Memorie (Bentivoglio)/Libro primo/Capitolo III

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Capitolo III

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Capitolo III.

Parte da Roma il pontefice e giunge a Ferrara; e quello che vi eseguisce sinché egli ritorna a Roma.

Dunque bene addolcita la stagione risolvè il pontefice di partire da Roma e venire a Ferrara, e si pose in camino sul principio di maggio lasciando al governo di quella cittá in luogo suo, con titolo di legato, il cardinale d’Aragona. Partí con un nobile accompagnamento di cardinali seguitato da tutti gli ambasciatori de’ prencipi e da gran numero di prelati. Innanzi al pontefice per lo spazio di una giornata precedeva il santissimo sacramento, e lo portava una chinea decentemente guarnita, con alcuni prelati intorno per custodirlo in quella forma che piú conveniva. Dal papa fu preso il camino della Marca per visitare in tal’occasione particolarmente la santa casa di Loreto, come egli fece, e dove egli rese ogni piú devoto e riverente onore a quel sí celebre santuario. Quindi passò in Ancona, e di lá per lo stato di Urbino ricevuto ivi da quel duca e alloggiato in ogni piú splendida e riverente maniera. Entrò poi egli in Romagna, e all’entrare in quella provincia vi giunse per le poste il nuovo duca di Modena e lo riverí con dimostrazioni d’ossequio, e all’incontro il duca fu raccolto dal pontefice con termini di grande onore e benignitá. Arrivato a Ravenna, prese alquanto piú di riposo che non aveva fatto negli altri luoghi. In quella cittá mi trovai con diversi altri ferraresi a riverirlo ancor’io. Né potrei dire con quanta umanitá si degnò di raccogliermi e insieme di farmi animo a dover seguitare la professione ecclesiastica, dicendomi specialmente che i ferraresi per l’avvenire averebbono potuto aspettare piú facili e maggiori avvanzamenti nelle dignitá ecclesiastiche sotto il dominio della sede apostolica. [p. 16 modifica] Avvicinossi poi egli di mano in mano a Ferrara, e la sera innanzi che dovesse fare la sua entrata publica dormí nel monastero di S. Giorgio, che godono i religiosi olivetani e che giace in sito quasi contiguo alla porta per la quale doveva seguire l’entrata.

Dunque il giorno di poi verso il tardi si mosse di lá il pontefice, e con ogni piú sollenne e pomposo apparato s’incarnino per entrare nella cittá. Entrovvi portato in una gran sedia scoperta, sotto un gran baldacchino pontificalmente vestito, e con ogni altra piú splendida e piú maestosa apparenza adornato. Precedevano miste insieme confusamente la nobiltá ferrarese e la forastiera, e vedevasi questa in particolare molto ingrossata ivi allora per un gran numero di gente riguardevole, che da tutte le parti vicine era concorsa a vedere la corte di Roma trasferita nella cittá di Ferrara. In questa occasione di straordinaria sollennitá, li cardinali andavano innanzi al papa a cavallo nelle loro mule, essendo soliti d’andare dopo nell’altre meno sollenni, e ritenendo i loro consueti luoghi portavano l’abito cardinalizio che suol’essere usato piú maestosamente in cosí fatte occorrenze da loro. Dopo i cardinali e innanzi al baldacchino immediatamente caminavano a piedi cinquanta giovanotti delle famiglie piú nobili di Ferrara, tutti ugualmente vestiti con abito bianco. Rappresentavano questi il corpo della cittá, e n’era capo don Carlo Cibò figliuolo maggiore del marchese di Carrara e di donna Marfisa d’Este. E dopo il baldacchino terminava finalmente la cavalcata in un gran numero di prelati, che pur sopra mule vi comparivano. Vedevansi distribuite le guardie pontificie a cavallo e a piedi ne’ luoghi loro consueti, e vi si aggiungeva di pompa militare l’essersi per tutte le strade ove seguiva con longhissimo giro l’entrata distese, da un lato e dall’altro, continuate file di soldatesche a piedi guarnite di moschettieri, d’archibugi e pichieri. Né stavano oziose nel medesimo l’artigliarie ma con festeggiante rimbombo si udivano risonare da varie parti, mentre si stava in questa sorte d’azione. Con tal qualitá d’entrata e con tal forma d’accompagnamento (che le [p. 17 modifica] minuzie si tralasciano a bello studio) il pontefice si condusse alla chiesa catedrale, e dopo il solito rendimento di grazie passò di lá poi all’abitazione del castello che è vicinissimo a quella chiesa.

Fermatosi in Ferrara il papa con tutta la corte, egli attese con ogni diligenza a rendere ben sicuro il suo nuovo acquisto. Levò diverse gravezze publiche, dispensò molte grazie in general beneficio, e in particolare procurò conciliarsi gli animi de’ cittadini con tutte quelle piú benigne dimostrazioni d’onore di affetto e di umanitá che potessero usarsi per un tal fine. Sapeva egli molto bene che le mura de’ petti e le cittadelle de’ cuori sono piú sicuri fondamenti per far godere a’ prencipi l’ubbidienza de’ popoli, e nondimeno per soprabbondare in sicurezza con i mezzi ancora presi communemente in uso nel governo temporale degli stati, fece ridurre a cittadella imperfetta allora certa parte della cittá, che era intersecata a quel tempo da un ramo del Po, e la guarní del presidio che bisognava. Compariva egli spesso ora a cavallo ora in lettica per la cittá; raccoglieva affabilmente ogni qualitá di persone, e per rendersi piú benevola e piú devota in particolare la nobiltá ne condusse quella estate un buon numero della piú principale a Belriguardo, villa che piú d’ordinario i duchi solevano frequentare in quella stagione, e quivi ora l’uno ora l’altro e talora molti insieme domesticamente con sé tratteneva e in piú modi benignamente onorava. Quattro giorni vi si fermò, e tra gl’altri vi fece andare il marchese Ippolito mio fratello che tra gli altri ancora da lui ricevè dimostrazioni di somma benignitá.

Aveva il pontefice fra tanto ricevuto varie ambascierie straordinarie quasi da ogni parte d’Italia, ma la piú sollenne era uscita dalla republica di Venezia, la quale aveva inviato quattro suoi primi senatori per congratularsi in ogni piú affettuosa maniera con lui della sua venuta a Ferrara e del nuovo suo acquisto, e di averlo fatto con tal vigor di consiglio che non se ne fusse veduta nascere alcuna perturbazione all’Italia. Né molto tardarono poi a riverirlo con le proprie loro [p. 18 modifica] persone prima il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, e poi il duca di Parma Ranuccio Farnese. Fra una sorella di Ranuccio e Vincenzo era giá seguito matrimonio e quasi subito s’era disciolto, onde aveva questo successo alterati gli animi grandemente dall’una e dall’altra parte, in modo che dagli odii occulti si era venuto fra questi due prencipi all’inimicizie scoperte. Ma frapostosi il duca di Ferrara vivente allora, e poi con maggior autoritá l’istesso Clemente pontefice, non avevano essi potuto ricusare l’aggiustamento che si era procurato di stabilire fra loro. Vedevasi nondimeno che rimanevano aggiustate le apparenze piú che le volontá, e che in luogo d’aperti nemici sarebbono nondimeno restati grandi emoli. Vincenzo aveva qualche anno piú di Ranuccio. Erano l’uno e l’altro di bella presenza, ma in tutto il resto differentissimi di genio di costumi e d’inclinazione. Vincenzo tutto allegria tutto giovialitá sempre involto fra il lusso e gli amori, sempre in lieti passatempi o di feste o di balli o di musiche o di comedie, ma nondimeno capace ancora d’ogni importante maneggio, e che molto bene sapeva unire col piacevole il negozio, e le cose piú serie con le piú dilettevoli. Dall’altra parte Ranuccio come prencipe di un nuovo e geloso stato, e non meno per natura di se medesimo, era tutto riservato in se stesso e tutto pieno di cure gravi; anzi tanto accurato ancora nelle minuzie che molte volte in luogo di far l’uffizio di prencipe faceva quello di ministro, e per la troppa attenzione in luogo di guadagnare il tempo veniva piú tosto a perderlo. Tale in somma nelle sue azioni, che nella forma del suo governo egli era molto piú temuto che amato. Prencipe nel rimanente di alti spiriti e degni di un figliuolo di sí gran padre, come fu il duca Alessandro, la cui gloria militare egli avrebbe forse ereditata in gran parte se quanto era in lui ardente il desiderio di procurarla tanto avesse potuto godere favorevoli le occasioni di conseguirla. Passava come ho detto fra questi una grandissima emulazione in tutte le cose, ma la fecero allora apparire specialmente essi nella venuta loro a Ferrara, gareggiando insieme a chi avesse potuto [p. 19 modifica] farvisi vedere con piú numeroso e scelto accompagnamento, con piú ricche e vistose livree loro proprie e de’ loro cavalieri, e con ogni altra ostentazione che piú fosse per sodisfare agli occhi in publico e in privato. Giunse prima il duca di Mantova come ho accennato di sopra. Entrò a cavallo con tutto il suo accompagnamento nell’istessa maniera, e certo la comparsa sua propria e quella di tutti i suoi non poteva seguire in forma né piú splendida né meglio ordinata. Fu ricevuto dal pontefice con tutti quei trattamenti di affetto e di stima che sogliono usarsi nella corte di Roma verso tal sorte di potentati. Godè a palazzo alcuni giorni, de’ quali aveva voluto onorarlo il pontefice, e poi si trattenne alcuni altri a sue proprie spese nell’abitazione de’ Gualenghi, e finito ch’egli ebbe col sacro collegio e con gli ambasciatori di fare e ricevere le visite consuete, parti dí Ferrara con ogni sodisfazione di ritorno a Mantova. Né tardò poi molto a comparire il duca di Parma. Entrò anch’egli nella stessa forma a cavallo, con un numeroso e fioritissimo accompagnamento di cavalieri, che tutti erano o suoi feudatari o sudditi, e giudicossi che in questa parte fusse prevaluta in un certo modo la sua comparsa fatta solamente da suoi vassalli senz’alcun aiuto de’ forastieri, lá dove in quella del duca di Mantova era intervenuto qualcheduno ancora di questi. Ebbe i medesimi trattamenti dal pontefice il duca di Parma che prima aveva ricevuti quello di Mantova. Dopo alcuni giorni d’ospizio pontificale ritirossi ancor’esso in casa di Marco Pio suo parente, e sbrigatosi poi dalle accennate solite cerimonie coi cardinali e ambasciatori, parti dí Ferrara e con uguale sodisfazione si ridusse a Parma.

Era governatore di Milano allora il contestabile di Castiglia, inviato alcuni anni prima dal re di Spagna all’amministrazione di quel carico. La vicinanza di Milano a Ferrara fece venir ancor lui in persona propria a rendere un particolare ossequio al pontefice, ma però senza nessuna apparenza di strepitoso accompagnamento. Finse egli d’aver corsa la posta e fece la sua entrata da viaggiante. Venne con tutto [p. 20 modifica] ciò accompagnato da molti cavalieri milanesi ch’erano de’ piú principali, e che nella forma di quell’entrata senza splendidezza lo fecero anco in ogni modo risplendere. Fu ricevuto il contestabile e trattato nella maniera stessa che s’era tenuta con i duchi di Mantova e di Parma, e fermatosi quanto bastava solamente a rendere l’accennato ossequio al pontefice ed a fare i soliti complimenti nella sua corte, partí da Ferrara e nella stessa forma di viaggio tornò a Milano. A questi ospiti publici si aggiunse poi un altro gran prencipe ma che volse in ogni maniera comparire in forma privata, e fu l’arciduca Ferdinando di Gratz che molti anni dopo ascese all’imperio. Andava egli per sua divozione a Loreto, e vi andò allora piú volontieri per l’occasione che pigliò di riverire il pontefice, dal quale se bene fu ricevuto da incognito fu trattato nondimeno con tutte le accoglienze che doveva all’alta qualitá del suo sangue e non men del suo zelo che non poteva essere maggiore verso la Chiesa.

Erasi intanto verso il fine de’ caldi, che si fecero sentire molto fervidamente quell’anno; il che anco era maggiore in Ferrara il cui sito basso non può essere né piú polveroso di estate né piú fangoso di verno. Godè il papa nondimeno sempre un’ottima sanitá, come anco tutta la corte, la quale accresciuta continuamente da forastieri in gran numero e di gran portata, nobilitava sommamente quella cittá ricca per se medesima di palazzi e di belle strade, ma povera altre tanto di popolo e di forastiero commercio. Le maggiori e piú commode case erano distribuite nelle persone de’ cardinali e degli ambasciatori, e tutti ne restavano con molta sodisfazione. In quella di noi altri Bentivogli alloggiava il duca di Sessa ambasciatore di Spagna insieme con la duchessa sua moglie. L’uno e l’altra erano della casa di Cordova, che per tutte le considerazioni e di sangue e di stato pareggiava qualsivoglia altra delle maggiori e piú antiche di Spagna, ma le qualitá istesse del duca lo rendevano anco piú riguardevole in se medesimo. Esercitavasi alcuni anni prima da lui quell’ambasceria, e l’aveva egli sempre mai sostenuta con somma [p. 21 modifica] riputazione del re e con laude uguale sua propria. Era signore di singoiar prudenza e bontá; grasso di corpo e che pareva cadente di sonno anche nell’ore che dovevano tenerlo piú desto. Ma gli effetti apparivano del tutto contrari: somma applicazione al negozio, gran capacitá nel comprenderlo, e non minore industria nel maneggiarlo; e per tutte l’altre sue parti gran ministro e per tale communemente anco giudicato. Né punto inferiore gli si dimostrava la moglie per tutte le qualitá che potevano renderla degna di stima. Era dotata di bello e nobile aspetto, di somma grazia in tutte le cose, di tal giudizio nelle piú gravi che bisognando ella avrebbe potuto in esse accompagnar molto bene ancora i suoi talenti con quei del marito, e render in tal maniera tanto piú perfetti quelli con questi. Ma risplendeva particolarmente in lei sopramodo la cortesia, e l’usò ella allora con sí gran larghezza verso tutti noi altri fratelli, e specialmente verso la marchesa mia madre, che poi alcuni anni dopo venne a Roma con fine principale di godere tutto quel verno e quella primavera che vi dimorò (nel tempo che io servivo a papa Clemente) gli onori nuovamente e le grazie che aveva ricevute in Ferrara dalla detta duchessa. Né rimase ingannata o dal desiderio o dalle speranze perché fu da lei favorita di nuovo con sommo eccesso. Volle quasi di continuo averla domesticamente appresso di sé nella casa sua, e repugnava poi lasciarla tornare a Ferrara se prima non succedeva (come seguí poi li mesi dopo) il ritorno suo proprio e del duca suo marito in Spagna.

Ma rivenendo alle cose che in Ferrara passavano allora, furono publicati due matrimoni d’altissime conseguenze all ’ Europa fra due gran prencipi e due prencipesse del sangue austriaco di Germania e di Spagna, che si erano con la pontificia dispensa conclusi; l’uno fra il prencipe di Spagna Filippo terzo e l’arciduchessa Margherita nata in Germania, e l’altro fra l’arciduca Alberto, prima cardinale e uscito pur di Germania, e l’infanta Isabella ch’era figliuola maggiore del re di Spagna. Non molto innanzi d’allora Alberto aveva lasciata [p. 22 modifica] la Fiandra dove in luogo di governatore diventava prencipe, e si era trasferito in Germania per levar di lá Margherita e insieme poi ambedue condursi all’effettuazione dell’uno e dell’altro matrimonio. Ma sopravenuta la morte del re, aveva ritardato alquanto il viaggio loro. Aveva voluto l’arciduchessa madre di Margherita accompagnare la figliuola, e perciò Alberto pigliando gran cura dell’una e dell’altra e riuscendo numerosissimo il loro accompagnamento, e massime quello di Alberto che menava seco molti de’ primi signori e molte ancora delle prime dame della Fiandra, non potevano fare sí spedito il viaggio che sempre non fusse lento. Discesero per la via del Tirolo in Italia, e sul Veronese riceverono tutte quelle dimostrazioni che potevano esser fatte verso di loro in ogni piú splendida forma. Quindi passarono a Mantova dove quel duca fece apparir pur verso loro ogni piú regia magnificenza, e nel ricevimento e nelle feste e nell’ospizio e in ogni altra guisa piú insolita. L’aver poi vicino il pontefice, e l’invito affettuoso di lui medesimo diede occasione che venissero a trovarlo in Ferrara per accrescer tanto piú la sodisfazione di tali matrimoni, con vederli celebrati per mano sua propria. Fu sollennissima l’entrata che fece la regina in quella cittá. Dormí la sera avanti (e fu quella del giorno dodeci di novembre) in un luogo vicino a Ferrara tre miglia, e quivi la fece visitare il pontefice in nome suo da due cardinali con titoli di legati, e furono Bandini e San Clemente oltre a tutti quei onorevoli incontri ch’ella poteva ricevere dalla corte pontificia. Fuori della cittá ritrovossi tutto il sacro collegio alla porta. Di lá i cardinali a cavallo con l’abito, e l’ordine consueto in somiglianti occasioni, l’accompagnorno sino al palazzo pontificale. Veniva anch’essa a cavallo, tolta in mezzo nell’ultimo fra i due cardinali Sforza e Montalto, che erano i piú antichi diaconi. Dopo lei seguiva l’arciduchessa sua madre, e l’arciduca Alberto pure a cavallo, e dopo loro le dame delle corti loro e famiglie in carrozze da viaggio. A quel modo i cardinali accompagnarono la regina sino al condurla in una lunghissima sala dell’abitazione [p. 23 modifica] pontificale; e per entrarvi a cavallo si era tirata una lunghissima scala dal piano del cortile sino al suo ingresso e vi si montava con somma facilitá. All’entrarvi discese la regina da cavallo insieme con la madre e l’arciduca, e si avvicinarono al soglio pontificale ivi alzato dove con le ceremonie solite il pontefice accolse ciascuna delle persone loro; e dopo le proporzionate dimostrazioni di onore e d’affetto che scambievolmente uscirono dall’una e dall’altra parte, la regina con la madre e l’arciduca fu accompagnata a godere l’ospizio, che in ogni piú maestosa forma di pontificale e di regia grandezza era loro preparato.

Voltaronsi gli occhi di ognuno in tale occasione a contemplare la faccia e le maniere della regina che doveva esser moglie di un sí gran re, e dare i successori ad una sí gran monarchia. Era giovanetta allora di quindeci anni, e spirante pur tuttavia un modesto ma insieme grazioso pudor verginale; bianchissima di volto, biondissima di capelli, occhi allegri, fattezze vaghe, labri di bocca austriaca, ben proporzionata in tutto il resto della persona; e le maniere sue naturali d’allora facevano in lei apparire molto piú l’affabilitá e la domestichezza alemanna che il ritiramento e la gravitá spagnola. Di molte sorelle questa era piú commendata in bellezza, e perciò tanto piú l’aveva scelta il re vecchio per accompagnarla in matrimonio col prencipe suo figliuolo.

Preso che ebbero un giusto riposo i nuovi ospiti, si venne poi alla celebrazione de’ matrimoni. Preparorno nella chiesa catedrale tutto quello che bisognava per un’azione che doveva esser piena di tanta allegrezza e pompa, e si accomodarono specialmente due luoghi a parte in sito opportuno fra lo spazio che è innanzi all’altare maggiore, l’uno per la regina e per l’arciduchessa e l’altro per l’arciduca, accioché le persone vi dimorassero nel tempo della messa, da quello in fuori nel quale dovessero presentarsi all’altare per l’atto de’ matrimoni.

Dunque nella destinata mattina, disceso che fu il papa nella catedrale con la sua corte, e discesavi la regina l’arciduchessa e l’arciduca similmente con loro, si diede principio, [p. 24 modifica] e con concerto maraviglioso in tutte le cose fu posto fine a síi memorabile azione. Celebrò la messa pontificalmente il papa medesimo, e fra le sollennitá consuete di quel sacrificio seguí l’uno e l’altro matrimonio secondo lo stile consueto della Chiesa, e rappresentossi dall’arciduca la persona del re di Spagna e dal duca di Sessa quella dell’infanta sorella del re. E tale in somma per tutte le circostanze di splendore di maestá e di concorso, e per tutte l’altre sue parti riusci quell’azione, che senza dubio poche altre in tal genere averanno potuto mai agguagliarla. Rimase la regina tuttavia qualche altro giorno in Ferrara, e in un di essi particolarmente il papa diede a lei all’arciduchessa e all’arciduca un sollennissimo pranzo, ma in tavola separata secondo l’uso de’ pontefici con tutti i prencipi e prencipesse di qualsivoglia piú alta condizione che siano. Negli altri giorni fu la regina festeggiata sempre in varie maniere, e con ricreazione di comedie sopra materie serie o con feste di balli o con diversi altri dilettevoli passatempi; fra’ quali ebbero luogo un giorno ancora le maschere pubbliche benché il tempo non fusse carnevalesco. Partí poi la regina insieme con la madre e con l’arciduca, né poterono essere maggiori le demostrazioni, che dalla parte del pontefice e dalla loro si viddero in segno della sodisfazione che di qua e di lá si era data e ricevuta scambievolmente. Fu accompagnata la regina dal cardinale Aldobrandino con titolo di legato sino al confine del dominio ecclesiastico, e di lá seguitò ella il suo viaggio per doversi imbarcare a Genova e condursi per mare in Spagna. Poco inanzi che la regina arrivasse a Ferrara vi gionse il cardinale di Firenze, che tornava dalla sua legazione di Francia, riportando una somma gloria di lá per aver maneggiata e conclusa fra le due corone sí felicemente la pace. All’entrar della cittá fu ricevuto dal sacro collegio a cavallo e condotto al concistoro publico, che gli diede il pontefice conforme allo stile usato in somiglianti occasioni. Del che ho voluto qui dare questo breve cenno, avendo giudicato meglio che insieme con la proceduta publicazione de’ matrimoni accennati, [p. 25 modifica] procedesse ancora quel piú che in tal materia piú lungamente vien riferito.

Tutti questi successi rappresentati da me brevemente furono i piú considerabili che si vedessero in Ferrara, nel tempo che vi dimorò il pontefice con la sua corte. Ma era giá sopragiunto il fine dell’autunno, onde il papa verso il fine di novembre si pose in camino per tornarsene a Roma. Passò per Bologna e dimorò alcuni giorni in quella cittá. Quindi ritornò in Romagna, e di lá nella Marca, e per la stessa via di Loreto con ogni maggior felicitá di viaggio ritornò all’ordinaria sua stanza di Roma.