Letteratura romena/IV. Contatti coll'Occidente

Da Wikisource.
IV. Contatti coll’Occidente

../III. Storiografia ../V. Titu Maiorescu e la «Junimea» IncludiIntestazione 7 giugno 2018 100% Da definire

III. Storiografia V. Titu Maiorescu e la «Junimea»
[p. 47 modifica]

Capitolo IV.


CONTATTI COLL’OCCIDENTE


Con la seconda metà del secolo XIX, incomincia un periodo nuovo nella storia della letteratura romena, i contatti coll’Occidente (Roma e Parigi) si moltiplicano, e ciò serve a ridestar nelle masse, illuminate dagli scritti degli storici e dei filosofi, la coscienza nazionale. L’unione, avvenuta (1700) col nome di «Biserica Unită» (Chiesa Unita) di parte degli ortodossi di Transilyania colla Chiesa di Roma, permise ad alcuni giovani ecclesiastici rumeni di fare i loro studii nelle Università Cattoliche di Vienna e di Roma, dove, in cospetto della colonna traiana, ascoltaron la voce dell’antica madre di tutti i popoli latini. Avvenne allora che quel senso di romanità che non si era mai spento attraverso i secoli più oscuri del medioevo, e di cui ci fan fede le parole di Innocenzo III in una delle sue lettere a Ioannițiu, imperatore dei Bulgari e dei Valacchi («Populus terrae tuae, qui de Romanorum sanguine se asserit descendisse»); rinforzato dalle opere storiche dei cronisti moldavi, che, come abbiam visto, avevan fatti i loro studi nelle università polacche, allora sotto lo influsso del Rinascimento italiano, diventasse coscienza nazionale, idea direttiva nella cultura romena. Samuil Micu, detto anche tedescamente Klein (1774-1806), Gheorghe Sincai (1753-1816) e Petru Maior (1755-1821), tornati in patria, riprendon la tesi dell’origin romana del popolo romeno già sostenuta da’ cronisti moldavi e combatton le teorie degli storici e filologi tedeschi e ungheresi che negavan la continuità e la persistenza dell’elemento romano sulla riva sinistra del Danubio (la famosa «teoria del Ròsler»), cercando di mostrare con argomenti storici e filologici che anche dopo l’abbandono della Dacia da parte dell’Imperatore Aureliano, un gran numero di Daci romanizzati rimase sulla riva sinistra del Danubio, non potendo ammettersi una deportazione in massa sulla riva destra di tutta una popolazione. [p. 48 modifica]Cogli «Elementa linguae daco-romanae sive valachicae» (Buda, 1780) di Samuil Micu e Gheorghe Sincai, la «Orthographia romana sive latino-valachica» (Buda, 1819), la «Istoria pentru inceputul Românilor in Dachia» (Buda, 1812) e del «Lexicon românesc, latinesc și unguresc» (Buda, 1825) di Petru Maior; incomincia l’attività di quella Scuola latinista di Transilvania che, con numerosi opuscoli pubblicati a Blaj, la cittadella del cattolicismo transilvano e residenza del vescovo unito, si proponeva l’abolizione dell’alfabeto cirillico (1) e la sostituzione delle parole d’origine slava con altrettante ricalcate sul latino.

Affermatasi sempre più in Transilvania per mezzo degli scritti di Simion Bărnutiu (1816-1864), Gheorghe Barit (1612-1893), Andrei Muresianu (1816-1864) e Timotei Cipariu (1805-1887) ed in Bucovina con Aron Pumnu (1818-1866), la Scuola latinista di Transilvania passa nella Romania propriamente detta (Valacchia e Moldavia) con Gheorghe Lazăr (1772-1824) ed August Treboniu Laurian (1810-1881) che, insieme col suo allievo I. C. Maximu, pubblicò per incarico dell’ «Accademia Romena» un dizionario («Dicționar al limbei române») in due volumi (1871-76), dal quale erano state escluse tutte le parole di origine slava e che rappresenta l’apice del movimento latinista.

Diamo qui un frammento del «Dialog pentru începutul limbei române» (Dialogo sulle origini della lingua romena) di Petru Maior come esempio delle teorie della scuola latinista:

PETRU MAIOR:

Dialogul pentru începutul limbei române


Nipote. — Nelle lingue italiana, gallica e spagnuola sembra ci siano parole latine in maggior numero che nella lingua romena. Da ciò argomento che la lingua romena si è corrotta ed a cagion di tale corruzione difficilmente gli Italiani possono intendersi coi Romeni nella conversazione.

Zio. — Gli Italiani, gli Spagnuoli e i Francesi, fin da quando hanno abbracciato la religione cristiana, han conservato nella loro chiesa la lingua latina colta. Per migliaia d’anni tra questi popoli non si scrivevan libri che nella lingua latina letteraria. I Romeni invece, per tutto quel tempo, non [p. 49 modifica] han più avuto contatto coi Romani, nè hanno appresa la lingua latina letteraria.

La lingua romena altro non è che la lingua romana come venne svolgendosi dal latino popolare risultante dalla fusione di elementi latini con altri dovuti alle lingue dei diversi popoli d’Italia, che furono assoggettati dai Romani e divennero una sola nazione con essi. Così si spiega perchè sempre in Italia la lingua romana fu divisa in diversi dialetti, atteso che, aggiungendosi alla nazione romana sempre nuovi cittadini, voglio dire i popoli assoggettati, questi non han potuto non mantenere alcune delle parole del loro linguaggio primitivo.

Da quanto si è detto si può agevolmente vedere che non la lingua romena, sibbene quella italiana e le altre derivate dal latino, han sofferto cambiamenti e per questa ragione gli Italiani, gli Spagnoli e i Francesi difficilmente possono ora intendersi coi Romeni nella conversazione. E similmente è chiaro che chiunque voglia giudicar rettamente intorno all’antica lingua del popolo romano, deve fondarsi sul romeno e non sulle altre lingue derivate dal latino.

Nipote. — Poche mi sembran le parole d’origine latina nella lingua romena; in questo caso dobbiamo forse credere che la maggior parte ci vengano dalle lingue degli antichi popoli d’Italia, che furono assoggettati dai Romani e poi fusi in una sola nazione?

Zio. — Nella lingua romena ci sono anche parole delle antiche lingue dei popoli assoggettati dai Romani, ma la maggior parte derivano dalla lingua latina. Molte parole della lingua latina popolare furon sostituite con altre o le troviamo in altra forma in quella latina letteraria e perciò sembrano non essere latine a chi ne consideri solo l’apparenza. Ma, se ti servirai della chiave e dell’ortografia da me trovate, per ricercar l’origine e la radice in esse nascoste, vedrai che son latine come quelle che si leggon nei libri scritti in latino letterario. Finché i Romeni scriveranno con lettere cirilliche non apparrà mai l’origin latina di tali parole. Di tanta fuliggine è coperto il loro volto nobilissimo, che, come sotto una nera maschera, resteranno nascoste senza speranza di riconoscimento!

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Conseguenza della «scuola latinista» fu quella «italianista» di Ion Heliade-Rădulescu (1802-1882) e di Gheorghe Asachi (1788-1869), che, rispettivamente in Valacchia e in Moldavia, introdussero l’influsso della lingua e della letteratura italiana. Mentre però l’Asachi si tenne stretto al campo letterario, Heliade Rădulescu, accanto a una intensa attività di critico e di traduttore, ne esplicò anche una filologica, ricollegandosi alla «scuola latinista di Transilvania» nella sua pretesa di sostituire le parole d’origine slava non più con parole d’origine latina, ma coniate, spesso arbitrariamente, su altrettante italiane e trasformando, soprattutto nel secondo periodo della sua attività filologica, la [p. 50 modifica] lingua romena in un comico gergo romeno-italiano, al punto da provocare una reazione, in seguito alla quale buona parte delle parole slave proscritte ripresero il loro posto nella lingua. Il più importante dei suoi scritti è il «Paralelism între dialectul italian și cel român» (1841), in cui considera il romeno come un dialetto dell’italiano e propugna la italianizzazione del romeno.

Eccone un brano:

HELIADE-RĂDULESCU:

Paralelism între dialectul italian și cel român


I fratelli nostri italiani hanno avuto come norma la lingua latina ed han coltivato la lingua del popolo romano, che è anche la nostra. Stando così le cose, che gl’italiani han fatto quello che non abbiam fatto noi, non sarebbe bene vedere un poco come han fatto? È bene continuare a tenerci stretti alla lingua francese, così povera di vocaboli, così anormale (rispetto cioè alla latina dalla quale si è maggiormente allontanata), così pericolosa per l’integrità della lingua nostra, che da dodici anni a questa parte l’ha corrotta al punto che a mala pena si riconosce? La lingua francese ci ha corrotto la lingua, il cervello, gli usi, i costumi, la religione, perchè pochissimi tra quelli che l’apprendono si rompon la testa con gli scrittori classici e nelle mani della gioventù si veggon soltanto romanzi spudoratissimi. Lo so per mia esperienza, perchè, quando avevo diciannove anni, la imparavo sui romanzi, e questa è forse la ragione per cui non l’ho mai saputa bene. Questa lingua non può nè apprendersi nè parlarsi, nè tanto meno scriversi senza l’aiuto di un’altra lingua, almeno di quella italiana; è una lingua povera di parole e ricca di frasi, in cui può scorgersi il carattere di un popolo che pensa poco e parla molto; è una lingua in cui la filosofia e la letteratura non han potuto fare il progresso che sarebbe stato necessario si fosse fatto nel nostro secolo...

Se invece risaliamo a Dante, troviamo nella lingua adoperata da lui e dagli altri della sua epoca delle parole identiche a quelle romene, come per es. loco, foco, ecc. invece di luogo, fuoco della lingua italiana odierna. Se poi percorreremo l’Italia, vedremo che in diverse regioni la pronunzia di alcune parole in cui nella nostra lingua troviamo u invece di o è assolutamente identica a quella romena. Per esempio nome, fronte, monte, ponte, morire, alcune popolazioni italiane le pronunziano come noi: nume, frunte, munte, punte, murire. La differenza tra la lingua nostra e quella italiana letteraria non consiste in altro che nel fatto che la nostra è rimasta ferma al suo primo stadio di evoluzione per quanto è stato possibile a un popolo perseguitato dalla sorte e dagli avvenimenti, mentre quella italiana, per quanto anch’essa soggetta alle invasioni dei popoli barbari, cominciò presto ad esser coltivata da’ suoi scrittori e poeti, sicché da molti secoli è lingua letteraria.

(Trad. di Ramiro Ortiz).

[p. 51 modifica]Queste idee filologiche di Heliade-Rădulescu (come del resto quelle dianzi esposte, di Petru Maior) sono — è inutile insisterci — in gran parte errate. Bisogna però ricordare che a quei tempi altre non meno errate erano in voga presso le più colte nazioni. Del resto l’opera di Heliade-Rădulescu non si limita a questi scritti filologici, ma interessa anche la letteratura. Egli fondò (1829) il primo giornale politico valacco (Curierul Românesc) e nel 1836 la prima rivista letteraria: il «Curierul de Ambe Sexe» (Corriere d’ambo i sessi); pose le basi di una «Societate Filarmonica» che costituì il primo germe dell’attuale «Teatrul National», sulle cui scene fece rappresentare il «Saul» dell’Alfieri, che, tradotto in romeno da Costache Aristia, suscitò un tale entusiasmo, che si trasformò in una dimostrazione politica degli eteristi greci (giovani appartenenti all’associazione segreta detta ’Eteria), cui si associarono i patrioti romeni aspiranti anche essi all’unità e all’indipendenza del loro popolo, e provocando le proteste del console russo, in seguito alle quali il Voda si vide costretto a far sospendere le rappresentazioni della «Società Filarmonica». Organo di questa società fu la «Gazeta Teatrului» che fu il primo giornale romeno di critica teatrale, fondato anch’esso da Heliade-Rădulescu.

A questo punto sarà bene dar qualche notizia sull’origine del teatro romeno.

Nell’inverno del 1817, Domnitza Ralù, animata dall’intenzione di riuscir gradita a tutti, anche a coloro che per caso non comprendessero il greco o non avessero per il teatro l’entusiasmo che aveva lei, fondò nella località che ora si chiama della Chiesa bianca (Biserica albă) e allora si chiamava della Fontana rossa (Cismeaua rosie) una sala di ballo e di trattenimento, nella quale, dice il Filimon, si radunavano boieri e cucoane a passar le lunghe sere d’inverno. Intorno al 1818 la sala di ballo si trasformò a poco a poco in un teatro della lunghezza di 18 stînjeni per 9 stînjeni e a 5 palmi di larghezza. Aveva tre ordini di palchi rivestiti di stoffa (postav) rossa e panneggiamenti di cambrì con frange bianche. Nella prima fila, a destra, un grosso sofà di velluto rosso per il Voda. Nella sala 14 file di banchi di legno rivestiti di stoffa rossa. Fra gli spettatori e la scena, alta 7 palmi dal suolo, sedevano i musici. Il sipario rappresentava [p. 52 modifica] Apollo colla lira in mano. La sala aveva press’a poco la forma di un uovo, senza alcun ornamento e senza alcuna pretesa di eleganza, come quella che era stata edificata in fretta e furia e solo in legno. Intorno alla sala e sul palcoscenico candelabri di ferro bianco con candele di sego, che due zingari vestiti di rosso smoccolavano fra un atto e l’altro. Quando il Voda si recava a teatro, le candele erano di cera. I palchi dell’ordine centrale erano naturalmente per la nobiltà, i consoli stranieri ed altri personaggi di grande importanza, e costavano un galben per sera. Gli altri erano a disposizione di chiunque per dieci lire. Un posto di platea, cioè fra i banchi, costava lire tre. Gli affissi erano scritti in greco... Di solito l’arrivo del Domnitor era annunziato dal Selam-Ciausul di Corte. Il pubblico doveva alzarsi in piedi e gridare tre volte: Trăiască Maria Sa! Viva «Sua Grandezza!» (2).

Su questo teatro furon rappresentate (in greco) l'Oreste e il Filippo di Vittorio Alfieri.

Tornando al nostro Heliade-Rădulescu, oltre a un poema epico sulle gesta di Michele il Bravo intitolato «Mihaida», in cui si sente fin da principio l’influsso della «Gerusalemme Liberata» del Tasso ed a parecchie poesie liriche originali — tra cui quella intitolata «Sburătorul» (L’incubo) merita d’esser citata per la facilità e scorrevolezza e per la delicatezza di alcune descrizioni naturali — Heliade tradusse dall’italiano i primi cinque canti della Divina Commedia (in prosa) parecchi canti della «Gerusalemme Liberata», qualche ottava dell’«Orlando Furioso», poesie del Rolli, del Vittorelli, del Pindemonte, ecc. Le pagine però delle sue riviste son piene di articoli critici, novelle, informazioni, aneddoti d’ogni specie d’argomento italiano anche se spesso tradotti dal francese da lui stesso o da’ suoi collaboratori; e soprattutto in essi e nella sua attività editoriale consiste l’importanza del suo «italianismo». Troviamo infatti nel suo «Manifestul pentru publicarea unei «Biblioteca Universale» (Manifesto per la pubblicazione di una «Biblioteca Universale») i nomi del Vico, Burlamacchi, Beccaria, Filangieri, Galileo, Dante, [p. 53 modifica] Tasso, Foscolo, Petrarca, Metastasio, ecc., come rappresentanti rispettivi della Filosofia, del Diritto, dell’Economia Politica, della Prosa Scientifica, del Poema epico, della Tragedia e della Lirica italiana. Certo è strano che Dante figuri in questa lista come poeta... epico, il Monti, il Manzoni e il Foscolo sian compresi in essa solo in quanto autori di Tragedie e il Metastasio unicamente come poeta lirico; ma per l’epoca di cui parliamo è già molto quanto l’Heliade si proponeva di fare per la diffusione in Romania della nostra letteratura.

Citiamo qualche strofa della sua poesia più riuscita: Sburător:

L’INCUBO (3)


Vedi un po’, mamma, che male mi fa soffrire
e perchè così forte mi batte il cuore nel petto:
strane lividure mi trovo la mattina sul seno,
in me arde un fuoco continuo e brividi mi corron per le reni!


Mettimi, mamma, la mano sulla fronte: che sudori!
Le guance... una scotta, l’altra è fredda come ghiaccio;
un nodo mi stringe la gola, il fianco mi duole,
tutto il corpo mi è pervaso da uno strano sopore.


Che sarà ciò? Domandane alla nonna:
ella un rimedio conoscerà di certo!
Che non sia un Incubo? Va’ dalla fattucchiera,
o dal prete del villaggio, o dal vecchio indovino!


Non appena si fa giorno e apro al vitello la stalla,
per condurlo sul sentiero a pascer l’erba nel prato,
quanto è più lungo il giorno (e il giorno d’estate!)
una tristezza profonda mi vince e piango, mamma, piango.


Il vitello pasce l’erba, a me daccanto,
al ruscelletto beve, sulle sue sponde errando,
nè m’accorgo se s’allontana, chè sol quando torna mi riscuoto,
sentendo come i cespugli si muovono e i rametti scricchiolano.


Allora il cuore mi batte e, come in sogno, sussulto
e mi par d’aspettar... chi? e mi par che sia giunto.
Così tutta la vita mi passa in una continua attesa
e alcuno non giunge. Che strazio indicibile!

· · · · · · · · · · ·
[p. 54 modifica]

Così piange Florica e il suo dolore effonde
sul ballatoio, accanto alla madre, e la tristezza la vince;
mugge nell’aia la giovenca e guarda verso la stalla,
la mamma sta soprappensieri e la fanciulla sospira.


Era verso il crepuscolo e il sole tramontava,
le antenne (4) dei pozzi, stridendo, sembravan richiamare
al villaggio la mandra, che, a poco a poco giungeva
e, muggendo, s’incamminava all’abbeveratoio,


mentre i buoi che avevan già bevuto entravan nell’aia,
le mucche, con gemiti materni, chiamavano i redi,
l’aria vespertina vibrava al muggito dei tori
e i vitellini, saltellando allegri, correvano alle mammelle delle madri.


Ma anche questi rumori cessano: si sente distintamente
sussurrare il rivolo del latte nella pace della sera,
mentre la mammella s’abbandona alla mano verginale che la preme,
e il redo piccolino rabbrividisce tutto, scodinzolando all’intorno.


L’una dopo l’altra le stelle cominciano a risplendere sul cielo,
e lumi ad apparire alle finestre del villaggio,
tardi questa sera sorge anche la luna
e (cattivo augurio) di tanto in tanto cade una stella.


Ma i lavori nel campo hanno stancato il contadino,
ed ecco che, dopo una parca cena, s’abbandona al sonno;
silenzio dappertutto ora si stende
e solo il latrar dei cani s’ode ininterrotto.


È notte alta, fonda; dalla volta del cielo
il suo nero velo cosparso di stelle d’argento
avvolge i mortali, che, nelle braccia del sonno,
sognano realizzati i desiderii che desti non hanno osato sognare.


Tutto è silenzio e immobilità perfetta,
un canto (o un incantesimo?) sul mondo s’è posato,
non una foglia trema, non un soffio di vento spira,
persin l'acque dormon profondamente e i mulini han taciuto.

· · · · · · · · · · ·

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Passando all’Asachi, ci limiteremo a dire che egli fu per la Moldavia ciò che Heliade-Rădulescu fu per la Valachia. Nato ad Herța (Bucovina) il 1788, morto a Iași il 1869, egli fece i suoi [p. 55 modifica] studii a Lemberg e Vienna (filosofia ed ingegneria) e a Roma, dove si recò per perfezionarsi nel disegno e nelle belle arti. L’episodio più saliente della sua vita fu il suo amore per Bianca Milesi, la ben nota ammiratrice dell’Alfieri e una delle più attive «giardiniere» del nostro Risorgimento. La conobbe a Roma nello studio del Canova che ambedue frequentavano e scrisse per lei delle poesie italiane di tono tra petrarchesco ed arcade, che lesse nelle tornate di una «Società Letteraria Romana» di cui non sappiam più nulla e pubblicò dapprima nelle colonne di un giornaletto letterario che par fosse l’organo di detta società e s’intitolava «Il Campidoglio», poi in un volume di «Poezii», accompagnandole con una traduzione in versi romeni. Tornato in patria, fondò l’«Albina Românească» (l’Ape Rumena), il cui motto:

Spune, spune, mica albină,
incontro mergi acum trează?


(Di’, di’, piccola ape — dove vai desta così di buon tempo?)

ricorda abbastanza da vicino i noti versi del Meli:

Dimmi, dimmi, apuzza nica,
unni vai cussi matinu?


e che, come il «Curier de Ambe Sexe» di Heliade-Rădulescu, abbonda in articoli riferentesi all’Italia. Piena di sentita ammirazione è la sua «Oda la Italia» (Ode all’Italia), benché l’Italia dell’Asachi non fosse che la solita «terra dei suoni, dei canti, dei carmi» cara ai romantici, non quella che, all’epoca in cui visse a Roma, affilava già nell’ombra delle società segrete le spade che presto sarebbero brillate al sole delle battaglie del Risorgimento.

Diamo come esempio della poesia dell’Asachi questo sonetto italiano recentemente scoperto e pubblicato dal nostro ex scolaro Alexandru Ciorănescu:

Tempo fu già che tra servii catena
Amor tiranno a suo piacer mi strinse,
quando colei, ch’ogigi rammento appena,
d’esser fida al mio cor barbara finse.


Ma, franto il laccio, e se tormento e pena
costommi il dì ch’un guardo suo mi vinse,
or torno a respirar l’aura serena
e di maschio valor l’alma si cinse.

[p. 56 modifica]

Frema l’ingrata e morda il labbro indegno
onde liete speranze a me porgea,
ch’io non curo e non temo il suo disdegno.


E, se parventi un dì d’Amor la Dea,
mentre dell’alma mia tutto ebbe il regno,
or detesto col nome anche l’idea.


Ma anche più caratteristico, benché anche più zoppicante in sintassi è il seguente:

D’Aniene alle fiorite e fresche rive
pasce il gregge d’avene al suon Alviro (5)
e spesso un dolce del suo cor martiro
in sull’arena Bianca (6) mesto scrive.


Tesse fiscelle, verghe estive
piegando in nuovo maestrevol giro;
con ogni nodo ei tesse un sospiro
e mille, Amor, soavi rime e schive.


D’ambrosio latte il condensato siero
nè da Sabina ancor il Sol risorge
che in vaso accoglie con gentil pensiero (7.).


Non mai fra sue primizie Pale scorge
a questa opra simil, ch’un cor sincero
a Leuca (8) bella in umil dono porge.


Alle correnti latinista e italianista possiamo riconnettere l’attività letteraria del transilvano Ion Budai-Deleanu (1764-1820), che, oltre ad una grammatica rumena in lingua latina e ad altri [p. 57 modifica] scritti d’indole filologica, ancora inediti, scrisse un interessante poema eroicomico ad imitazione della «Secchia rapita» del Tassoni, intitolata «Tiganiada» (La Zingareide), e, nella Romania propriamente detta, Ienăchită Văcărescu (1730-1799) autore di brevi poesiole in cui — come in quelle di Costache Conachi (1777-1849) e Costache Stamati (1777-1868) — si sente l’influsso della poesia neo-anacreontica del poeta neo-ellenico Athanasie Christopoulos (9), de’ suoi figli Alecu e Niculae e del nipote Iancu Văcărescu, imitatore e traduttore («La Partenza») di canzonette metastasiane, che, insieme con Alecu Beldiman (17601826), traduttore della «Clemenza di Tito» del Metastasio, subirono un po’ tutti gl’influssi (latinista, italianista, neo-ellenico e francese) e non possono perciò collocarsi che in un gruppo a parte, che potrebbe denominarsi «di transizione».

Ci converrà ora rifarci un poco indietro, per cogliere alle origini i primi segni (10) di quell’influsso francese che doveva assumere col tempo tali proporzioni da provocar le proteste del Iorga nei primi anni della sua attività politica e recentemente, nelle colonne della rivista «Vremea» (Il Tempo) un «referendum» sul quesito: «Dobbiamo proprio rassegnarci a non esser altro che una colonia della cultura francese?» I primi germi di questa cultura furon portati sì in Moldavia che in Muntenia (Valacchia) dai principi fanarioti (Greci della contrada aristocratica di Costantinopoli detta del Fănàr) mandati dalla Sublime Porta a governare i due principati vassalli di Moldavia e Muntenia. Costoro chiamarono alla loro corte segretarii e precettori francesi così come i principi autoctoni avevan chiamato segretarii e precettori italiani. Ciò contribuì molto alla diffusione della lingua e quindi della cultura francese. Ma ci furon altre cause concomitanti, quali per esempio l’occupazione russa della Moldavia, che mise il mondo elegante moldavo a contatto degli ufficiali russi [p. 58 modifica] (quasi tutti di cultura francese) e determinò, coll’abbandono dei caftani e degli enormi cappelli (islicuri) che facevan sì che due «boieri» non potessero andare insieme nella medesima carrozza, anche la moda dei viaggi a Parigi e della lingua francese come lingua di salotto e dei ritrovi eleganti. Ci fu poi la Rivoluzione Francese che costrinse molti nobili e intellettuali ad emigrare e guadagnarsi il pane insegnando la loro lingua. Gli allievi di tali precettori (spesso coltissimi) preferirono naturalmente l’università di Parigi a quelle italiane, tedesche e polacche frequentate fino ad allora, e la cultura francese si venne sempre più affermando. In mancanza di una tradizione di cultura classica, l’influsso di una cultura quale la francese (classica e moderna al tempo stesso) fece molto bene alla ancor balbettante lingua e cultura romena, sveltendone le espressioni ed orientandola decisamente verso l’occidente latino. Certo la sua assoluta preponderanza durante quasi un secolo e le basi non troppo salde su cui riposava finirono, in alcuni dei più fanatici seguaci, collo snaturare l’indole stessa della lingua e della sintassi romena, che dovè rinunziare alla costruzione inversa, al periodo ipotattico, allo stile solenne e fiorito, con molto danno della sua originalità. Tuttavia, in mancanza di un influsso latino diretto che certo sarebbe stato desiderabile, ma che ragioni storiche imprescindibili avevan reso impossibile (il distacco dalla Romania dalla Chiesa di Roma e la sua conseguente attrazione nell’orbita dell’ortodossismo slavo e bizantino fu un fatto che produsse un danno incalcolabile al libero evolversi della cultura romena); la cultura francese rappresentò per la Romania «la cultura latina viva nella sua forma più assimilabile» e fu feconda in risultati artistici e letterarii.

Il movimento politico e letterario della Romania intorno al 1830-1850 è addirittura sorprendente. Dopo la perniciosa dominazione dei principi fanarioti, occupati unicamente ad arricchirsi alle spalle del paese, del quale solevano acquistar la corona all’incanto, sospettosi, crudeli, corrotti e corruttori; la Romania sembrava sull’orlo di un precipizio orribile, quando, per opera di quella medesima letteratura francese che i fanarioti avevano importata come oggetto di lusso senz’accorgersi che buona parte di essa bandiva le idee di libertà e d’indipendenza; della rinata coscienza nazionale per opera della «Scuola latinista di [p. 59 modifica] Transilvania» e dell’attività veramente miracolosa di Gheorghe Lăzar, fondatore della prima scuola romena nazionale (il celebre «Collegio di San Sava»), in cui per la prima volta il romeno fu adottato come lingua d’insegnamento invece del greco, Gheorghe Asachi ed Heliade-Rădulescu, ai quali il popolo romeno non si è contentato d’innalzar monumenti sui pubblici «boulevards» della capitale, ma ha edificato addirittura un tempio nel suo cuore; le migliori energie si ridestarono e la catastrofe potè esser scongiurata.

Codesto influsso francese, il cui vero rappresentante direi essere l’Alexandrescu, fu negli altri temperato da una nuova tendenza di carattere eminentemente nazionale, che comincia ad apparire dopo il 1840 e si propone di reagire contro le esagerazioni delle scuole «latinista» e «italianista». Attingendo la sua ispirazione alle tradizioni popolari e nazionali, essa riuscì a fondere il movimento valacco con quello moldavo. Il rappresentante principale di questa nuova corrente fu Mihail Kogălniceanu (1817-1891), uomo dottissimo che aveva fatti i suoi studii in Francia e in Germania al tempo della «Junke Deutschland», alle cui tendenze aderì; ed uomo politico della massima importanza (un po’ il Cavour della Romania) che preparò l’unione dei due principati di Moldavia e di Valacchia sotto lo scettro di Ioan Cuza I (eletto contemporaneamente in Moldavia e in Valacchia), e legò il suo nome a tre riforme politiche e sociali d’importanza capitale: l’abolizione della servitù degli zingari, la divisione delle terre ai contadini e la cosidetta secolarizzazione delle proprietà dei monasteri, quasi tutte in mano di monaci greci e che perciò finivano coll’essere sottratte al patrimonio nazionale. Nella sua rivista «Dacia Literară» (1840) il Kogălniceanu (alle cui idee aderirono Dimitrie Bolintineanu, Niculae Bălcescu, Costantin Neguzzi, e, più tardi, Alecu Russo) propugnò l’unificazione della nazione romena per mezzo della cultura e della nazionalizzazione della letteratura. Incominciarono quindi a pubblicarsi le antiche cronache e i canti popolari, sull’importanza dei quali avevano attirata l’attenzione lo Humboldt e lo Herder, e la lingua romena si arricchì di una gran quantità di vocaboli e di espressioni vivaci colte sulle labbra del popolo.

Diamo qualche esempio della prosa del Kogălniceanu: [p. 60 modifica]

I.


Dal «Discorso sulla questione agraria» di Mihail Cogalniceanu.

Oh, movetevi a pietà di tre milioni di cittadini, che, colle loro donne e bambini, benché tenuti fuori ed estranei alle nostre discussioni, han gli occhi fissi alla Collina della cattedrale (11) come al sole della redenzione, e tendon le mani verso di voi!

Oh, non vogliate lesinare la zolla di terra necessaria all’alimentazione del contadino. Pensate ai dolori, alle sofferenze, alla miseria del loro passato. Pensato all’origine delle vostre ricchezze e ricordatevi che in gran parte le dovete alle loro fatiche ed ai loro sudori. Considerate che i loro padri han combattuto accanto ai nostri per la salvezza della Patria e dell’Altare. Pensate che domani potrebbe sonar di nuovo l’ora del pericolo e che, senza di essi, non potreste difender nè la patria nè le vostre ricchezze e diritti e che una volta disfatti i nostri eserciti, non sareste che servi degli stranieri, mentre oggi siete alla testa della Rumania, di una nazione libera e autonoma. Ricordatevi che, in tempi d’occupazione straniera, molti di noi passavano i confini e riparavano all’estero, ma i contadini restavano e ci guardavan le terre, le sostanze. Considerate qual fosse la sorte dei nostri disgraziati contadini in quei tristi tempi!

Ricordatevi che essi e loro donne eran trattati come bestie da lavoro, aggiogati ai carri dei Russi e che le pianure della Dobrogia e della Bulgaria biancheggiano ancora delle ossa di migliaia di contadini romeni!

Oh, movetevi a pietà di loro, movetevi a pietà della nostra patria.

Oh perchè non sorge tra di voi qualcuno dei discendenti degli antichi Principi romeni o dei compagni di lotte di Stefano il Grande o di Michele il Bravo, di Scerban Cantacuzino o di Grigore Chica per mettersi a capo della grande riforma, innalzando la bandiera dell’emancipazione dei contadini, come han fatto in Ungheria i discendenti di Zriny e di Bathiàny, in Russia le più belle e nobili figure dell’aristocrazia tedesca, come per esempio il Principe di Hardenberg, e che, persino in Russia, tra i promotori di una consimile riforma vediamo i rappresentanti della più antica e autentica nobiltà moscovita!

Oh, se Dio volesse aver pietà di questo paese e intenerire i cuori induriti!

Perchè non ho io l’eloquenza necessaria per far sì che il mio pensiero trionfi delle idee egoiste, dei timori infondati, degli interessi meschini, sì che questa riforma così grande e così nazionale si decida non con lotte parlamentari di partiti, con una qualsiasi maggioranza, ma accettata da tutti con voto unanime del Parlamento Romeno?...

...Non crediamo, Signori, di poter seppellire con un voto il diritto dei contadini.

No, o Signori, la giustizia non muore; come il corpo di Gesù potrà esser seppellita, ma risorgerà!...

(Trad. di Ramiro Ortiz).

[p. 61 modifica]

II


Dall’articolo-programma della «Dacia Letteraria»:

Il nostro fine è che i Rumeni abbiano una lingua e una letteratura comune a tutte le provincie del Regno.

Il desiderio d’imitare altri popoli è divenuto in Rumania una mania pericolosa perchè uccide in ciascuno di noi lo spirito nazionale. Questa mania è perniciosa soprattutto in letteratura. Escono ogni giorno dai torchi libri scritti in rumeno. Che pro, se non son che traduzioni — e neppur buone — da lingue straniere? Noi combatteremo con tutte le nostre forze codesta mania dannosa al gusto dell’originalità: la virtù più preziosa di una letteratura. La storia nostra vanta abbastanza fatti eroici, le nostre belle contrade sono abbastanza estese e i nostri usi abbastanza pittoreschi e poetici perchè anche da noi si possan trovare argomenti degni d’esser trattati letterariamente senz’avere bisogno perciò di prenderli a prestito dalle altre nazioni. Le traduzioni saranno rarissime nel nostro foglio. Ne riempiremo le colonne quasi esclusivamente di composizioni originali.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Dal punto di vista teorico i più attivi collaboratori del Kogalniceanu furono il Bălcescu e il Russo, il primo dei quali scrisse nella più pura lingua rumena che si fosse mai adoperata la sua «Istoria Românilor sub Mihai-Vodă Viteazul» (Storia dei Romeni sotto Michele il Bravo), l’altro un poemetto in versetti biblici intitolato «Cântarea României» (Cantico della Rumania), che gli fu ispirato dalle «Paroles d’un croyant» del Lamennais (12). [p. 62 modifica] Dalla «Storia dei Romeni sotto Michele il Bravo» di N. Balcescu.

Apro il sacro volume, dove si trova scritta la storia della Romania per mettere sotto gli occhi de’ suoi figli alcune tra le pagine della vita eroica de’ loro padri. Mostrerò le lotte gigantesche per la libertà e l’unità nazionale, con cui i Romeni, sotto la guida del più rinomato e grande de’ loro Voivodi, chiusero il secolo XVI.

Il mio racconto comprenderà solo otto anni — 1653-1601 — ma gli anni della storia romena più ricchi di gesta eroiche, in esempi meravigliosi di sacrificio per la Patria.

Tempi di glorioso ricordo! tempi di fede e di sacrificio! quando i nostri padri, sublimi credenti, s’inginocchiavan sui campi di battaglia, chiedendo al Dio degli eserciti gli allori della vittoria o la corona del martirio, e, così rinfrancati, si slanciavan uno contro dieci nel folto dei nemici, e Dio concedeva loro la vittoria, perchè è sua volontà che i popoli sian liberi, sì che chiunque lotta per la libertà, lotta anche per Dio.

Eredi dei diritti, per difendere i quali i nostri padri lottarono nei secoli passati, auguriamo che il ricordo di quelle epoche eroiche infonda in noi il senso del dovere che c’incombe di accrescere per l’avvenire questa preziosa eredità.


Dalla «Cântarea României» di Al. Russo.


I.


Il Signore, il Signore Iddio de’ nostri padri si è forse mosso a pietà delle tue lagrime, o Patria mia? Non sei abbastanza umiliata, abbastanza tormentata, abbastanza straziata? Vedova de’ tuoi eroi, tu piangi colle chiome dilaniate e sparse sui loro avelli come la sposa che si lamenta sul muto sepolcro del marito. [p. 63 modifica]

II.

Le genti udirono il grido del tuo strazio e la terra tremò. Che solo Iddio non l’abbia udito? Il vendicatore annunziato non è forse nato ancora?

III.

Qual’è più bella di te fra tutte le nazioni disseminate da Dio sulla terra? Qual’altra si adorna ne’ giorni di festa con fiori più belli, con messi più ricche?

IV.

Verdi son le tue colline, magnifiche le tue foreste e ameni i boschi che pendon da’ tuoi fianchi; limpido e dolce è il tuo cielo; i monti tuoi s’innalzano superbi nell’azzurro; i fiumi circondano come una cintura azzurra le tue pianure; le tue notti incantano i sensi... Perchè il tuo sorriso è così triste, o bella Patria mia?

V.

Molti e bei greggi pascolan le tue valli; il sole benigno rende fertili i tuoi solchi; la mano di Dio ti ha adornata come una sposa novella; le tue praterie sono smaltate di fiori e l’Abbondanza versa su’ tuoi campi le sue ricchezze... O mia ricca Patria, perchè piangi?

VI.

L’antico Danubio, vinto da’ tuoi padri, ti bagna il lembo del mantello e ti arreca le ricchezze delle terre dove sorge il sole e di quelle dove il sole tramonta; l’aquila dall’alto de’ cieli guarda verso di te come verso la sua patria; i fiumi belli e spumanti, i torrenti veloci e selvaggi cantan di continuo la tua gloria... O eccelsa Patria mia, perchè hai il viso coperto di gramaglie?

· · · · · · · · · · ·
· · · · · · · · · · ·


LI.

Dèstati, Patria mia! Domina il tuo dolore! è tempo di uscir da questo tuo abbattimento di morte. Attendi forse, per risorgere, che i tuoi avi sorgan dai sepolcri? In verità ti dico: essi si son levati e tu non li hai visti;...essi han parlato e tu non li hai uditi... Cingiti i lombi, guarda e ascolta!... Il giorno della Giustizia s’avvicina... tutti i popoli si muovono... la tempesta della redenzione è cominciata!...

(Trad. di Ramiro Ortiz).

Ma tra i seguaci delle teorie letterarie del Kogălniceanu, il più importante del punto di vista letterario è indubbiamente Costache (13) Negruzzi (1808-1869), che, oltre che per un poemetto intitolato «Aprodul Purice» (Il Paggio Pulce), il cui argomento [p. 64 modifica] è tolto da un episodio delle antiche cronache romene; è noto soprattutto come novelliere ed autore di quel vero capolavoro ch’è «Alexandru Lăpușeanu», vigorosa novella storica tratta da un episodio della vita di questo feroce Voda rumeno, che, durante un banchetto, fece spietatamente trucidare quaranta «boieri» e ne dispose le teste a piramide per «guarir dalla paura» la consorte inorridita dalle sue continue crudeltà e che finisce, d’accordo col Metropolita, coll’avvelenarlo per liberar la Moldavia da un simile mostro. Malgrado, come aderente al programma del Kogălniceanu, il Negruzzi s’ispiri di preferenza alle antiche cronache romene, risente dell’influsso letterario francese, soprattutto del Mérimée, del quale tradusse la novella «Federigo», localizzandola in Moldavia col titolo di «Toderică».

Diamo qui la traduzione italiana del brano più caratteristico della novella del Negruzzi:


Dall’ «Alexandru Lăpușneanu» di Costache Negruzzi.

Lăpușneanu comandò di sparecchiar la tavola e di toglier via le posate; poi fece tagliare le teste agli uccisi e buttarne i corpi dalla finestra. Dopo di che, prendendo le teste, le dispose in mezzo alla tavola con calma e ordine, mettendo sotto quelle dei «boieri» di minore importanza e di sopra quelle dei più grandi, a seconda delle famiglie e delle cariche, finché ebbe formata una piramide di 47 teste, il cui vertice coprì con quella di un Gran Logotheta. Poi, lavatesi le mani, si diresse verso una porta laterale, tirò il chiavistello e la barra di legno che la chiudeva ed entrò nell’appartamento della principessa.

La buona principessa, spaventata da tutto quel chiasso, pregava davanti all’icona, avendo accanto i figliuoli. — Ah! — gridò lei — gloria alla Vergine Santa che ti vedo! Ho avuto una gran paura!

— A ciò, come ti avevo promesso, ho trovato per te un rimedio. Vieni con me, Principessa!

— Ma... quelle grida, quegli urli che ho uditi?

— Nulla! I «boieri» si sono azzuffati tra di loro, ma io li ho calmati.

Ciò dicendo, prese Ruxanda per mano e la condusse nella sala del banchetto. Allo spettacolo orrendo, ella dette un grido acuto e svenne.

— Le donne son sempre donne! — disse Lăpușneanu sorridendo — invece di rallegrarsi, ecco che si spaventa!

E, presala in braccio, la portò ne’ suoi appartamenti.

· · · · · · · · · · ·

Al massacro nel palazzo seguì la strage nel cortile. I servi dei «boieri», vedendosi aggrediti alla sprovvista, presero la fuga. I pochi che, riuscendo a oltrepassare le mura, si salvarono, dettero l’allarme nelle case dei «boieri»; e, raccolti altri servi e nobili uomini, sollevarono il popolo. Allora tutta la città accorse verso il cortile del Palazzo, e cominciarono ad [p. 65 modifica] abbatterne il portone colle accette. I mercenari, storditi dall’ubriachezza, non opponevano che una debole resistenza. La folla ingrossava sempre più.

Lăpușneanu mandò l’«arma?» (14), che lo aveva informato dell’assalto, a domandar che cosa volessero. L’armaș uscì.

— Uomini buoni — gridò l’«armaș» — Sua Grandezza il Voda domanda che cosa volete, che chiedete e perchè siete venuti qui in così gran numero.

La plebaglia rimase a bocca aperta. Non si aspettava una simile domanda. Era accorsa senza sapere il perchè. Cominciò a raccogliersi a gruppetti e tutti si domandavano l’un l’altro che cosa si dovesse chiedere. Infine cominciarono a gridare:

— Abbasso i tributi! Non ci opprimete!

— Non ci saccheggiate più! Non ci portate alla rovina!

— Siamo ridotti alla miseria! Non abbiam più un soldo! Motzoc ce li ha presi tutti! Motzoc! Motzoc! È lui che ci manda in rovina spogliandoci di tutto! È lui che consiglia il Voda! A morte!

— Muoia Motzoc! La testa di Motzoc vogliamo!

· · · · · · · · · · ·

— Che vogliono? — domandò Lăpușneanu, vedendo entrare l' «armaș».

— La testa del «vomic» (15) Motzoc — rispose questi.

— Come? Che cosa? — gridò Motzoc balzando come un uomo che calpesti un serpe — non avrai udito bene, amico! Oppure hai voglia di scherzare, ma affé mia non è il momento! Che modo di parlare è il tuo? Ti dico che sei sordo, che non hai udito bene!

— Benissimo, invece — disse il vecchio Alessandro — ascolta tu stesso. Le loro grida s’odon di qui.

Infatti i soldati non resistevano più e il popolo aveva cominciato a dar la scalata alle mura, e di là gridava:

— Dateci Motzoc! La testa di Motzoc vogliamo!

— Oh, poveretto me peccatore! — gridava il disgraziato — Madre Vergine Immacolata, non permettete che io muoia così! Ma che ho fatto a codesti uomini? Madre del Signor Nostro Gesù Cristo, salvami da questo frangente e giuro che ti farò costruire una chiesa, che digiunerò per quanti giorni mi resteranno a vivere, e rivestirò d’argento la tua icona miracolosa del monastero di Neamtz!... E tu, misericordioso Signore, non li ascoltare questi vili pezzenti, questi villani! Comanda che siano spazzati via da’ tuoi cannoni. Muoiano pur tutti! Io sono un grande «boiaro», essi non sono che dei vili pezzenti.

— Pezzenti, ma molti! — rispose Lăpușneanu freddamente — se perisse una intera moltitudine di uomini per un uomo solo, non sarebbe peccato? Giudica tu stesso. Devi morire per il bene della tua patria, come tu stesso dicevi quando mi riferivi che il paese non mi voleva e non mi [p. 66 modifica] amava. Son felice che il popolo ti ricompensi del servizio che mi rendesti col vendermi alle soldatesche di Antonio Székély, e per di più coll’abbandonarmi, passando dalla parte di Tomscia.

Oh me disgraziato! — gridò Motzoc, strappandosi la barba, giacché dalle parole del tiranno capiva che ormai non c’era più salvezza per lui.

— Almeno lasciate che io dia assetto alle mie cose! Abbiate pietà della mia sposa, de’ miei bambini! — E piangeva, e gridava e sospirava.

— Via — gridò Lăpușneanu — non piangere come una donnicciuola!

Sii un uomo forte. A che ti confesseresti? Che hai da dire al confessore? Che sei un brigante e un traditore? Questo lo sa tutta la Moldavia. Andiamo! prendetelo, gettatelo al popolo e dite che quelli che saccheggiano il paese son pagati così dal Voda Alessandro.

Allora l’«armaș» e il capitano dei mercenari cominciarono a trascinarlo. Il «boiaro» urlava quanto poteva, volendo difendersi; ma che cosa potevano fare le sue deboli mani contro quattro braccia vigorose?

Voleva puntare i piedi, ma inciampava nei corpi dei suoi confratelli, e scivolava nel sangue che s’era aggrumato sul pavimento. Infine le forze gli vennero meno e i satelliti del tiranno, trascinatolo sino alla porte del cortile più morto che vivo, lo spinsero fra la moltitudine.

Il disgraziato «boiaro» cadde nelle braccia di quell’idra dalle molte teste, che in un batter d’occhio lo fece a pezzi.

— Così paga il Voda Alessandro quelli che saccheggiano il paese! — gridarono gl’inviati del tiranno.

— Viva Sua Grandezza il Voda! — rispose la folla.

E rallegrandosi di questo sacrifizio, si disperse.

(Trad. di M. Bulciolu, Lanciano, Carabba, 1931, pp. 29-35).


Se, da una parte, come raccoglitore e primo editore (1866) dei canti popolari romeni (Poezii populare ale Românilor) anche Vasile Alecsandrì (1819-1890) ci appare strettamente legato al movimento letterario capitanato dal Kogălniceanu; dall’altro, come poeta, prosatore e soprattutto come commediografo e drammaturgo, egli ci appare sotto un preponderante influsso francese. Fu anche uomo politico e preparò, in alcune sue interviste con Napoleone, Vittorio Emanuele e Cavour, il riconoscimento da parte della Francia e dell’Italia dell’awenuta «Unione dei Principati» nella persona del «Domnitorul» Ioan Cuza I eletto contemporaneamente in Moldavia e in Valacchia. Trovandosi in Italia all’epoca delle battaglie della nostra indipendenza, cantò le vittorie (Goito, Pastrengo, Santa Lucia ecc.) delle nostre armi in liriche occasionali di non molto valore artistico, ma piene d’entusiasmo per la causa italiana. Scrisse anche una novella d’argomento fiorentino: «Buchetiera din Florență» (La fioraia fioren[p. 67 modifica]tina), che risulta però, malgrado la realtà del personaggio della protagonista (di cui si conserva alla biblioteca dell’«Accademia Rumena» un telegramma di condoglianza per la morte dell’Alecsandri) d’ispirazione francese. Dopo la morte della madre, si ritirò per qualche tempo nella sua tenuta avita (moșie) di Mircești ed ivi cominciò a raccogliere i meravigliosi canti popolari rumeni, che rielaborò con discrezione e senso d’arte finissimo. Contemporaneamente compose anche delle poesie originali ispirate sia per l’argomento che per la forma ai canti popolari, che raccolse sotto il titolo di «Dòine» e destarono vivissima ammirazione. Innamoratosi di Elena Negri, sorella di un suo amico, fece con lei un viaggio in Italia, durante il quale ambedue fecero a Palermo una ben triste visita al Bălcescu, che trovarono quasi agonizzante dopo un accesso d’emottisi. La visita fu tanto più triste in quanto anche Elena Negri era ammalata della medesima malattia, della quale morì poche settimane dopo a Costantinopoli durante il viaggio di ritorno. Il dolore inconsolabile dell’Alecsandrì per la perdita della sua fidanzata si trova riflesso in una raccolta di versi intitolata «Lăcrămioare» che vuol dire in romeno «mughetti», ma anche «lagrimucce» fra le quali citeremo (per la popolarità che ebbe e di cui gode ancora grazie alla melanconica musica di cui l’adornò il Florescu) la celebre «Steluța» (Stellina) che anche oggi si canta dappertutto in Rumania adorna di quelle romantiche melodie dell’Ottocento che ora incominciano ad acquistare il fascino delle belle cose passate. Ma le poesie più belle e originali dell’Alecsandrì sono i «Pastèle» (Pastelli), in cui canta le semplici gioie della vita campestre nella casa che fu degli avi, quando l’inverno ricopre di un candido lenzuolo silente tutto all’intorno, la neve scintilla al sole ed il poeta attraversa le candide solitudini sulla slitta dai campanelli che squillano allegramente, o, accanto al camino, ode sibilare il vento, mentre le fiamme proiettano sul pavimento strani disegni d’ombre e di luci (16). [p. 68 modifica]

I.


Dalle «Poesie Popolari Romene».

LO SPARVIERO E IL FIOR DI FRAGOLA

Su in vetta a un abetino
s’è posato uno sparvierino,
egli guarda fisso al sole,
sempre agitando l’ali.
Giù ai piedi dell’abete
cresce il fior della fragola.
Esso dal sole si guarda
e all’ombra si tien stretto:
— Fiorellino di montagna,
io son sparviero di buon lignaggio,
esci dall’ombra, dal cespo,
ch’io ti vegga alla luce il visino,
che fino a me è arrivato
il profumo dolce che spandi,
sicché mi son fitto in capo
di prenderti su di un’ala
e portarti vicino al sole
finché tu dia frutto
e di me t’innamori.
— Sparvierino bel parlante,
ognuno col suo destino:
tu hai l’ale per volare,
per innalzarti fino al sole,
io all’ombra, al fresco,
ho il destino di un fiore.
Tu ti culli su nel vento,
io mi cullo sull’erba;
va’ per la tua strada, con Dio

[p. 69 modifica]

e non pensare a me,
chè il mondo è abbastanza largo
per un uccello e un fiore.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


II.

STELLINA


Tu che sei perduta nella nera eternità,
stella dolce e diletta dell’anima mia,
che una volta splendevi così viva,
quando eravamo al mondo tu sola ed io;

o blanda, commovente, misteriosa luce,
in eterno ti cerca il mio rimpianto,
e spesso a te, quando la notte è più serena,
sui pianori dell’eternità s’innalza con lungo volo.

Passarono anni di lacrime e molti ne passeranno ancora
dall’ora di sventura in cui ti perdetti
e il mio dolor non si calma anzi divien profondo
come la nera eternità, senza speranza di fine.

· · · · · · · · · · ·

(Trad. di Ramiro Ortiz).


III.

L’INVERNO


Dall’etere il crudo inverno staccia nuvole di neve,
lunghi mucchi accavallantisi sul cielo l’uno sull’altro,
fiocchi bianchi volano come uno sciame di farfalle,
spargendo fiori di ghiaccio sulle spalle bianche della terra.

Nevica di giorno, nevica di notte, la mattina nevica ancora!
di un’armatura d’argento si veste tutta la terra;
il sole, rotondo e pallido, s’intrawede tra le nuvole
come un sogno di gioventù tra gli anni passeggeri.

Tutto è bianco nella pianura, sui colli, intorno a noi, lontano.
I pioppi si perdono all’orizzonte come fantasmi bianchi
e, sulla deserta distesa dei campi, senza traccia, senza strada,
si scorgono i villaggi perduti sotto la bianca spuma (17) del fumo.

[p. 70 modifica]

Ma la neve cessa, le nuvole fuggono, il desiderato sole
splende e carezza l’oceano di neve.
Ecco una slitta che attraversa svelta la valle...
Nell’aria allegri risuonano squilli di campanelli.

(Dai «Pastelli», trad. di Ramiro Ortiz).


IV.

LA RIVA DEL DNIESTER

Leggieri come fantasmi i vapor della notte s’alzano
e navigando sul prato, tra i rami degli alberi si rompono;
lucido sotto gli alberi il fiume come un drago serpeggia,
che al sole mattutino snodi le sue scaglie d’oro.

Sul far della mattina io esco, seggo sulla sponda verde,
guardo come l’acqua scorre e nelle svolte s’asconde,
come sul greto lubrico minuscoli flutti forma,
come nei tonfani stagna, l’arena della sponda scavando.

Quando un salice piangente lene sullo specchio dell’acqua s’inclina,
quando un luccio salta dall’acqua dietro un’agile vespa,
quando l’anatre selvatiche piomban sull’acqua in volo,
battendo Tonde nascoste da una nuvola passeggierà.

E il mio pensier si perde nella valle dietro i sogni,
seguendo il fiiume che scorre senza fermarsi mai.
L’erbosa riva intanto intorno a me ribolle! Una lucertola di smeraldo
mi guarda a lungo fiso, poi su l’arena calda fugge.

(Dai «Pastelli», trad. di Ramiro Ortiz).


V.

ACCANTO ALLA STUFA

Seduto accanto a la stufa la notte mentre nevica
guardo il fuoco, caro compagno, che allegro palpita,
e nella fiamma azzurra dì ceppi di nocciuolo,
veggo le meraviglie delle favole passare in fantastico volo.

Ecco l’uccello grifone alle prese col drago di fuoco,
ecco i cervi con la stella in fronte che passan su ponti d’oro,
ecco i cavalli che fuggon veloci come il pensiero, ecco gli alati
«smei» che in fulgidi palazzi nascondon reginotte bionde.

Ecco gli uccelli fatati che vengono dai regni della Morte,
riconducendo al sole del mondo reucci dai nomi superbi,
ecco nel lago di latte tutte le fate dei giardini d’incanto
e non lontano Pépelea (18) nascosto tra i fiori di maggio.

[p. 71 modifica]

Ma chi m’attira e incanta col suo sorriso blando
è Ileana Cozinzeana! (19) Cantan fra le sue trecce i fiori
e fino all’alba io resto in estasi a contemplarla,
ricordando un miracolo di bimba che ho amata!

(Dai «Pastelli», trad. di Ramiro Ortiz).


Rappresentante della corrente della «Dacia Literară» in Valacchia, ma più di nome che di fatto, visto che la sua opera letteraria è tutta sotto l’influsso francese, fu Grigore Alexandrescu (1812-1885), che, fin da fanciullo, ricevette educazione tutta francese nel collegio diretto da I. A. Vaillant — autore di un’opera importante sulla Romania («La Roumanie» — 3 voll.) e di una raccolta («Poésies de la langue d’or») di poesie tradotte o imitate dal romeno (20) e si compenetrò dei classici del buon secolo dei quali risente l’influsso nelle sue «Satire», nelle sue «Fabule» (Favole) e soprattutto nelle sue «Elegii», che sono considerate tra le più belle della letteratura rumena. Parafrasate dal francese sono infatti parecchie delle sue elegie e tutta la sua produzione poetica risente l’influsso delle «Méditations» del Lamartine, delle «Satires» e dell’«Art Poétique» del Boileau e delle «Fables» del Lafontaine. Le sue poesie più note sono: «Umbra lui Mircea la Cozia» (L’ombra di Micea-Voda al monastero di Cozia), «Răsaritul lunei la Tismana» (Il sorger della luna al monastero di Tismana), «Anul 1840» (L’anno 1840), in cui prende occasione dall’entrata del nuovo anno per esprimere le sue speranze nell’avvenire della Rumania e dell’Umanità; «Cometei anunțată pentru 13 Iunie 1857» (Alla cometa annunziata per il 13 Giugno 1857), la favola «Boul și vițelul» (Il bue e il vitello); ma disgraziatamente oggi non resistono ad una traduzione, sicché ci limiteremo a dare, come esempio dell’influsso delle «Ruines» del Volney, le prime strofe de «L’ombra di Mircea-Voda al Monastero di Cozia»: [p. 72 modifica]

Da «Umbra lui Mircea la Cozia» di Grigore Alexandrescu:


L’ombra delle torri si riflette nell’onda,
si distende prolungandosi fino alla riva opposta
e le fiere generazioni spumeggianti dei flutti
battono in cadenza l’antiche mura del monastero....

Da una caverna, dalle ripe scoscese, la notte esce e m’avvolge:
dalla vetta del colle, dalle rocce, fantasmi neri scendono;
il musco delle muraglie si muove... attraverso l’erbe s’insinua
un soffio che passa furtivo come un brivido per le vene.

È l’ora delle visioni: una tomba si scoperchia,
un fantasma incoronato n’esce... lo vedo...
esce... viene a riva... si ferma... si guarda attorno.
Il fiume retrocede... treman le vette dei monti.

Ascoltate! il fantasma gigante fa segno... dà un comando...
eserciti, accampamenti innumerevoli sorgono intorno ad esso...
la sua voce si diffonde, cresce ripetuta di roccia in roccia,
la Transilvania l’ode, gli Ungheresi s’armano.

Olt, fiume della Patria, testimone dei passati eroismi,
tu che riflettesti potenti legioni schierate sulle tue rive,
tu che vedesti tante virtù e gesta famose,
chi può esser l’uomo che ti ha fatto tremare?

Sarebbe forse, come mostrerebbero la spada e l’armatura (21),
un cavalier cristiano o del Tebro il signore
Traiano, onor di Roma che domò la natura? (22)
È il gigante della Dacia o Mircea il Vecchio?

«Mircea!» mi rispose il colle; «Mircea!» l’Olt ripete.
Questo suono, questo nome accettano l’onde che si accavallano,
l’una all’altra lo ripete; il Danubio l’ascolta
e le sue onde spumeggianti lo trasportano fino al mare.

Salute, o antica ombra! accetta l’omaggio
dei figli della Romania, di cui tu fosti onore:
noi veniamo a deporre sul tuo sepolcro la nostra ammirazione;
i secoli che inghiottono i popoli han rispettato il tuo nome!

· · · · · · · · · · ·

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Dell’influsso francese risente anche Dimitrie Bolintineanu (1819-1872 (d’origine macedo-rumena, che in francese pubblicò le sue «Brises d’Orient» e dalla «Captive» di André Chénier [p. 73 modifica] trasse l’ispirazione per la sua elegia «O fată tânără pe patul morții» (Una fanciulla sul suo letto di morte). Fecondissimo, colorito, spesso elegante, armonioso e vario nei metri, il Bolintineanu è poeta ineguale e spesso prolisso. In quasi tutte le sue pesie si trovan strofe bellissime, ma non sa fermarsi a tempo e l’intuizione lirica è troppo spesso annegata in troppe parole. Egli raccolse le sue poesie in diversi volumi intitolati «Fiorile Bosforului» (I fiori del Bosforo), «Basme» (Leggende), «Macedonie» (Poesie di Macedonia), «Reverii» (Sogni). Oltre l’influsso del Lamartine, dell’Hugo delle «Orientales» e dei «Chàtiments», del Gauthier e di Gerard de Nerval, riscontriamo in una delle sue poesie più belle «Fata dela Cozia» (La fanciulla di Cozia) un influsso della Gerusalemme Liberata del Tasso e precisamente dell’episodio di Clorinda, quando, essendosele slacciato l’elmo, le chiome d’oro le si riversano sulle spalle. Se non altro come precursore, sia pur minimo, di Eminescu nella varietà e musicalità dei ritmi, sarebbe desiderabile che questo poeta, troppo lodato a’ suoi tempi, fino a metterlo allo stesso livello dell’Alecsandrì e dell’Eminescu, fosse tratto dall’oblio, in cui è ingiustamente caduto.

Diamo come esempio della poesia di Bolintineanu quella intitolata: «La madre di Stefano il Grande», facendola precedere dal brano della antica cronaca da cui ha preso le mosse:


LEGGENDA DELLA "MADRE DI STEFANO IL GRANDE„

SECONDO LE ANTICHE CRONACHE.


I.


Stefano Voivoda il Buono, essendo stato battuto dai Turchi a Răsboieni, volle rifugiarsi nella fortezza di Neamtz ed essendo sua madre nella fortezza, non lo lasciò entrare, dicendogli che l’uccello muore nel suo nido. Dunque se ne vada, raccolga i resti dell’esercito, che la vittoria sarà sua. E così, per le parole di sua madre, Stefano Voivoda se n’andò e raccolse l’esercito e vinse.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


II.


”LA MADRE DI STEFANO IL GRANDE,,

di Dimitrie Bolintineanu


Sopra una nera roccia, in un castello antico,
a cavaliere di una valle ove scorre un piccol fiumicello,

[p. 74 modifica]

piange e sospira la giovine regina, rosea, soave
come un garofanetto,
perchè in battaglia il caro suo marito
è andato, e di ritorno non è ancora.
Gli occhi suoi azzurri brillan tra le lagrime
come splendon nella rugiada due violette;
ma la regina madre veglia accanto a lei
e con dolci parole le fa coraggio.
Un orologio suona la mezzanotte...
chi mai batte alla porta del castello?
— «Io sono, mamma cara, il figlio tuo diletto,
io sono, che dalla battaglia torno ferito;
la nostra sorte fu questa volta crudele
e il mio piccolo esercito fugge disfatto...
Ma apritemi la porta, i Turchi mi circondano,
il vento soffia gelido, le ferite mi fan male!»
La regina giovane balza alla finestra.
— «Che fai figliuola mia?» — disse la regina vecchia,
poi alla finestra s’affacciò sola
e nel silenzio della notte a questa guisa parlò:
— «Che mi dici, straniero? Il figliuol mio è lontano,
e il suo braccio nel campo avverso semina la morte.
Io son sua madre, lui è il figliuol mio,
se tu sei lui, non son io tua madre...;
ma se il Cielo, volendo umiliare
gli anni miei nella triste vecchiaia,
l’animo tuo nobile ha cambiato in tal modo,
se tu per davvero sei, come dici, Stefano mio figlio;
ebbene tu nel castello senza la vittoria
non puoi entrare col mio permesso.
Torna in mezzo ai tuoi soldati e muori per la Patria
e ti sarà il sepolcro di fiori incoronato!»
Stefano torna all’esercito, suona col suo corno,
i fuggiaschi raduna nelle valli profonde,
si riaccende la battaglia, i Turchi son sbaragliati
e come spighe cadon tagliate dalla falce.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


III.


”FATA DELA COZIA„

di Dimitrie Bolintineanu

La tromba risuona su pel verde declivio
e l’esercito di Tzepeș si perde fra gli abeti.
— «Ecco» — gridano i cavalieri — «il valoroso,
che di sua mano uccise il Pascià mussulmano!» — .
Pieno di gioia il Voda lo abbraccia,
e: — «Dimmi» — gli domanda — «vuoi tu oro, o compagna?
Se vuoi ricchezze, te ne darò in abbondanza;
se vuoi compagna, ti darò la mia figliuola!» — .

[p. 75 modifica]

— «Signore, non desidero nè oro, nè vani onori.
Non son venuto a combattere per tali cose.
Il dolore della mia Patria mi ha armato il braccio
e per la sua salvezza ho combattuto.
Se poi si tratta di darmi una compagna,
sappi, o Re, che io stessa sono una fanciulla!» — .

A queste parole il bel capitano
gitta via l’elmo e i capelli le cadono ondeggianti sugli omeri.
Tutto l’esercito vede con rapimento
una fanciulla soave come la felicità.
Il Voda la guarda estatico, rapito dalla sua bellezza;
— «Quale» — le domanda — «de’ miei boieri vuoi tu per marito?»—

— «Signore» — dice la fanciulla — «desidero essere la sposa
d’uno de’ tuoi guerrieri, ma che piaccia a me.
Tutti son valorosi: non ne dubito punto,
ma il mio sposo io voglio amarlo!» — .
Il figlio del Voda le si gittò ai piedi
e con dolce accento di preghiera:

— «Sii la mia sposa» — le dice — «e ti giuro pel cielo
che son pronto a vivere e morire solo per te!» — .
A codeste parole la giovine vergine,
arrossendo in volto come rosellina di macchia:
— «Se vuoi il mio amore, devi conquistarlo
vivendo e morendo non per me, ma per la Patria!» — .

(Trad. di Ramiro Ortiz).






Note

  1. L’alfabeto cioè introdotto tra le popolazioni di razza slava (che fino ad allora si erano serviti di quello glagolitico) dai santi Cirillo e Metodio (secolo IX). Il romeno si servì di quest’alfabeto fino al 1860 quando fu abolito e sostituito da quello latino.
  2. Traduco dall’Ollanescu: Teatrul la Români, in «Analele Academiei Române», Seria II, Tomul XX (1897-98) Memoriile Secțiunii Literare. Bucuresci, Göbl, 1899, pp. 84-36
  3. Alla lettera: «Il Volatore». I Romeni credono che, quando un cadavere non si putrefa o quando non ha ricevuto gli onori funebri, lo spirito che l’animava diventi un «Incubo» ed erri senza pace, compiacendosi di tormentare le ragazze da marito, facendole deperire di giorno in giorno come consumate da un fuoco d’amore insoddisfatto.
  4. Si tratta di certe antenne poste in bilico sulla «forcella» dei pozzi rustici, all’uno dei capi delle quali è appeso un lungo «bastone» che porta il «secchio», mentre dall’altro è un «contrappeso» (un grosso ceppo d’albero o una pietra), sollevando il quale il secchio va nel pozzo e torna su quando si lascia andare.
  5. Alviro Dacico è lo pseudonimo letterario dell’Asachi nella «Società Letteraria Romana», che non è, come potrebbe credersi, l’«Arcadia», visto
    che tal nome non risulta dai registri dell’accademia secondo n’informava
    il rimpianto collega Nicola Festa, che ne fu «Custode Generale» ed ebbe
    la cortesia di fare per me questa ricerca. Resta tuttavia il fatto che tanto
    «Alviro Dacico» (Gheorghe Asachi) che «Leuca Insubra» (Bianca Milesi)
    sono nomi di puro stampo arcadico.
  6. «Bianca» è aggettivo di «arena»; ma è scritto con la maiuscola
    per mettere in evidenza il giuoco di parole che, petrarchescamente, fa sul
    nome della sua amata: Bianca Milesi.
  7. Inversione che solo uno straniero poteva credere permessa. L’ordine
    naturale dei versi sarebbe stato:
    nè da Sabina ancora il Sol risorge,
    che in vaso accoglie con gentil pensiero
    d’ambrosio latte il condensato siero;
    ma s’opponeva l’ordine delle rime! Sul modo con cui l’Asachi componeva
    le sue poesie italiane, servendosi di rimarii, cfr. Ramiro Ortiz: Gheorghe Asachi e il petrarchismo rumeno, in «Varia Romanica» (Firenze, «La Nuova Italia», 1932, pp. 409 segg.)
  8. Nome arcadicamente grecizzato di Bianca (Milesi).
  9. Cfr. Adriana Camariano: Influența poeziei lirice neo-grecești asupră celei românești. (București, 1935).
  10. Oltre il notissimo volume di N. I. Apostolescu: L’influence des romantiques français sur la poesie roumaine. (Paris, Champion, 1909) e le aggiunte di Ramiro Ortiz: L’influsso dei romantici francesi sulla poesia romena e Un’imitazione romena dal Gessner e dal Vigny, ambedue in «Varia Romanica». Firenze, «La Nuova Italia», 1932, pp. 381 segg. e 402 segg.), vedi ora il recentissimo saggio di B. Munteano, L’influence française en Roumanie.
  11. «Dealul Mitropoliei», collinetta dove, dirimpetto alla Metropolia o Chiesa Cattedrale, sorge a Bucarest la Camera dei Deputati.
  12. E forse dalle ben note pagine del Mazzini intitolate: Ai giovani d’Italia: «La Patria è come la vita. La Patria è la vita del Popolo. «Dio ve la diede; gli uomini possono, tiranneggiando, impedirle per breve tempo ancora di sorgere; ma non possono far ch’essa non sorga libera, oppur diversa da quella ch’essa è. «Dio che, creandola, sorrise sovr’essa, le assegnò per confini le due più sublimi cose ch’Ei ponesse in Europa, simboli dell’eterna Forza e dell’eterno Moto, l’Alpi ed il Mare. Sia tre volte maledetto da voi e da quanti verranno dopo di voi qualunque presumesse di segnarle confini diversi. «Dalla cerchia immensa delle Alpi, simile alla colonna di vertebre che costituisce l’unità della forma umana, scende una catena mirabile di continue giogaie, che si stende sin dove ii mare la bagna e più oltre nella divelta Sicilia. «E il mare la recinge d’abbraccio amoroso ovunque l’Alpi non la ricingono: quel mare che i padri nostri chiamavano ”Mare nostro”. «E come gemme cadute dal suo diadema, stanno disseminate intorno ad essa, in quel Mare, Corsica, Sardegna, Sicilia, ed altre minori isole, dove natura di suolo e ossatura di monti e lingua e palpito d’anime parlan d’Italia.
    · · · · · · · · · · ·

    «Giovani d’Italia, sorgete!

    «Sorgete sui monti! Sorgete sul piano! Sorgete in ciascuna delle vostre città! Sorgete tutti e per ogni dove! Non vedete che il sorgere subito e versale è vittoria certa, senza i sacrifici della vittoria?... Sorgete, sorgete! Non corre sangue d’Italia nelle vostre vene?... Sorgete come le tempeste dei vostri cieli, tremendi e rapidi! Sorgete come le fiamme de’ vostri vulcani, irresistibili, ardenti! Fate armi delle vostre ronche, delle vostre croci, d’ogni cosa che ha ferro!... e Dio benedica voi, le vostre spade, i vostri affetti e la vostra vita terrena e l’anime vostre...».

    La «Cântarea României» è attribuita dagli uni al Bălcescu, dagli altri al Russo. Secondo gli ultimi studii, pare che il Russo ne abbia steso una prima redazione e il Bălcescu poi la abbia corretta e ampliata. Ora sappiamo che il Bălcescu era un mazziniano fervente, che, proprio per aver preso parte alla rivoluzione del 1848, fu esiliato e morì a Palermo, dove oggi una lapide lo ricorda. Non è assai probabile che, insieme colle «Paroles d’un croyant» del Lamennais che certo influirono anche sull’operetta del Mazzini, ma in fin dei conti sono un inno cristiano, anche lo scritto del Mazzini avesse influito sull’uno o sull’altro de’ suoi autori? Giacché anche il Russo, oltre che amico e collaboratore del Bălcescu, nutriva gli stessi sentimenti e delle pagine del Mazzini Ai giovani d’Italia potè ben aver notizia. Sull’influsso del Lamennais in Italia cfr. lo studio recentissimo di E. Grossi: La biblioteca di Guido Zansi. (Milano, «La Plèiade», 1935).

  13. Diminutivo di Constantin.
  14. Carica di corte, corrispondente a Gran giustiziere e Capo della Polizia.
  15. «Vornic»: carica di corte (dallo slavo dvor= porta) corrispondente a Custode della Corte, Prefetto del Palazzo del Voda e quindi Ciambellano. Queste cariche, d’origine bizantina, variano nelle loro attribuzioni a seconda dei tempi.
  16. Alecsandri scrisse anche tre drammi in versi (Despot-Vodă, Ovidiu e Fântâna Blandusiei) ricchi di molti pregi, con molte belle scene piene di vivacità e di movimento. Soprattutto Fântâna Blandusiei che si propone la ricostruzione di un episodio sentimentale della vita di Orazio, ci presenta — dice il Petrovici nella bella commemorazione pubblicata in «Cele Trei Crișuri» del settembre-ottobre 1940 — «un brano di vita vera in una bella cornice antica, con delicate sfumature psicologiche e scene pittoresche». Nelle sue commedie in prosa (Piatra din casă, Chirița din Iași, Iorgu dela Sagadura, Boieri și ciocoi) benché quasi tutte ridotte e adattate dal francese, si leggono scene vivissime dei costumi provinciali di quel tempo colti dal vero con felicità goldoniana, e deliziosa resta anche oggi quella intitolata Barbu lăutarul piena di delicato rimpianto degli antichi costumi patriarcali prossimi a sparire per sempre «come una canzone antica». In «Lipitorile satelor» (Le sanguisughe dei villaggi) che ho avuto la fortuna di veder rappresentata dal grande attore Petre Liciu che ne aveva fatto il suo cavallo di battaglia; son rappresentate al vivo le sofferenze del contadino romeno lasciato alla mercè degli usurai ebrei, vere sanguisughe dei villaggi che si arricchivano alle spalle delle loro vittime. Come prosatore ci lasciò soprattutto descrizioni di viaggi e relazioni delle sue missioni diplomatiche, scritte in quello stile francesizzante, con arie di spigliatezza e di spiritosità, che si può da noi osservare (e talora ammirare) nei romanzi di Anton Giulio Barrili.
  17. L’immagine può, a prima vista, sembrare strana, ma a considerarla
    è bella. Era facile sostituirla con altra come per es. nuvola, ma avremmo tolto ogni originalità alla visione del poeta. La poesia consiste in gran parte in immagini, e perciò le immagini dei poeti van conservate, anche se possan sembrare ardite. I poeti veggon diversamente — e meglio — dal volgo dei comuni mortali e ridurre l’originalità della loro visione a quella comune equivale a sopprimere la poesia.
  18. Pépelea: personaggio dei «basm» romeni, buono a nulla, sciocco,
    ma furbo la sua parte e sempre allegro e pronto a beffarsi di tutti.
  19. Protagonista femminile dei «basm» romeni, qualcosa come la «reginetta» delle nostre novelline popolari, così come Făt-Frumos corrisponde al «reuccio» o al «principe azzurro».
  20. Che il Vaillant chiamava «langue d’or» intendendo «langue d’orient» in contrapposizione a «langue d’oc» (provenzale) ch’era per lui «langue d’occident». Si sa invece che il provenzale si dice langue d’oc dalla sua particella affermativa: oc > lat. hoc allo stesso modo come l’Italiano è la «lingua del » dal latino «sic».
  21. Nel monastero di Cozia lungo le rive dell’Olt (l'Aluta dei Latini) si vede un ritratto di Mircea in abito di cavaliere medioevale.
  22. Perchè in quei dintorni Traiano fece strade, di cui restan le tracce.