari parlano poco. Invece questo carbonaio era assai verboso, come avete potuto capire, nè sarei alieno dal credere che con lunghi soliloqui avesse costume di riempire la solitudine del luogo.

Ma Fortunio ebbe nuova paura quando presso di sè scorse alfine una faccia grande di cui solo bianche erano le pupille: nè sarebbe stato fuor di luogo credere che i piedi avesse avuto caprini e le orecchie cornute e ritorte come i fauni antichi. Ma queste cose, se anche erano, non si potevano vedere per il buio che era sotto la frasca sotto cui sedeva l’uomo.

Fortunio ebbe invito di posargli da presso; ubbidì e cominciò a raccontare come gli fosse nato il desiderio di vedere le nozze al castello della Regina e come avesse viaggiato tutto il dì e tutta la notte.

— Allora voi dovrete aver fame oltre che freddo — disse il carbonaio.

— Questo è anche vero — rispose Fortunio — ma non avendo trovato da mangiare, mi sono accontentato di stringere un occhiello alla cintura.

— Ciò vi fa molto onore — rispose il carbonaio: [p. 12 modifica] — l'uomo che si lamenta per la fame è un dappoco: meglio stringersi il cinturone sino a morirne. Quanto a voi, se non vi offendete, posso darvi io qualche cibo per il quale, oimè! non sarà necessario rallentare di troppo il cinturone. No, mio caro, non essere ingordo; la tua parte l’hai avuta...

— A chi parlate, di grazia?

— Al mio cane che sonnecchia qui presso: ha sentito ora parlare di mangiare e raspa per averne. È una bestia assai intelligente che ha imparato molte cose; fra le altre il tacere, dote rara nei cani: ma la temperanza nel vitto non è la sua preferita virtù. Del resto anche i filosofi tacciono a stento quando lo stomaco avanza i suoi reclami. Eccovi adunque del pane: esso è di orzo con un po’ di farina di ghiande, ma se voi avete appetito, apprezzerete la bontà di questa mistura. Inoltre sarò generoso con voi e vi darò anche del companatico: preferite un po’ di ceci abbrustoliti da mangiar col pane ovvero quattro olive secche?

Fortunio rispose che preferiva le olive e cominciò a mangiare con grande piacere.

Dopo alquante parole in cui l’uno spiegò all’altro della sua condizione, il carbonaio cominciò a parlare così:

— Il mio giovane viandante, ora che so chi siete, io vi consiglio ad allogarvi presso di me e lavorare in questo mestiere di fare il carbone. Io ve ne potrei fare l’elogio completo; ma basterà il dirvi che esso è un lavoro eminentemente allegro perchè non ha le variabili fasi della gioia eccessiva e della tristezza, secondo le età e le inclinazioni. Molti io ho conosciuto che ad un certo punto della vita voltandosi indietro e considerando tutta la via percorsa, giudicarono follia e vanità quelle opere appunto in cui avevano riposto maggiormente le loro speranze e il loro amore. Io invece ho fatto il carbonaio da fanciullo sotto il mio ottimo padre che è morto (e questo era [p. 13 modifica] inutile dirvelo considerando la mia grave età), ho fatto il carbonaio da uomo, e lo faccio da vecchio. Sono anch’io un’antica pianta; anzi le vecchie quercie mi hanno assicurato che quando sarò sepolto sotto di loro, beveranno i miei umori con le loro radici potenti e li trasporteranno in cima delle loro rame così che io tornerò ancora a godere il sole. Questo pensiero è confortante benchè la mia fiducia non sia molta.

Il carbonaio non è un lavoro faticoso. Sotto la creta che copre la catasta il fuoco pensa lui e arde adagio adagio e consuma le fibre dei faggi che avrebbero fatto la barba ai secoli se la nostra scure non li avesse troncati. È lavoro utile tanto agli uomini della città come a quelli della campagna, tanto nel tempo che sono vecchi come quando sono giovani: scalda la cuna al bambino, ed il lenzuolo a chi sente il gelo della morte. Nè è più utile di inverno che non lo sia di estate: non richiede la sofferenza dei propri simili come altri lavori più tenuti in onore; per questo, vi dico, il mestiere del carbonaio è nobile ed allegro. Io non mi sono mai pentito di aver fatto il carbone; nient’altro che il carbone nella mia esistenza e questo del non pentirsi — vi assicuro — è grande argomento di felicità. Il becchino, che pur esso è un mestiere utile, non vale il carbonaio, perchè essi, i becchini, devono scavare le fosse e guardare sempre in giù; ed è per tale ragione che essi, i becchini dico, hanno una faccia stravolta e melanconiosa come nessuna altra persona; mentre noi che teniamo sempre lo sguardo in alto per l’abitudine di osservare se il fumo della catasta esce come deve e non turbinoso, acquistiamo questa fisonomia gentile, come voi potete vedere.

Dunque il carbonaio prima, il becchino poi, cioè prima chi prepara il fuoco per la vita, secondo chi depone con riguardo sotto la terra i nostri miserabili avanzi; terzo verrebbe il filosofo, cioè chi ci insegna come [p. 14 modifica] dobbiamo comportarci, dato il caso che la natura se ne sia dimenticata. Un mio collega carbonaio, che è morto, era anche filosofo, e contemplando per giorni e notti continue il salire che fa il fumo, avea concepito molte profonde teorie su la vita e su gli uomini: egli me le ha spiegate con una pazienza che gli fa onore tuttavia; ma non ho vergogna di confessarvi che non le ho ben capite: sono giunto solo a comprendere dal fumo se il vento spira da borea o da levante. Per tutte queste ragioni che vi ho esposto accettate il consiglio che vi do: rimanete presso di me ed aiutatemi a fare il carbone; tanto più che qui è difficilissimo trovare dei garzoni: l’ultimo che aveva era tanto dappoco che non ebbe neppure il coraggio di vivere: eppure, credetelo, lo ho sepolto con rimpianto. La ragione è che il luogo è romito, scarso di abitatori, e quei pochi che vi sono vanno tutti a servire al castello della Regina. Antepongono essere servi ben nutriti che liberi carbonai.

— Voi lo conoscete il castello della Regina? L’avete vista la Reginella? — chiese Fortunio con entusiasmo come se in mezzo a quelle tenebre e alla caligine della catasta del carbonaio avesse visto risplendere il castello della Regina.

Il vecchio brontolò, e scuotendo il capo disse:

— A quel che vedo voi avete troppo in mente la Reginella, e per ora non è in voi nessuna buona disposizione per i tre mestieri che vi ho suggerito. Forse avete ragione, ma verrà un tempo in cui vi pentirete di non aver seguito il mio disinteressato consiglio di farvi carbonaio, e questo pentimento avverrà quando i vostri occhi di venti anni vedranno le cose della vita nel colore con cui le vedono le mie pupille che ne hanno trentacinque per una. Andate dunque a vedere le nozze della Reginella! Seguite questo sentiero e quando troverete tre grosse querce che formano un triangolo, voltate a destra. [p. 15 modifica] In questo modo voi eviterete di essere preso dai masnadieri di Framauro che da tempo batte questa foresta, per la quale è assai pericoloso avventurarsi senza forte compagnia. Io me ne sono salvato perchè do a loro il carbone graziosamente. Non crediate però che ci perda troppo, giacchè faccio pagare ai buoni per quel che regalo ai masnadieri: ciò non è onesto, ma è necessario.

Fortunio rise allegramente:

— Se mi spogliassero nudo e frugassero in tutti i miei abiti non troverebbero il più vil conio di faccia di Re.

— Disingannatevi, caro giovane, e attribuite questa volta l’errore alla vostra inesperienza ed all’inutile baldanza giovanile — disse gravemente il carbonaio: — gli uomini della banda di Framauro sono di così malvagia natura da uccidervi per la sola soddisfazione di provare se è fatto bene il filo de’ loro pugnali. È doloroso dir questo dei nostri simili (chè a molti sembrano simili nostri anche i malvagi), ma la verità avanti tutto: perisca, più tosto che dire il falso, questa catasta e si infiammi in cenere, essa che ha consumato il filo a tre scuri per recidere i tronchi! Seguite il mio consiglio: quando incontrerete le tre roveri che vi ho descritto, voltate a destra.

Fortunio ringraziò e il vecchio aggiunse:

— Anche vi voglio avvertire di una cosa: dopo la foresta, troverete una radura e dopo la radura una fiumana. Le piogge del marzo hanno gonfiato fuor di misura le acque ed hanno portato via il ponte. A meno che non abbiate la ventura di trovare un navalestro, vi converrà ritornare. In questo caso non dimenticate che il posto di garzone presso di me è sempre a vostra scelta.

— Mi dispiace del ponte; ma penserò a quel che mi resti da fare quando vi sarò giunto. Povero duca di Gaula, povero figlio del Re di corona, anche per loro sarà [p. 16 modifica] difficile passare il fiume! Oh, e come farà la Reginella a sposarsi se lo sposo rimane di qua del fiume?

— Non crediate, amico (lasciate che vi chiami con questo dolcissimo nome che da molti anni più non ripeto se non al mio cane), che uno di quei due che avete nominati sia esso lo sposo. Molti altri cavalieri e nobili signori son già presso il castello fin da quest’ora, venuti da altre bande che non sia questa foresta. I Re di corona sono due, de’ baroni poi è infinito il numero, giacchè, se non lo sapete, un’antica legge del nostro regno vuole che la Reginella scelga ella medesima lo sposo. Non vi meravigliate perciò se potendo arrivare al castello, troverete pei fossati qualcuno di questi signori nella condizione più goffa e irrimediabile. Si incrociano i ferri, si feriscono cavallerescamente e, quando si può, anche a tradimento, e così il numero su cui la Reginella deve scegliere diminuisce. Del resto il duca di Gaula e il figlio di quel Re di corona avrebbero avuto buona sorte di riuscire; ma il fiume forse li gabberà.

— Perchè avrebbero avuto buona sorte?

— Perchè, amico, l’uno, cioè il duca di Gaula, è un obbrobrio della nostra specie; i cani si distinguono dalle serpi, i corvi dai rosignoli; con le bestie insomma noi sappiamo subito con chi abbiamo a trattare; non così con gli uomini: volti consimili nascondono animi così diversi che più simiglianza vi ha fra la colomba ed il nibbio. Tale è il duca di Gaula; il suo animo doveva vestirsi del corpo di una iena o di un immondo avoltoio e invece il caso ne ha fatto un rettore di popoli, e la natura, alla sua volta, gli ha dato una voce soavissima e piena di mitezza: ma è grido di popolo che se il duca di Gaula va a letto senza aver fatto male a qualcuno, la notte non si sente bene e a stento può riposare. Il mio amico filosofo sapeva per altro conoscere e leggere l’animo umano sotto i volti più ingannevoli. Questa scienza [p. 17 modifica] difficilissima me la voleva lasciare in retaggio; fui io a rifiutare il legato giudicandone maggiore il danno che il vantaggio. Anche il giovane che è figlio di un Re di corona, è uno dei più curiosi scherzi della natura. Se non fosse erede di un regno, ma dovesse col suo valore riempirsi il ventre, vi accerto che si guadagnerebbe il pane con grande fatica. È assai da poco in altre parole. Eppure è così bello ed ha così superba maschera di coraggio! La Natura molte volte deve essere stranamente annoiata di quel suo lavoro da Danaide, ed allora si diverte creando dei mostri.

— Sarà come voi dite, signor carbonaio — rispose Fortunio — ma in tale caso fate un grave oltraggio alla Reginella, supponendo che fra questi due ella possa scegliere lo sposo.

— Nessuno oltraggio, amico — rispose il vecchio: — la donna ama le cose mostruose: mostruosa come è ella pure. Non vi inganni la sua apparente gentilezza. Se non segue in modo aperto il suo istinto, è perchè ha paura. Credetelo! Anche credete che in ciò la moglie del carbonaio vale la moglie del Re. Lasciate la Reginella e fate il carbonaio!

Fortunio si accomiatò perchè già le alte fronde delle grandi piante sentivano i brividi del vento che precorre l’aurora.

Il carbonaio allora lo richiamò e Fortunio rifece i suoi passi.

— Già che volete andare, accettate per mio regalo, un oggetto che manca nel vostro corredo e che vi sarà di grande vantaggio, dovendo voi recarvi fra molti uomini. È l’argomento più persuasivo che fin qui si sia conosciuto. Ecco! ma fatene uso parcamente: la natura, [p. 18 modifica]se voi guardate bene d’attorno, anche di estate, non adopera molto il colore rosso ne’ suoi paesaggi. Io non ne ho fatto mai uso: ma sono anche vissuto sempre solo, e non ho avuto altro in mente che il carbone.

Così dicendo il vecchio gettò ai piedi di Fortunio un lungo e lucido stocco, che quegli raccolse ringraziando e si allontanò.

Si allontanò e giunse al fine della selva. Davanti già saliva il sole che disegnava di luce le grandi piante; dalle quali molte schiere di varî uccelli si levavano cantando contro il sole. Anche vi era un gran fiume dalle acque verdi che portava le creste delle sue onde con veloce corrente. Ma quale non fu la meraviglia di Fortunio quando scorse di là dal fiume, su di un poggio, il castello della Regina, il quale ricamava il cielo con le sue torri!

Allora parve a Fortunio che il fiume, il sole, gli uccelli, l’aria e la luce mattutina si movessero al ritmo occulto di una musica onnipotente e gaudiosa; e uguale quel ritmo era a quello del suo cuore.

Guardò la riva: non nave, non ponte. L’acqua, limpidissima e verde, non lasciava vedere il fondo.

Perciò Fortunio si spogliò de’ suoi abiti, ne fece un fardello che assicurò con lo stocco e si gettò nell’acqua. In verità ben valeva arrischiare la vita! La sua vita era una pagina bianca, dove niente era scritto: poteva essere senza danno distrutta.

A pena quando su di essa si scrivono nobili parole merita la cura di essere conservata alquanto: questa vita che noi non arrischiamo per vile paura, e spesso un fato assai bizzarro ci costringe a perdere per la causa medesima per cui sì la risparmiamo. [p. 19 modifica]

Ma Fortunio non era nato nel villaggio di quella gente nana e motteggiatrice che noi abbiamo conosciuta. Fortunio volle spendere bene la vita e non fece come l’avaro che muore di fame per conservare il tesoro.

La corrente del fiume era formata, io non saprei ben dire, come da tante enormi mani, benefiche e malefiche, simili a quelle dell’uomo. L’una lo aggrovigliò in mille nodi tenaci, lo soffocò e lo spinse nell’abisso dell’acqua.

Ma un’altra mano lo sollevava sin fuor dell’acqua e, benchè pietosa, avea abbracciamenti tenaci, scosse e percosse e rapiva il corpo dell’adolescente per il profondo gorgo con un murmure ed un fascino di acque loquenti misteriose e titaniche cantilene.

Quando Fortunio toccò la riva opposta, benchè le carni gli si gelassero, non potè a meno di ridere. Il figlio del Re di corona era giunto presso alla riviera con tutta la sua baronia; ma non sapevano come tragittarla. Davanti a quell’impedimento non preveduto e non superabile, i cavalieri si erano sbandati e correvano la riva in cerca di un navalestro e d’una barca. Solo, immobile, sopra il palafreno era rimasto il loro signore, in atto così bello che pareva un eroe che si sta a meditare grandi cose. Ma Fortunio dall’altra riva rise con tutta quella forza che le onde ghiacciate aveano infuso in lui, così forte che il giovane sire udì quel riso e si scosse paurosamente e con moto sì goffo che ben giudicò Fortunio essere vere le parole di quel carbonaio sapiente.

Si rivestì in fretta: oramai le sue membra aveano acquistato in quel bagno qualche cosa della durezza e della insensibilità del ghiaccio: quasi gli pareva che un colpo di spada non le avrebbe nè perforate nè insanguinate. Però, dentro, il cuore avea dei moti e dei sobbalzi [p. 20 modifica]leonini, e l’aura di primavera, impregnata di sole e di fiori, gli scioglieva dall’acqua i lunghi capelli, e gli penetrava ne’ polmoni come un liquore innebriante.

Non molto ci volle a raggiungere il poggio.

Ma a pena, salito il poggio, fu entrato in un giardino di cui mai il più grande e il più adorno egli avea veduto, e si trovò in mezzo a un popolo di paggi e di cavalieri, sentì vergogna delle sue vesti e temette che i servi della Regina gli avrebbero impedito di proseguire.

Di fatto il suo squallore richiamò l’attenzione di alcuni custodi i quali lo circondarono, e quegli che pareva più autorevole fra essi così gli parlò:

— Siate avvertito che questo è il giorno delle nozze della Reginella, nostra signora, e i mendicanti per oggi non hanno accesso al castello.

Fortunio rispose che non era un mendicante ma che veniva solo per vedere le nozze. Quelli parvero consultarsi, e benchè dal volto apparisse in essi l’intenzione di respingere il giovinetto, tuttavia esitavano perchè nessuna legge vietava di andare al castello, anzi le antiche consuetudini di quel regno stabilivano che, facendosi sposa la Reginella, tutti potessero presentarsi a lei. Ma a quei remoti tempi avveniva questa dolorosa cosa che ai giorni felici della modernità più non avviene, cioè che solo coloro i quali avessero cappa di velluto e palafreno bardato potevano trarre vantaggio dalla bontà delle leggi.

— In qual modo — insistè tuttavia quel custode — potete voi con documenti provarci che non salite al castello per importunare e chiedere la elemosina?

— I mendicanti — rispose pronto Fortunio — portano il bordone e non lo stocco, nè chi raminga la vita per stender la mano può aver l’ardimento di passare il fiume a nuoto come io ho fatto e potete vedere dalle mie vesti e dai miei capelli. [p. 21 modifica]

Piacque la risposta e gli fu fatto cenno di andar avanti di buon animo.

Quando fu presso del castello, glie se ne fece manifesta tutta la magnificenza: era di marmo con logge e trafori, e per tutto l’edificio correvano tralci di rose in tanta copia e bellezza che da per tutto ne era il profumo. Avrebbe voluto Fortunio vedere più da vicino, ma grande era la calca di quei gentiluomini, tutti superbamente vestiti: pure, esile com’era, si provò di aprirsi un passaggio: ma un signore, più alto e sfarzoso degli altri, gli si voltò con mal piglio e gli gridò:

— Chi ti ha introdotto fin qui? Indietro, piccolo paltoniere.

— Signor gentiluomo — rispose con mansueta voce Fortunio — io non sono paltoniere, come ella dice, e se le mie vesti sono umili il torto è solo della fortuna. Ella però non ignora che le leggi della nostra graziosa Regina non fanno divieto ad alcuno de’ suoi sudditi di venire alle nozze. Se lei può venire, io non vi sono messo fuori.

Quel signore sorrise e disse:

— Si vede che sei nato troppo presto e sei andato a scuola soltanto dal prete che insegna il Vangelo. Anch’io le leggi le faccio scrivere ai filosofi del mio regno, perchè così comanda l’uso antico e la convenienza, ma per solito le interpreta ed eseguisce la spada. Sarà meglio che tu torni a casa, se casa hai.

— Mai più, signor cavaliere, piuttosto morire! — e pronunciando queste parole egli capì che era giunto il momento in cui con serenità pari all’ardimento conviene mettere sul tappeto del gran giuoco la posta della propria vita. E così fece stendendo il braccio rigido, armato dello stocco.

Certamente Fortunio non aveva in nessuna scuola imparato la nobile arte del ferire, ma le onde del gelido fiume aveano, per magica forza, comunicato qualche cosa della loro glaciale energia alle membra di Fortunio che [p. 22 modifica]altrimenti non si sarebbe potuto spiegare in qual maniera il giovanetto riuscisse a sprofondare lo stocco nel petto dell’avversario e con tanta violenza che l’oro e il velluto di colui non fecero impedimento. E mentre quegli cadeva fra la meraviglia degli altri signori che avevano fatto largo ai contendenti, apparve una mirabile visione per cui tutti tacquero senza alcun comando, e il silenzio per quella gran turba si propagò come si propaga la voce e la luce.

Sola, della scalea, scendeva la Reginella.

Ella era di così grande bellezza da avanzarne di gran lunga la fama.

Persona non avrebbe detto che il tempo o la morte potessero toccare così splendente opera di giovinezza, giacchè tutte le dolci cose che rallegrano la vita parlavano il loro linguaggio sul volto di lei.

Ella passava vicina ai signori rapidamente e pronte erano, anzi alate le parole di lei così che pure passando vicina ai cavalieri, pareva lontana.

Anche la risposta si sentiva distinta per il gran silenzio, il quale era così intento che si udiva il tremito delle rose blandite dal vento.

Talvolta la domanda era altera: — Quale dono tu rechi?

La risposta era: — Oro e castelli, popoli e armi, diadema e amore.

E la Reginella passava oltre.

Quando fu davanti a Fortunio fu ella stessa a parlare e parlò così:

— Tu rechi per dono nuziale la spada rossa di sangue e lo splendore della passione. Va! Ambedue le cose mi piacciono e se tu vuoi, sii tu l’eletto per mio sposo e signore.