Memorie per servire alla vita di Dante Alighieri/XVI

Da Wikisource.
Dell’Effigie, del Costume e dei Meriti di Dante Poeta.

../XV ../XVII IncludiIntestazione 23 gennaio 2023 100% Da definire

XV XVII


[p. 150 modifica]

§. XVI.

Dell’Effigie, del Costume e dei Meriti di Dante Poeta.

Fu Dante di mezzana statura, e nella vecchiaja andava alquanto curvo, ma sempre con passo grave, e mansueto. Il suo volto era lungo, e di color bruno, il naso aquilino, gli occhi erano piuttosto grossi, le mascelle grandi, ed il labbro di sotto avanzava l’altro, la barba ed i capelli folti, neri, e crespi, ed il suo aspetto appariva d’uomo malinconico e pensieroso1. Molte sono le medaglie gettate in onor suo2, che adornano i Gabinetti dei curiosi, e molti i Ritratti, che in marmo, ed in tela s’incontrano in Firenze3 ed altrove, i quali al vivo [p. effigie modifica] [p. 151 modifica]la di lui effigie rappresentano. Al suo sepolcro in Ravenna vi era una testa assai ben modellata, la quale dall’Arcivescovo di detta città fu donata al celebre Scultore Giambologna, e dopo la morte di lui essendo con molte altre cose curiose pervenuta nelle mani di Pietro Tacca suo scolare, gli fu tolta dalla Duchessa Sforza che volle di una gioja sì rara, non senza gran dispiacere di chi la possedeva, privare la nostra città4. Il Busto però di questo divino ingegno:

Che le muse lattar più ch’altri mai,

ed a cui le Toscane Lettere sono più che ad ogni altro debitrici di gran parte del loro lustro, e della loro grandezza, fu collocato sopra la Porta dello Studio Fiorentino per opera del Senatore e Cavalier Baccio Valori5, quasi per dimostrare che Firenze non si vanta di avere avuto alcun altro soggetto di Dante più famoso, e più grande nelle Lettere. Che se a lui non fu innalzato nel nostro Duomo un decoroso Deposito, come aveva pensato di far la Repubblica, almeno si volle, che la sua effigie dipinta in tela6 mostrasse ai forestieri in quale stima [p. 152 modifica]abbiano i Fiorentini questo lor celebre concittadino. Era Dante nell’esterno più che niun’altro, composto, cortese, e civile7, negli studj assiduo, e vigilante, tardo parlatore, ma nelle sue risposte molto sottile8, e solitario e ritirato dal conversare con gli altri, ambizioso conoscitore dei proprj meriti, e della propria [p. 153 modifica]capacità, nemico dei cattivi, e di tutti quei che lo avevano offeso, e degli altri costumi implacabile censore. Odiava l’adulazione, e mai per alcun riguardo si ritenne dal dire ciò che pensava di alcuno. Amava la Patria, e dispiacendoli di esser condannato ingiustamente a star fuori di essa, non usò, per rientrarvi, quei mezzi, i quali potevano placare i suoi nemici; ma stimando che l’esilio che soffriva, fosse una conseguenza del cattivo governo di essa, voleva nello stesso tempo tornare in Firenze, e riordinare lo Stato. L’animo suo nobilmente altero, non soffrì mai pazientemente d’essere stato cacciato con mendicati pretesti, e con dichiararlo colpevole di un delitto il più infame che si potesse inventare per offendere la delicatezza di un ben nato Repubblicano, da quella Patria, che col proprio sangue aveva difesa. Conversò con le femmine, e con esse fu allegro e gioviale; ma nelle Corti dei Signori non seppe coll’umiltà, e colla sommissione acquistare l’altrui benevolenza, perchè i vizj di quei, che le frequentavano, non volle o compatire, o adulare. Benchè Guelfo fu sbandito dalla Patria quando governavano i Guelfi; onde abbandonando la parte, che aveva seguitato, mostrò di essere un fiero Ghibellino, sperando con l’ajuto di quei che favorivano questa fazione, di tornare in Firenze. È difficile che ora alcuno s’immagini come lo spirito delle fazioni acciecasse nei trascorsi secoli le menti più illuminate dal mirare direttamente i veri oggetti del ben pubblico, e della comune grandezza. L’ignoranza suol’esser madre feconda di dissensioni; ma per mala sorte quei medesimi, i quali con lungo studio, e colla cognizione delle più sacrosante verità procurarono di schiarire le folte tenebre di essa ignoranza, spesso per difetto di buon volere, fecero servire a maggior danno degli altri, i frutti delle loro applicazioni. Male in tanta lontananza di tempi si può giudicare la causa fra Dante e la sua Patria; ma se in ciò si ha da prender lume dagli Scritti dello stesso Dante, si vedrà che tutto il danno nasceva dalle malvage Sette, e che egli sarebbe stato un’ottimo cittadino in una meglio regolata Repubblica. La vivacità del suo talento, la profonda cognizione delle [p. 154 modifica]scientifiche verità, le quali erano allora note, l’assidua applicazione allo studio, l’amore della patria, l’abilità nei maneggi, il coraggio nelle intraprese, in tempi meno disastrosi erano le migliori qualità che potessero concorrere in un’uomo di governo. Ma qual’era in quel tempo lo stato di Firenze non solo, ma di tutta la misera Italia? Le gare fra i cittadini erano a tal segno arrivate, che senza riguardo alla privata passione, si sacrificavano indistintamente i buoni e i cattivi; e le dispute fra la Chiesa e l’Impero, fra i Nobili ed il Popolo, avevano quasi scancellato dagli uomini ogni rispetto di parentela e d’amicizia, e fatto tacere ogni più sacrosanta legge della natura. In tanta confusione di cose non si poteva facilmente conoscere il vero carattere di un’uomo, perchè da ogni sua parola, e da ogni suo pensamento si prendeva motivo per dichiararlo o Ghibellino, o Guelfo, o aderente ai Magnati, o alla Plebe,9 quantunque internamente non avesse avuto altra mira, che la quiete e la pace comune. Ma quanto risalterebbe il merito di Dante, se si prendesse a dimostrare lo stato delle Lettere, le quali appena erano in quel tempo professate dai Laici10! perchè si vedrebbe come superò tutti gli altri suoi contemporanei nella vastità del sapere. Cognizione delle passate storie, delle opinioni degli uomini, e delle più nobili Discipline, forza nel dire, vivacità nei pensieri e nelle immagini, esattezza nelle espressioni, e nella pratica dei vocaboli stessi, sono quelle [p. 155 modifica]doti, a motivo delle quali la Poesia di Dante non comparisce nè languida, nè sterile, nè bassa, come lo è quella degli altri Poeti che lo precederono; ma sublime, fiorite, e piena di sentimenti. Egli diede, per così dire, la vita alla toscana favella, e senza seguire altri precetti, che quelli, che la fecondità del proprio ingegno, ed il fuoco della propria immaginazione gli suggerivano, lasciò, come Omero, molto da imitare, ma poco da inventare. I nostri Scrittori non hanno risparmiate le lodi come un tributo di riconoscenza per quel tanto, di cui erano ad esso debitori, ed il titolo di Divino11, col quale, quasi in ogni libro, vien fregiato il suo nome, poch’altri fra i profani Autori più di lui seppero meritarlo. Lo stesso Voltaire nella sua lettera sopra Dante, quantunque nel numero di quelli che non sono stati a Dante molto devoti, ha confessato nel suo Saggio d’Istoria generale, che quel bizzarro Poema, [p. 156 modifica]ma scintillante di naturali bellezze, è un’opera in cui l’Autore «s’eleva dans les détails au dessus du mauvais goût de son siecle et de son sujet, et est rempli de morceaux écrits aussi purement que s’ils étaient du tems de l’Arioste et du Tasse». Anco nel discorso pronunziato nel 1746. all’Accademia Francese per il suo ricevimento, applaudisce al nostro Poeta per avere avvezzati gli Italiani a esprimere tutto, e a dir tutto nella loro lingua secondo l’esempio degli antichi. Che se in un secolo tanto illuminato, quanto si pregia di essere il nostro, opera eccellente si reputa la sua Commedia, bisogna dire che i difetti, i quali alcuni troppo delicati Scrittori hanno in essa scoperti, sieno infinitamente minori di numero delle sue bellezze. Ma in queste mie memorie non ho pensato di tessere il panegirico a Dante, nè di fare la sua apologia, perchè le opere consacrate dalla fama non hanno bisogno di esser lodate, e da se stesse formano l’elogio il più sincero a chi seppe comporle12. Se veramente di Niccolò Machiavello fosse un Dialogo che anni sono fu in Firenze pubblicato sopra il nome della lingua volgare13, parrebbe che questo celebre uomo avesse avuto [p. 157 modifica]in poco concetto la Commedia14 e che ascrivesse a capital delitto in Dante l’aver biasimato piuttosto i vizi della Patria che la Patria medesima; ma siccome altri prima di me ha mostrato dubitare se simil dialogo possa attribuirsi al segretario Fiorentino15, così non dovranno i pochi nemici di Dante far forza sul dispregio che l’Anonimo autore di quel discorso palesa per il Poeta, tanto più che egli stesso ancora fu astretto di confessare essersi Dante dimostrato in ogni parte «per ingegno, per dottrina, e per giudizio uomo eccellente»16.

Note

  1. Boccaccio Vita di Dante.
  2. L’Apostolo Zeno nel Vol. 2. delle sue Lettere num. 224. ci dice che nell’Imperial Museo di Vienna vi è una Medaglia con la testa di Dante, e le lettere DANTES FLORENTINUS, nel rovescio della quale fra due lauri si leggono le seguenti lettere iniziali F. S. K. I. P. F. T. Il medesimo Zeno avverte nello stesso luogo che queste note distribuite appunto nella maniera suddetta, stanno in un’altra Medaglia del prefato Museo, che nel diritto rappresenta la testa di Pietro Pisano artefice di medaglie molto eccellente, intorno alla quale si legge PISANUS PICTOR. Il quale legge celebre Pietro Mariette in una sua lettera a monsignor Bottari in data di Parigi 14. luglio 1758. stamp. nel Vol. V. della raccolta di lettere sulla pittura, scultura, ed architettura, Roma 1766. in 4.° pag. 263., rammenta questa medaglia rappresentante l’effigie di Vittore Pisano ch’egli possedeva, soggiunge che le lettere sono distribuite così F. S. K. L. P. F. T. cita la lettera del Zeno, e desidera che siano spiegate tali sigle. Dallo Zatta sono state fatte incidere alcune medaglie di Dante in una tavola in rame, per nobilitare la sua edizione, l’impronta delle quali medaglie fu presa dal Museo del Mazzucchelli.
  3. Nella Cappella del Palazzo, che si disse del Podestà, fu dipinto Dante per mano di Giotto (Vasari Vit. de’ Pittori, P. I. nella Vita di Giotto), e nella Casa de’ Carducci, oggi de’ Pandolfini, fece il di lui ritratto al naturale fra quello di altri uomini famosi Andrea del Castagno (Vasari loc. cit. P. II. nella Vita di detto Andrea). A’ tempi di Leonardo Aretino miravasi l’effigie del nostro Poeta quasi nel mezzo della Chiesa di Santa Croce a mano destra «ritratta al naturale ottimamente per dipintore perfetto del tempo suo». Ma troppo lunga impresa sarebbe il numerare tutti i ritratti, che del nostro Poeta furono da eccellentissimi pennelli lavorati, giacchè pochi vi sono nella nostra città, i quali alcuno o nelle case, o nelle ville non ne conservi gelosamente. Così il medesimo Aretino nella vita di Dante dice.
  4. Lo racconta il Cinelli nella sua storia degli scrittori Fiorentini manoscritta nella Libreria Magliabechiana, ove parla di Dante, e dice di più che tal cosa l’aveva saputa da Lodovico Salvetti scolare del Tacca.
  5. Mentre era nel 1587. Console per la seconda volta all’Accademia Fiorentina (Canon. Salvini Fasti Consolari pag. 286. e seg.)
  6. Un tal maestro Antonio dell’Ordine di S. Francesco, il quale spiegava pubblicamente in Duomo la Commedia di Dante, fece ivi collocare un quadro dipinto in tela (Ricordo manoscritto nella Riccardiana in un Codice cart. in fogl. o. 11. num. V. pag. 180) con alcuni versi stampati dall’indefesso Dott. Lami nel suo Catalogo dei manoscritti della Libreria Riccardi. Presentemente in luogo di questo quadro, il quale è nelle stanze dell’opera di detta Chiesa, un’altro se ne osserva, in cui è rappresentato il Poeta Dante con i suoi tre regni, e la veduta di Firenze. Sotto si leggono i seguenti versi, che si credono fatti da Coluccio Salutati:

         Qui Coelum cecinit mediumque, imumque tribunal,
              Lustravitque oculis cuncta Poeta suis,
         Doctus adest Dantes sua quem Florentia saepe
              Sensit consiliis, ac pietate patrem.
         Non potuit tanto mors saeva nocere poetae
              Quem vivum virtus carmen imago facit.

    Non se questo quadro sia quello, di cui parla il Salvini nella Prefaz. de’ suoi Fasti Consolari pag. 18. È da consultare il tomo 2. della Firenze antica e moderna illustrata, Firenze 1790. in 8.° pag. 294. In Verona sopra la facciata della casa della nobil famiglia Marozna stà dipinta a fresco l’idea della prima cantica, o dell’inferno di Dante, opera di Paolo Farinata degli Uberti Veronese oriundo Fiorentino.

  7. Questo è il carattere, che fa di Dante il Boccaccio, ma Gio. Villani, mostrando di giudicarne più tosto da ciò che appariva da’ suoi scritti, che per averne avuta un’esatta relazione, ce lo descrive diversamente; ma può ben’essere che la vita infelice che egli menò dopo il suo esilio, lo facesse diventar presuntuoso, schivo e sdegnoso, siccome dice lo stesso Villani, le di cui tracce abbiamo seguite, quantunque a costo di esser ripresi per esserci in apparenza contraddetti.
  8. Si raccontano dal popolo di Firenze diverse risposte date da Dante, le quali non ho creduto che andassero registrate in queste Memorie, perchè non trovo che di esse facciano menzione Autori degni di fede.
  9. Più che Guelfo in generale per Ghibellino e aderente ai Magnati si tenne.
  10. Laico, ed uomo uomo senza letteratura in quel secolo era quasi la cosa stessa, ed al contrario chierico e letterato fu preso per sinonimo. Oltre gli esempi che della significazione di tali voci riporta il Du-cange v. clericus, laicus ed altri, il Co. Giuseppe Garampi nelle sue erudite annotazioni alla vita della B. Chiara di Rimini pag. 35. ne adduce di nuovi, ed ancor io potrei trarne fuori degli altri se ne valesse il pensiero. Non in questo senso certamente Gio. Villani dice di Dante, che quantunque laico, fu sommo poeta, e filosofo, e rettorico perfetto ec. Laico cioè non chierico.
  11. Il titolo di Divino ne’ passati tempi fu dispensato agevolmente a chiunque veniva reputato in alcun genere eccellente, siccome dimostra il P. Mariano Ruele nella Scanz. XXIII. della Biblioteca voltante del Cinelli pag. 65. e seg. Ma la troppa frequenza fece, che decadesse questo titolo da quella stima, in cui era. Ci dobbiamo per altro maravigliare che il Giornalista di Bouillon (Journal Encyclop. pour 15. avril 1764. pag. 6.) abbia osato scrivere che Dante «au de là des Alpes on l’appelle divin, parcequ’au de là des Alpes on ne comprend, ni le Dante, ni ses savans commentateurs». È singolar cosa che uno straniero voglia decidere se noi intendiamo un nostro scrittore, il quale tenghiamo per maestro della Toscana poesia; ma sarebbe anche più strano che volessimo confutare tutte le sciocchezze che in pochi versi in mezzo ad alcune verità ha lasciate uscire dalla penna questo Autore. «O primier peuple du monde, quand serez vous raisonnable? (Discours aux Welches par Antoine Vadè frêre de Guillaume, entre les contes des ce dernier, pag. 131.). Solamente per conoscere quanto egli sia giusto ne’ suoi giudizi basta soggiungere ch’egli dice ancora che i contemporanei di Dante lo riguardavano come «le plus fou des hommes, et le plus grand des poetes». La seconda proposizione è chiara, ma della prima qual riprova ne ha il giornalista? Non s’immaginerebbe poi, che in detto luogo scrive tutto questo, per inalzare sopra Dante, il Petrarca, il quale forse non averebbe meritato, se dal primo non imparava.
  12. Io mi sono astenuto dal citare alcuna autorità in conferma delle lodi date a Dante, perchè mi sarebbe stata difficile la scelta, innumerabili essendo quelle che in ogni libro mi si paravan davanti; sebbene inutili ancora sono tutti gli encomj, quando la cosa stessa parla da se. Gli Scrittori di oscuro nome, e di mediocre merito hanno bisogno che sieno ricopiate le testimonianze de’ loro parziali da chi dà alla luce le loro opere; ma Dante ha bisogno solamente di esser letto per inspirare in chiunque rispetto e venerazione.
  13. Questo dialogo senza nome dell’Autore fu impresso da Tartini e Franchi nel 1730. dietro l’Ercolano del Varchi per opera di monsignor Bottari, il quale nella Prefazione pag. 39. lo disse «parto di scrittore Fiorentino giudiziosissimo, e di profonda e non comunale scienza corredato, quasi contemporaneo, ma un poco più antico del Varchi, e che nelle bisogne di nostra Repubblica impiegato mostrò colla prudenza dell’adoperare, e colla acutezza de’ suoi scritti chiarissimo argomento e dell’altezza del suo ingegno, e della sagacità del senno suo maraviglioso in conoscere gl’interni fini degli uomini, ed in saper volgere a suo piacimento ambe le chiavi del cuor loro». Chi distese poi la vita di Luigi Pulci avanti l’edizione del Morgante fatta nel 1732. in Napoli in 4.° con la data di Firenze, disvelò il nome dell’autor del Dialogo, ch’egli fu Niccolò Machiavelli affermando, senza apportarne alcuna riprova.
  14. Pag. 461.
  15. L’Apostolo Zeno nelle sue annotazioni alla biblioteca del Fontanini Vol. 1. pag. 36. osserva che facendosi in questo discorso pag. 453. menzione del libro di Dante De vulgari eloquentia che non fu noto ad alcuno prima del 1529. nel qual anno il Trissino lo pubblicò volgarizzato, ed essendo morto Machiavello due anni prima cioè nel 1527. ciò, dava ad esso motivo di dubitare se dalla sua penna potesse credersi che fosse uscito uno scritto in cui si ragionasse intorno ad una questione che non era ancor nota. Io poi nel leggere questo discorso non vi ho saputo trovare quella sublimità di pensare, e quella chiarezza di espressione ch’è nelle opere di Niccolò; che anzi mi è apparso lavoro di un’ingegno non molto sublime, nè avvezzo alla precisione, ed alla esattezza del ragionare, perchè le prove che adduce per far vedere che la lingua in cui scrisse Dante fu la Fiorentina non sono nè le vere, nè quelle che potrebbero convincere chi a la tal disputa molto discosta dal gusto di questo secolo, volesse por mente.
  16. Pag. 453.