Lucifero/Canto decimoterzo

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Canto tredicesimo

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Canto duodecimo Canto decimoquarto
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CANTO DECIMOTERZO





Argomento.


Santa Caterina alla vista di Lucifero si perde d’animo, e invece di convertire lui alla fede, converte sè stessa all’amore. — Alcuni Angeli, sedotti dall’esempio, disertano il cielo e cantano il desiderio della terrena voluttà. — Ultime ore di Pio IX. — Una vittima delle stragi di Perugia. — Due decapitati. — Straziato da queste apparizioni, il vecchio Pontefice muore, domandando inutilmente perdono.


    Vestitevi di rose, aride arene
Del Colossèo! Se a fecondarvi, indarno
Scorse a fiumi su voi degli ostinati
Martiri primi e delle belve il sangue,
5Valga a farvi fiorir la díuturna
Prece di Pio: l’augusto veglio è padre
D’ogni portento, e tutto può. L’han chiuso,
Qual recidivo malfattor, nei templi
Transteverini; e com’è ver, che al cenno
10Del suo divo pensier struggesi in pianto
La sacra effigie di Maria, dai ceppi
Egli uscirà vittorioso e forte,
E di vergini gigli incoronato
Ascenderà securamente al cielo.
15Or, mentre aspetta il sacro giorno, e invano
Giacciongli al piè l’anàtema e la scure,
Volga ad altr’opre il non fallibil petto
Egli che, fabro di virginee madri,
I dolci nati delle madri uccide
20Con serafico ingegno. Un improvviso
April fiorisca il Colossèo; discende

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A battagliar Lucifero l’altera
Amazzone di Siena, a cui più spade
Valse il facile eloquio e la virile
25Beltà che doma ogni poter. Chi vide
Entro al sereno immaginar del mito
Lieve il piè, cinta il vel, rosea le forme
Volger la fuggitiva Ebe fra’ Numi,
Quei dirà qual fioría grazia e splendore
30Di giovinezza e di salute in volto
Dell’ardita Sanese, allor che al guardo
Dell’orgoglioso apostolo ad un punto
Si appalesò. Muto ei sedeva in cima
A un dirùto pilastro, e la raggiante
35Misteríosa immensità del cielo
Gli pendeva su’l capo: eran più vaste,
Più chiare assai le sue speranze, e acuto
Più del guardo del Sole oltre alle cupe
Reggie d’azzurro il suo pensier vedea.
40Meditava così: Dentro a l’audace
Spirto dell’uom fervida alfin si stampa
L’immagin mia; vantino uranghi e numi
A lui simile aspetto: il suo pensiero
A me rassembra, e il suo destino è il mio.
45Libero già d’alte paure, scevro
D’ogni fallace illusíon di senso
Vuole, conosce e può; spezza il segnato
Limite del mistero, e dove è luce,
Ivi il suo campo e il regno suo prescrive.
    50Così parlava dentro al cor; ma in quella
Che l’armato pensiero apríasi il varco
Ad alate parole, eccogli incontro
Sorger la Dea, che dell’eloquio ha il vanto.
Stupì l’eroe di tanta vista, e tutto
55Nella diva fanciulla il viso assorto,
L’ardimentosa giovinezza e gli atti

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Securamente mansueti e il lume
Di sì maschia bellezza iva ammirando
Silenzíoso. Anch’essa dea non senza
60Stupor mirava il gran ribelle, e come
Una mesta pietà prendeale il core
Secretamente. Alfine in questa forma
Prese a parlar:
                      — Superbo e sventurato
Angiolo, nè so dir se in te più sia
65La superbia tenace o la sventura,
E come puoi di tanto umile stato
L’aspetto solo comportar, tu primo,
Già primo, or fatto di pietade obietto,
Fra le schiere del ciel? Misero! e dove
70Son l’ali tue? Dove la schietta luce
Della fronte immortal? Scemo di tutte
Doti del cielo, a un passeggero e reo
Figlio d’Adamo io ben ti assembro, e nulla
D’eterno hai più, fuor che la tua sventura! —
75— E la sventura è la ricchezza mia,
Bella figlia del ciel, così rispose
L’onor di lui che dalla luce ha nome;
Tesoro è il pianto, a cui null’altro agguaglia
Nella terra e nel mar. Povero e gramo
80Cultor l’arido solco apre a fatica,
Ed una al seme ed al sudor gli dona
Le speranze sue belle. Ispido e bianco
Sibila tra l’ignude arbori il verno;
Croscian piogge e gragnuole, e giù ridondano
85In tumulto i torrenti: il poverello
Guarda tremando i duri prati, e al magro
Desco seduto alla sua donna a lato
Pur dolorando il bel tempo predice,
Finchè tutt’oro il crine e in man la falce
90Esce il fervido giugno, i mareggianti

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Campi sorvola, e generoso adempie
Di bionda mèsse i rustici abituri.
Così lauta mercede all’uom prepara
L’esperimento del dolor. Dai solchi
95Seminati d’umane ossa fuor balza,
Santa prole dell’opra e dell’affanno,
La Libertà, premio ai costanti: umana
Diva, ignota ai Celesti, ella inghirlanda
Dei raggi suoi l’ardue fatiche, e serba
100Ad ogni affanno una vittoria. E quale
Dono è quaggiù, che non da lei derivi?
Per essa han luce ed armonia le genti
E veritade ed uguaglianza e vita,
Poi che vita non ha, nè veramente
105Uomo è chi giace in servitù, ma ignaro
Bruto, ch’à in sorte il brago e la catena...
Vivon sol d’essa i generosi, ed io
Son la sua voce, e gli ozíati scanni
Del ciel per essa e volentier sdegnai.
110O solenni cadute, o gloríose
Sconfitte a cui libera vita io deggio,
Ricordando, mi esalto! E dovea forse
Crogiolarmi fra’ sogni aurei del cielo
Eternamente, io re degl’inquíeti
115Spiriti? Assiso ai tiepidi banchetti
In silenzio vorar le dispensate
Manne, io figlio dell’opra? Erger le palme
Supine a Lui, che, del suo nulla esperto,
Pur nell’impero dell’error si ostina?
120La terra elessi, ed ei cadrà! Dell’ali,
Ch’ebbi inutili al dorso, armai la mente;
Della luce del fronte il petto istrussi;
Con l’uom piansi ed amai: scrissi co’l sangue
Le sue vittorie; e già n’è presso il giorno,
125Che Dio dal regno e dalla vita escluda! —

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    Rabbrividía come per febbre al fiero
Parlar la diva, e da’ superbi accenti
Con la candida man schermía l’orecchie
Inorridita; nè risposta alcuna
130Formar può, nè fuggire osa. Ben gli alti
Gesti della sua vita e il dir facondo
E l’audace promessa a Dio giurata
Vergognando rimembra, e non sa quale
Fascino occulto or l’incateni innanzi
135All’avversario suo feroce e bello.
Dicea fra sè: Molti in virtù prestanti,
Molti in bellezza e in favellar maestri
Conobbi al mondo animi egregi; ha il cielo
Angeli molti, alle cui rosee membra
140Vestimento è la luce e amplesso eterno
La giovinezza; or qual virtù ha costui,
Che sì mi svolge ed incatena il senno?
Così pensando, all’anima dubbiosa
Fa forza; di rigore arma l’aspetto,
145Cerca austere parole, e questi invece
Le vengono dal core umili accenti:
— Angelo, oh! soffri ch’io t’appelli ancora
Co’l tuo nome perduto; e che ti giova



– Angelo, oh! soffri ch’io t’appelli ancora
Col tuo nome perduto

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Per questa ultima sfera ir pellegrino
150Qui dove segue alla fatica il pianto
E ad entrambi la morte? Assai feroci
Detti hai parlato or or; ma una parola
Melodíosa, o che mi fallì il senso,
Una dolce parola anche dicesti,
155Che a perdonarti ogni fallir m’induce:
Pianto ed amato hai tu? Radice ha in terra
Nell’empia terra anche ha radice amore?
Oh! come il viver coi mortali il seno
Pur dei forti travolge! Il paradiso
160Oblíato hai così? Non sai che vita

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E stanza e reggia ha solo in ciel l’amore?
Vieni, oh! vieni con me! Là nel tranquillo
Regno degli astri al buon Iddio da presso
Vivrem vita serena; e in quella pace
165Troverai la tua patria e l’amor mio! —
    Tacque tremando, ed arrossía. Fu lieto
Di quei detti l’eroe, però che vide
Su cotanta beltà certo il tríonfo,
E l’incalzò con queste voci:
                                       — O chiara
170Sopra a tutte le dive e la più bella
D’ogni terrena creatura, eguale
Solo a colei ch’è del mio cor regina,
E che parli d’amor tu che nel cielo
Al banchetto degli angeli ti assidi,
175Ove straniero e dispregiato è amore?
Ben di tutta pietà degna t’estimo,
Se amore altro non sai, che la fallace
Larva impotente, che il gran nome usurpa,
E i parvi e non interi angeli illude!
180Tutta ossessa di Dio, fiera dei molti
Tríonfamenti della tua parola,
Dalla terra passasti, e ti fu oscura
La vittoria miglior che donna ambisca,
La dolce voluttà d’esser vinta.
185Oh! cedi a me, cedi e trionfa! Amore,
Terreno iddio, che fa pensier la creta,
Ti apprenderà come si vince: ei solo
Mi suase a pugnar contro le cieche
Menti del cielo; ei qui mi addusse; ei muta
190Ogni lagrima in fiore, e alle dubbiose
Anime ignare il vero Èden insegna! —
    Parla, ed a lei che muta trema, e intorno
Paurosa si volge, apre le braccia
Supplicando con gli occhi, e in un amplesso

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195D’avidi baci l’anima le serra.
    Cadea fra tanto il Sol; cheto e deserto
Era il loco; salíano al porporino
Ètera le serene ombre e furtivo
Fra l’ombre ghigna del trionfo amore.
200Cede la bella dea trepida, cede
Fra’ sospiri; ed allor che con bramosa
Mano ei le scioglie la verginea zona,
Ed in tenace amplesso sussultando
Vittorioso le s’infonde in seno,
205Altro cielo, altra terra, un infinito
Mare di voluttà apresi all’anima
Della fanciulla, mentre una lucente
Gloria di paffutelli angioli ignudi
Fra nuvoli di rose e di viole
210Scioglie, grata ad amor, le labbra al canto:

    — Stanchi di tesser danze
Di cento arpe al ronzío
Nelle beate stanze
Della magion di Dio,
215Scender soleano un giorno
Gli angeletti scapati
Là nel mortal soggiorno
Delle figlie dell’uomo innamorati.

    Fra’ tempestosi errori
220Dell’alta ombra terrena
Perdean l’ali e i fulgori
Della fronte serena;
Ma colti i baci primi
Sovra le bocche ardenti,
225In voli più sublimi
A più lucidi regni ergean le menti.

    Lascia or l’eterea sede
L’inclito onor di Siena:

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D’intemerata fede
230L’alma loquace ha piena;
Al gran ribelle incontro
Tumida sorge; e quando
Spera, che al primo scontro
Vinto egli fugga in volontario bando,

    235Ecco, dal labbro il detto,
Come spuntato strale,
Cadele; al dolce aspetto
Dell’angelo del male
Pallida trema; al laccio
240D’Amor l’anima assente,
Scorda sè stessa, e in braccio
Del rivale di Dio perdutamente,

    Immemore del cielo,
Donasi. Oh! vaga, oh bella!
245Già del vergineo velo
Scevra, com’aurea stella,
Splende; dall’ansio viso,
Dalle membra sincere,
Ignoto al paradiso
250Spira in mille piacer solo un piacere!

    O amore, amor! Sì forte
È il tuo terreno impero?
Sfida per te la morte
Del fango il figlio altero;
255E mentre alla tua rete
La voce tua ne incalza,
Ei l’ale irrequíete
Svolge dal fango, e contro al ciel s’innalza!

    Scendiam, proviamo! A tutti
260Zimbello è il Padre eterno,
E probi e farabutti
Si ridon dell’inferno.

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Scendiam, facciam baldoria
Tra’ fiori e le donzelle;
265Abbia l’Amor vittoria:
Vale un’ora d’amor tutte le stelle! —

    Mentre i furbi angeletti in queste voci
Disertavano il cielo, e l’umanata
Sanese, avvinta dal più dolce amplesso,
270Primamente sentía la vita intera,
Su l’antica di Pio ferrea cervice,
Come sinistro augel, striscia la morte.
Abbandonato su’l gelido letto
Luccicante di frange e di cortine,
275Rabbiosamente egli vaneggia:
                                         — Urlate,
Accorrete, soccorso! Il ciel, la terra,
L’inferno tutto ai cenni miei! Demòni,
Angeli, a voi: la forte anima mia
Per un anno di vita! I miei nemici,
280Gli usurpatori impenitenti al mio
Piede un istante, e poi morir! —
                                         Comparve
Pallido, immoto, macilente un Frate
Sopra la soglia:




Comparve
Pallido, immoto, macilente un frate
Sovra la soglia:

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                          — A questa Croce atterra
L’orgogliosa tua fronte!
                                     — Chi sei tu?
285Che vuoi? Chi innanzi mi ti tragge? All’ira
Non mi sforzare!
                                 — Alla pietà ti sforzo,
Alla pietà, se Dio, per maggior pena,
Non ti chiude la via d’esser pietoso. —
— Ma tu chi sei? Di vane ombre io non temo:
290Son forte ancora!
                            — Ombra, demonio, o Dio,
Quel che tu temi io sono. Ecco si appressa

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L’ora; è scoccata: alle tue ferree porte
Batte il giudizio del Signor!
                            — Che intendi?
Che oseresti tu mai?
                            — Sgombra dal petto
295La fallace paura: Iddio corregge
Pria di punire; e suo ministro io vengo,
Io, che di Dio non già, ma sol dovrei
Venir ministro della mia vendetta!
E ancor forte ti vanti? A brani io veggio
300L’inconsutile veste; ai fuggitivi
Tuoi passi il trono, il suol vacilla; e al cielo
Non ti rivolgi?
                    — Al cielo, al ciel! Tu parli
L’eretica parola! Il ciel lo lascio
Ai miei nemici; a me la terra!
                                         — E quale?
305Schiavo tu sei d’altri e di te! Mal tieni
Di Bonifazio e d’Ildebrando: hai l’ira
Dell’un, dell’altro la superbia: il senno
D’ambi ti manca e i tempi. Il destin solo
Pari ad entrambi e in uno avrai: l’eterna
310Città di Pier per te mutasi a un’ora
In Salerno ed Anagni: esule vivi,
Benchè in Roma; e alla tua guancia canuta
Stampano i Re più durature offese
Del ferrato manipolo di Sciarra.
315Deh! rivolgiti al ciel!
                           — Frate, pon fine
Al tuo sermone, e sgombra. Il cielo è patria
Dei deboli; la terra è mia! Già in armi
Sorgon Francia ed Iberia: il ceppo illustre
Dei Borboni immortali all’aura nova
320Mette nove radici; e fronde e rami
E fiori e frutta porterà: saranno

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Frutti i trofei tolti ai nemici e il capo
Di quel sabaudo avventurier tiranno,
Che, pur che copra le sue membra oscene,
325Ruba a Cesare il serto e il manto a Cristo.
    — Vana speme è la tua! Dio, che alla terra
Dopo il gel manda i fiori, all’uom consiglia,
Dopo lungo servir, la sacrosanta
Libertà del pensiero. E chi potrebbe
330Co’ suoi delitti attraversare il corso
Delle leggi di Dio? Con l’empia destra
Ottenebrar l’indefinita luce,
Che dall’insetto all’uomo equo dispensa
Di tutte cose animatore il Sole?
335Credi tu, che ammucchiando ossa sovr’ossa
Tal diga innalzerai, che su la china
Si soffermi il torrente, a cui dan forza
I destini del mondo? Ah! il credi: amore,
Fede non si raccoglie ove non altro
340Ch’odio e terror si seminò! Non sono,
Non sono, e Dio che tutto sa ne attesto,
Distruttor della fede i rubellati
Spirti e l’ereticanti alme! Voi primi,
Voi soli, occulta d’ogni mal radice,
345Voi co’l sangue versato alimentaste
L’idra dell’Eresia; questo malnato
Poter, che cinge Iddio d’ire e di sangue,
Ai quattro venti della terra il grido,
Fu la prima eresia!
                           — Frate, s’hai caro
350Il viver tuo, non funestar l’estreme
Ore del poter mio. Smetti l’altero
Tuo cipiglio d’apostolo: la fame
Rende spesso profeti; avrai se ’l brami
Copia di tutto; or lasciami.
                                        — La mia

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355Vita è cosa del ciel; se dono alcuno
Vuoi che da te, vecchio feroce, accolga,
Dammi il rogo, o la scure. Odi l’estrema
Voce di Dio: rassegnati e perdona;

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Perdonando chi regna! Al generoso
Uopo s’applaude in pria; povero e scarso
Indi appare ogni don, però che ingordo
365È il cor di lui che a nullo bene è avvezzo:
Debito par la carità; diritto
La pretesa più stolta. Egual si tiene
A lascivo signor che la careggi
Meretrice proterva, e a lei somiglia
370L’avida plebe: oggi le dài l’anello,
Doman ti chiederà manto e corona;
Alza dal fango la servil cervice,
Spezza il fren, rompe il cheto ordine, invade
L’altrui poter, dritti e doveri ingombra,
375Tal che, sconvolto il socíal congegno,
Divien chi serve re, servo chi regna.
No, no: perde chi cede. Uom che securo
Tien l’alta riva, io non dirò che il senno
Abbia intero, se al torbido torrente
380Perigliando abbandonasi. Tal fui
Un solo istante, e n’ho rabbia e rimorso:
Nel reo vulgo ebbi fede; osai l’esempio
D’Alessandro imitar!
                          — Del pari infido,
Ma più debole fosti!
                          — E qual mercede
385N’ebbi dal mondo? Risvegliai l’orrenda
Idra dormente al piede mio; potea
Schiacciarla, e la svegliai. Stolto! i suoi primi
Sibili e i morsi avvelenati io primo
Sperimentai: mira qual sono!
                                        — Accusa
390L’alma tua poca e infida. Esser potevi,
Rege non più (fra le vergogne e il sangue
Già da gran tempo era sepolto il trono
Su le vergogne e su le colpe eretto),

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Ben regnar da le intatte are potevi
395Pontefice, e lo puoi!
                          — Se crolla il trono,
Caggia anche l’ara: o tutto, o nulla!
                                       — E il dito
Di Dio non temi?
                    — Il Dio che adoro è fatto
Ad immagine mia!
                      — Ben veggio: è indarno
Ogni mio favellar. Ma se in te morto
400È il pontefice e il re, l’uomo ancor vive;
Odimi dunque, o sciagurato, e trema.
L’ara di Dio non crollerà: cadranno
Gli astri del ciel, la fede no. La terra
Stanca è d’ire e di stragi, e pace e amore
405Cerca, e l’avrà. Dio tornerà su queste
Sedi, da cui tu lo cacciasti in bando;
Tornerà Pietro a regnar l’alme: assiso
Umilemente a Cesare da lato,
Avrà di lui non men possente impero
410E più vasto d’assai. Tu muori intanto,
Implacabile vecchio; impreca, e muori
Impenitente; al tuo letto custodi
La tua memoria e la coscienza io lascio! —
    Disse, e disparve. Il bieco occhio e la voce
415Mosse il fiero morente, e una tremenda
Vista mirò. Più sol non era: accanto,
A piè del letto, al capezzal, d’intorno
Un popolo sorgea di minacciosi
Scheletri: avean nelle profonde occhiaie
420Come due fiamme che parean pupille,
E un tal verso facean con le dentate
Mascelle, che parea voce, e sogghigno.
Trema, boccheggia il vecchio irto; l’infermo
Corpo giù giù tra le diffuse coltri,

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425Scivolando, rannicchia; e freddo, cheto,
Senza respir, con muto occhio furtivo
Segue dei suoi tremendi ospiti i moti.
Uno spettro parlò:
                         — Possa la voce,
Che un’altra volta acquisto,
430Strazíarti così, vecchio feroce,
Trafficator del Cristo,

    Che, incenerito il reo manto e la stola,
Di cui nascondi invan l’anima fella,
Delle vive tue carni ogni parola
435Un bran vivo divella!

D’ossa e di polpe ignuda
La negra anima tua sensibil resti;
Ch’io l’afferri, e nei miei pugni la chiuda,
E co ’l piè la calpesti!

    440Forse canuto a par di te non era
Vecchio cadente anch’io?
Non era tua quell’itala bandiera,
A cui tutto fu sacro il viver mio?

    Ma tu, Giuda due volte, il bacio vile
445A Cristo e al popol dato,
Tolto di sotto al manto il doppio stile,
Li trafiggesti entrambi al manco lato.

    Sbucaron dagli elvezj antri le ladre
Turbe, che a libertà mal dànno il petto,
450Se, liberate dalla man d’un padre,
A prezzo maledetto

    Concedon l’alme, e li venali artigli
Affondano nei fianchi
Dell’abusate vergini, ed i figli
455Sotto agli occhi dei padri infermi e bianchi

    Svenano. O voi, più dei miei pover’occhi
Cari lattanti e nuore giovinette,

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Voi sedevate attorno ai miei ginocchi,
Come innocue agnellette,

    460Quel dì, che scatenate
Dal cenno di costui che il ciel promette,
Per le vie di Perugia insanguinate
Correan le sue vendette.

    Cinti di ferro, e d’oro e sangue ingordi
465Rupper nelle mie case in un momento
Gli sgherri di costui feroci e sordi,
Come tigri in armento.

    E i miei due figli, i miei leoni intanto
Non erano con noi!
470Pugnando all’ombra del vessillo santo,
Caduti eran da eroi!

    Nè mi fu dato, oimè, baciar le care
Teste morenti e udir le voci estreme,
Comporre i corpi vostri entro a le bare,
475Con voi morire insieme!

    Ben dei pargoli vostri e delle amate
Spose lo strazio vidi
E il vitupero!... Oh! in me, in me sol vibrate,
Empj, i ferri omicidi!

    480Ultimo caddi. Or paradiso, o inferno,
Vedi? o vecchio feroce, io non aspetto:
Dio qui mi manda; e qui starommi, eterno
Fantasma, al tuo cospetto! —

    Tacque, e due sovra gli altri orridi in vista
485Fuor della calca si avanzaron: muti,
Rigidi, ritti ritti, lenti lenti
A le due sponde del funereo letto
Stettero; e del lenzuol freddo scoprendo
A viva forza del morente il capo,
490Agitâro i crocchianti omeri. Come
Da l’ultimo edificio, allor che trema

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Sussultando la terra, e bianchi in viso
Fuggono i passegger, cade un divelto
Sasso, e paura ai fuggitivi accresce;
495Così a quel poco tentennar divisi
Lor cascano li teschj rilucenti,
Che balzando e mettendo orrido un suono
Ruzzolan sul marmoreo pavimento.
Come vediam dietro ad arancia o mela,
500Che per trastullo il genitor gli lancia,
Correre il fanciullin con passo incerto;
Quando più crede che le sia da presso
E già già la raggiunga, ad afferrarla
Gittasi, e quella che ad avverso oggetto
505Battuta è intanto, retrocede o volge
Per via diversa, e il seguitor delude,
Tal dopo ai proprj teschj si lanciarono
I mutilati scheletri; da terra
Li raccattâr; fra’ cricchiolanti carpi
510Li strinsero, e con fiero atto al morente
Li avvicinâr, mostrandoli. Fremea
La turba, come avvien, quando improvviso
Balza aquilon tra l’arido scopeto
Infuríando; ma parola o voce,
515O moto alcuno non mettea l’oppressa
Anima del morente: il dubitoso
Spirito avea tutto negli occhi; un cupo
Rantolo gli stridea per entro ai duri
Visceri, perocchè, simile a un ferreo
520Non unto filo di dentata sega,
L’ultime fibre gli rodea la Morte.
S’avvivarono a un tratto i mozzi capi,
E battendo le labbra e le palpèbre
In terribile forma, e sangue e detti
525Fuori gemean della divisa strozza.
S’appressarono allor quanti d’intorno

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Eran spettri e fantasmi, ed in quel sangue
Tutti tingendo fieramente il dito
Segnarono la fronte al morituro,
530E gridarono insiem: Sii maledetto!
    A quel tocco, a quel grido, immantinente
Si scosse, si agitò, tutto si storse
L’irto veglio, qual suol malaugurosa
Nottola dalle unghiate ali, qualora
535Dispietato monel con improvvisa
Canna l’abbatte, ed al nemico lume
L’appressa sì, ch’ella bestemmj e strida.
Ma qual putida ràzza, che di mano
Sguizzando al pescatore, agita al suolo
540Le acute pinne e la scabrosa coda,
Finch’egli irato la riprende, e sbatte
Contro un sasso, e l’acqueta nella morte;
Così fuor del lenzuol frigido a terra,
Dibattendo le flosce membra, piomba
545Il tormentato agonizzante; i gialli
Occhi stravolge, e mugola: Perdono!
    Sparîr gli spettri; su la fredda soglia
Lucifero comparve, e disse: È tardi!