Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/IV. Il genere di poesia della Divina Commedia

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Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - IV. Il genere di poesia della Divina Commedia

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Lezione IV

IL GENERE DI POESIA DELLA DIVINA COMMEDIA


Noi vogliamo ora tradurre nel linguaggio ordinario delle poetiche quello che siamo andati sin qui discorrendo. A qual genere di poesia appartiene la Divina Commedia? La classificazione de’ lavori poetici è fondata nell’antica critica sopra segni estrinseci ed accidentali, e siccome l’estrinseco è comune a molte cose e l’accidente non ha in sé niente di stabile, ne è venuto il moltiplicare ozioso delle distinzioni e la poca concordia de’ critici nel determinarle. Nulladimeno la divisione de’ generi in epico, lirico e drammatico è rimasta salda in mezzo a tutte le opinioni critiche, riposando essa sull’intima ragione della poesia.

L’arte è la rappresentazione ideale dell’universo, e da’ diversi aspetti sotto i quali la poesia lo contempla nasce la diversitá de’ generi. La scienza lo comprende, l’arte lo rappresenta: questi due momenti dapprima confusi costituiscono il genere epico: è la natura nella sua estrinsechezza rappresentata e spiegata, se pure si possono chiamare spiegazioni quei primi ímpeti di una intelligenza non ancora formata, non avente ancora vita sua propria, mescolata com’è e dominata dalla fantasia. In questo primo stadio la poesia è descrittivo-didascalica, e di rado questo doppio elemento si trova disgiunto: il poeta rappresenta le maraviglie della natura, che si offrono a’ suoi sensi, e le spiega con altre maraviglie ch’egli vi trova al di sotto e che si offrono alla sua immaginazione. Cosi il maraviglioso è [p. 24 modifica]il segno distintivo e quasi la faccia di questo genere. Il quale rimane manchevole, insino a che non vi comparisce in mezzo l’uomo. Allora la natura cessa di essere il principale e diviene come il teatro dell’azione umana: il poeta, ammirando le azioni eroiche e non intendendole, le spiega con l’opera di quello stesso maraviglioso onde ha spiegate le forze naturali, ed esseri fantastici diventano il movente occulto di tutto ciò che nella natura e nell’uomo non può comprendere l’intelligenza. Cosi la Teogonia si trasforma in Iliade e l’epica prende il nome di epopea. L’impressione che produce l’universo sull’anima, cavandone i piú diversi suoni, di maraviglia, di lode, di biasimo, di dolore, di gioia, di timore, di speranza, di odio, di amore, costituisce la lirica, libera effusione del sentimento. In questo stadio l’anima, rapita prima al di fuori dallo spettacolo ancor nuovo delle cose, si ritira in sé ed acquista valore di guardarsi al di dentro e di cantare se stessa. Nel dramma il concetto della vita si fa piú serio: l’uomo vi comparisce col suo carattere e con le sue passioni, e l’azione non esce piú da un estrinseco movente, ma riceve il suo impulso dalla volontá e dagli affetti umani, la cui potenza risalta nel loro contendere col fato, con la natura e con l’uomo.

Non è nostro intento di stabilire come si debba chiamare il lavoro dantesco: esso ha il suo nome di battesimo, e i posteri lo hanno serbato con quella stessa riverenza con cui si accetta il nome, quale esso si sia, che un astronomo pone al pianeta da lui scoperto. La Divina Commedia noi possiamo ancora chiamarla, come ha fatto altrove l’autore, un poema, denominazione appellativa e comodissima per tutti quelli che non vogliono prendersi l’impaccio di guardare nel fondo. Egli è vero che critici antichi e moderni l’hanno creduta un poema nel senso stretto della parola, e, guardandola da un lato solo, noi possiamo accostarci a questa opinione.

La Divina Commedia è la rappresentazione dell’universo morale, del regno della necessitá o di Dio, onde è sbandito il libero arbitrio e l’accidente: l’uomo stesso vi diviene natura, cioè in uno stato immutabile, senza successione, senza progresso. [p. 25 modifica]In questa condizione la poesia non può essere che descrittiva, come sono tutte le poesie che hanno per argomento l’esistenza nella sua immobile estrinsechezza, le leggi della natura, le proprietá dell’universo o di una delle sue parti, i caratteri e le passioni dell’uomo, il poema di Lucrezio, le Georgiche di Virgilio, il Saggio sull’Uomo di Pope, e simili: ed in effetti il descrittivo si trova nella Divina Commedia in larghissime proporzioni. E poiché il poeta non rappresenta nel suo immediato il mondo sensibile, ma lo concepisce e lo immagina con esattezza geometrica secondo un preconcetto tipo divino di veritá e di giustizia, nella materia sono visibili le leggi intellettuali e morali che l’hanno informata, e perciò il razionale vi penetra dappertutto e s’inframmette al descrittivo. Il quale elemento didascalico non consiste in osservazioni staccate e libere mescolate con la descrizione, ma è, come ognuno vede, parte sostanziale della concezione: né giá vi rimane implicito, anzi l’autore rassomiglia ad un architetto che mostra il suo edilizio a parte a parte ed insieme dichiara il disegno e lo scopo e le leggi da lui seguitate: egli è non solo il poeta, ma il filosofo del suo mondo. Sotto questo aspetto la Commedia può essere ben definita un poema epico descrittivo-didascalico, il poema sacro, l’ultima parola di Dio, la creazione finale a sua perfetta immagine, in cui la materia è pienamente doma e penetrata dallo spirito, e la poesia dalla scienza: onde le forme necessarie di questo universo teologico: il descrittivo e il didascalico. Ma la concezione dantesca è ancora piú vasta. Con Dante vi entra l’accidente ed il tempo e la storia e la societá in tutta la sua vita interna ed esteriore, religiosa, morale, politica, civile: onde nel seno dell’epopea divina germoglia l’epopea umana, il poema eroico e nazionale. Non vi è azione. E che importa? Il sostanziale di una epopea non è l’azione, ma le intime forze sociali onde quella move; e squallide sono le epopee di Lucano, del Voltaire, del Trissino, perché questa unitá interiore vi è debolissima. In Dante si mostra con una vivacitá omerica ed ariostesca, e dico cosí, perché parmi che in Omero soprattutto e nell’Ariosto queste forze interne paion fuori nella massima loro limpidezza. Ma nella [p. 26 modifica]Divina Commedia l’epopea umana rimane puramente iniziale, un semplice germe, una base sulla quale altri potrebbe fondare il poema del medio evo.

Né poteva essere altrimenti: tolta alla terra e trasportata in cielo la societá, quelle forze non si possono piú estrinsecare in un’azione umana centrale, intorno a cui si raggruppino tutti gli accidenti, ma trapelano qua e lá in fatti scuciti e meramente individuali, o piuttosto in rimembranze di fatti, divenuti ombre anch’essi. La narrazione è quindi congiunta con l’impressione, con frequenti ritorni sullo stato presente, passionata sempre. I personaggi si trovano in uno stato eterno di passione, crucciati nell’inferno da martirii materiali e morali, tormentati nel purgatorio, ma confortati dalla speranza, nel paradiso ardenti di fede e di amore. E quando alle parole del poeta volgono il pensiero verso il passato, nuove passioni li infiammano senza cancellar le presenti, anzi mescolandovisi. Il simile è di Dante. Egli passa di maraviglia in maraviglia in costante innalzamento di fantasia; e lo vedi compreso de’ piú diversi affetti, di pietá, di dolore, di sdegno, di gioia, ora quasi apostolo e profeta e sacerdote, ammonendo dall’alto de’ cieli e riprendendo e minacciando, ed ora gittandosi d’improvviso in mezzo agli uomini e mescolandosi alle loro passioni. Egli è, per dir cosí, l’aria della poesia, che succede al recitativo, la stessa voce, il grido del cuore commosso, le stesse impressioni del lettore prevenute e rappresentate ora nella violenza delle apostrofi, ora nell’impeto eloquente dell’azione. Cosi noi lo vediamo venir meno di pietá a’ casi di Paolo e Francesca, render le frondi sparte per caritá del loco natio, accendersi di sdegno alle parole di Filippo Argenti, tempestare sopra Genova e Pisa, severo con Niccolò III, duro con frate Alberigo, affettuoso con Casella, sublime con Cacciaguida. Di che nasce l’impronta Urica dell’epopea dantesca, in cui di tutto il passato l’azione non ricomparisce se non come un fantasma che si vegga ondeggiare in lontananza, ma le impressioni ritornano tutte intere, fatte ancora piú vivaci dallo stato patetico e dal luogo in cui si trova il memore attore. L’elemento lirico vi si spiega riccamente e prende le forme piú svariate, [p. 27 modifica]dall’entusiasmo del canto e dall’inno fino a ciò che ha di più violento la satira. Questi fatti individuali narrati con tanto affetto, essendo privi di un comun centro, rimangono scene staccate, sicché al lettore par quasi di trovarsi in una vasta galleria di quadri, in cui vede figure sempre nuove e senza alcun legame scambievole, intorno sempre ad uno stesso personaggio, a Dante. Ma ciò che nei quadri voi vedete è il luogo, la pena, lo stato presente di colui che parla, l’attore che narra, non l’attore che fa: l’azione rimane invisibile: è il dramma nella sua prima infanzia, misto di narrazione e di coro, di epica e di lirica, senza ancor niente di proprio, il dramma a racconti, dove l’azione è narrata, non rappresentata: la qual forma propria de’ rozzi inizii del dramma è qui ingenerata dall’intima necessitá della situazione. Bene il poeta ha ingegnosamente introdotto qua e lá parecchie scene veramente drammatiche, brevi fatti che hanno luogo nell’altro mondo, come il caso di Cavalcante, l’incontro di Dante con Beatrice, la beffa che il Navarrese fa ad Alichino, il piato di Sinone e maestro Adamo. Ma in generale ti par quasi di assistere ad uno di quegli atti primi, nei quali avanti che incominci l’azione il protagonista racconta la sua storia ad un suo confidente, mezzo usatissimo nelle tragedie classiche a mostrare gli antecedenti ed i caratteri. Se non che qui il dramma è a rovescio: l’azione è morta, ed il carattere che vi ha dato impulso è solo del dramma ciò che sopravvive e ti sta innanzi con la stessa indomata energia e vivace freschezza che mostrò nell’opera: sicché qui trovi vivo e presente meno una serie di fatti che di caratteri e di passioni: l’anima rimane nella sua intrinsechezza: la vita esteriore in cui il carattere si esprime non l’ha più, l’ha avuta un tempo ed ora non resta che la ricordanza. Cosí della societá e dell’individuo, dell’epopea e del dramma non hai che la semplice base, di su dalla quale è precipitato l’edificio che vi sorgeva un giorno, e di cui rimane ancora un’eco lontana, un lirico: io fui!

Riassumendo, nell’epica non solo l’azione è rappresentata come un fatto, ma nella forma di fatto si manifesta pure il suo elemento costitutivo, cioè a dire i suoi motivi interni: tutto [p. 28 modifica]è un di fuori, che il poeta, messo in certa lontananza, contempla e descrive. Nella lirica vien su il subbietto, il poeta che si mescola con l’universo ed effonde le sue impressioni in sentimenti e riflessioni. Nel dramma l’azione ha il suo significato come effetto di caratteri e di passioni, che si manifestano nella loro intrinsechezza per bocca degli stessi attori, senza opera di poeta. Ma al di sopra di queste distinzioni astratte stanno le poesie primitive, vere enciclopedie, bibbie nazionali, non il genere, ma il tutto, che contiene in sé il germe di ogni varia esplicazione dell’arte posteriore.

Di tal fatta è la Divina Commedia, che per vastitá di contenuto entra a tutte innanzi, o, per dir meglio, essa è il contenuto universale, di cui tutte le poesie non sono che frammenti. Essa abbraccia tutto il circolo della creazione, sfera immensurabile del mondo divino conforme alla morale veritá, sfera immobile entro di cui si movono tempestosamente tutte le passioni terrene. Essa non è dunque questo o quel genere di poesia, ma tutta la poesia in tutte le sue forme essenziali: e però nessuno di questi generi è perfettamente esplicato e distinto, ché cosí quell’uno annullerebbe in sé tutti gli altri: l’uno entra nell’altro, l’uno si compie nell’altro. Siccome i due mondi sono cosí unificati che voi non potete dire: — Qui è l’uno e qui è l’altro — ; cosí i diversi generi sono fusi in maniera che nessuno può segnare i confini che li dividono, né dire: — Questo è assolutamente epico, questo drammatico — . E questo è, perché il fondo interiore della Divina Commedia non è sistematico, una concezione astratta secondo questo o quello esemplare, questa o quella regola, ma sgorga spontaneo e naturalmente dalle viscere del subbietto; e noi abbiamo veduto che le condizioni vitali della situazione richiedono la unificazione de’ due mondi e de’ tre generi, tutto l’universo e tutta la poesia.

La critica suole astrarre ed analizzare; ma qui l’analisi è una mutilazione: la poesia dantesca non può essere compresa che come tutto, come unitá superiore alle distinzioni poetiche: e chi vuol cacciarla per forza nei cancelli aristotelici proverá quell’impaccio in cui si trovò il Tasso quando si studiò di definirla con l’Iliade innanzi e con Aristotile in mano.