Nostalgie/Parte III/Capitolo IV
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IV.
Verso la fine della settimana arrivò un telegramma di madame, che pregava Antonio di recarsi ad Albano.
— Ella non può vivere senza di lui, — pensò Regina, assalita da un impeto di vera gelosia. — Io mi faccio tanti scrupoli perchè sono entrata nella sua casa, mentre ella non c’era; ma lei non se ne fa di scrupoli, no, non se ne fa. Ma io non lo lascio partire; io...
Sragionava e s’accorgeva di sragionare, ma oramai il delirio del dubbio era diventato in lei una abitudine, una specie di pazzia tranquilla.
Come sempre, però, non riuscì ad eseguire i suoi fieri progetti; solo, quando Antonio le propose di accompagnarlo ad Albano, ella rispose di sì.
Disse di sì fino all’ultimo momento, ma la domenica mattina cambiò parere.
— Non andarci neppure tu, — osservò; — se madame ha bisogno di te perchè non viene lei a Roma? Sei il suo servo, forse?
— Regina! — egli disse con rimprovero.
— Nè regina nè principessa! Sono stufa, oramai, di questa vita che meniamo: non ci vediamo che per qualche momento, durante la settimana, ed ora anche la domenica te ne vai!
— Per una volta! Eppoi perchè non vieni? — Non vengo perchè mi pare e piace di non venire: non ho da riverire nessuno, e sarebbe tempo che anche tu la finissi. Hai forse più bisogno di servire? Se è vero che i nostri affari vanno tanto bene, — ella proseguì, con evidente amarezza, — perchè...
— È impossibile discutere con te, — egli la interruppe animandosi. — Sei sempre irragionevole.
Egli partì a mezzogiorno: nel pomeriggio Regina andò a fare una delle sue rarissime visite alla suocera, e poi rimase anche a pranzo e rivisse, ma con ben diversi sentimenti d’allora, nel quadro che tanto l’aveva disgustata. Pensandoci bene si domandava perchè quel quadro le era parso tanto volgare: se non altro come tipi i personaggi erano, o almeno ora le sembravano, interessanti.
Arduina e Massimo, la prima con vero odio, il secondo con disprezzo verso la prima, discutevano di autori celebri; Gaspare raccontava le disgrazie coniugali d’un suo ufficiale di scrittura, il signor Mario si stuzzicava i denti, la signora Anna narrava le terribili vicende della sua serva: tutto ciò, una volta tanto, era divertente. Il pranzo era squisito; si bevette, si rise; venne Claretta, si guardò nello specchio, civettò con Massimo ed anche con Gaspare.
Infine, nulla era mutato attorno, eppure Regina non si annoiò. Claretta era meno elegante di lei, e la signora Anna provò una soddisfazione tutta materna nel constatarlo; poi chiese alla nipote perchè non si pettinava come Regina.
— Sto meglio così, — disse la signorina, accomodandosi la farfalla di nastro che le ornava i capelli. — Eppoi si usa così, ora.
— Scusami, no, — disse Massimo. — Le signore dell’aristocrazia sono pettinate come Regina.
— Madame Makuline, forse? — chiese l’altra con ironia.
Regina la fissò. Voleva forse dire qualche cosa, la bella cugina? Sapeva qualche cosa?
Mentre gli altri si disponevano a giuocare alle carte, Regina entrò nella camera da letto che un tempo le era parsa un covo di incubi. Il balcone era aperto e la luna illuminava le tende, proiettando un bagliore argenteo fin sul gran letto bianco; qualche spigolo di mobile aveva riflessi chiari; un odore di garofani profumava il silenzio e la pace di quella grande camera matrimoniale, nido di quieta felicità borghese.
Regina pensò che se Antonio l’avesse condotta a Roma in una sera come quella, e l’avesse introdotta in quella camera illuminata così, quieta e profumata, avvolta nel sogno di una notte di maggio, nulla di quanto era avvenuto avveniva.
S’affacciò al balcone pieno di garofani: la luna passava in un dolce cielo di velluto turchino, lontana e melanconica, lontana e pura, come una vela smarrita nell’immensità di un oceano di sogni. Naturalmente il pensiero di Regina corse alla terrazza in riva al lago d’Albano, dove le rose si sfogliavano e i petali cadevano, simili a farfalle, sulla madreperla iridescente delle acque illuminate dalla luna.
Che faceva Antonio? Era mai possibile che il sogno mostruoso che la premeva, potesse avere una realtà? Sotto la purezza infinita del cielo era poi vero si commettesse nel mondo tanto male?
*
Ma quando ella tornò a casa, l’incubo la ricacciò sotto di sè, di nuovo vincitore in quella lotta nella quale Regina era troppo spesso la più debole.
Antonio sarebbe dovuto ritornare con l’ultimo treno: non ritornò, e neppure mandò un telegramma per rassicurare sua moglie. Ella attese fino a mezzanotte; poi andò a letto, ma passò una notte agitata, anche perchè era la prima volta che dormiva sola nel letto coniugale.
La mattina per tempo si fece portare Caterina a letto. La bambina, in camicino, sedette sul cuscino e parve inquieta per l’assenza del padre.
— Papà? — domandò.
— Papà non c’è, verrà presto, presto, presto. Còricati, ora; giù! Dammi il piedino, il piedino mio: quest’altro è di papà? Bene, glielo darai quando viene, — disse Regina tirando giù la bambina, la quale, quando c’era Antonio a letto, usava dare un piedino alla mamma e l’altro al papà: e le prese ambi i piedini; ma Caterina volle tener libero quello del papà, poi toccò col ditino roseo il merletto della camicia di Regina.
— Ti è to? — domandò.
— Questo è tuo? — tradusse Regina. — Sì, è mio, sì! E questa piccola Caterina di chi è? È mia, non è vero, tutta mia? Ed anche un pochino di papà; ma pochino pochino, perchè papà è cattivo e non torna la notte, e lascia sola la mammina.
Ella si sfogava così, puerilmente, con la piccolina rosea, e mentre si faceva dare da lei dei «bacini piccolinini piccolinini, carini carini» e sentiva, che nessun piacere era più delizioso di quello, ripensava sempre alle visioni mostruose che l’avevano agitata tutta la notte.
Senza dubbio Antonio aveva dormito nel villino in riva al lago, in una camera la cui finestra era un quadro meraviglioso di paesaggio e di cielo. E nel silenzio della notte, mentre al di fuori il paesaggio ed il cielo erano tutto un poema di bellezza e di purezza, un idillio losco s’era svolto là dentro...
— Caterinina mia, sorghin, fammi un abbraccino, dormiamo assieme... — diceva Regina, mettendosi sul viso la manina della bimba, e chiudendo gli occhi, quasi per sfuggire alle mostruose visioni. — Così, chiudi gli occhi, così.
Per un po’ la bimba obbedì; ma improvvisamente diventò cattiva; s’agitò e diede con la manina aperta un gran colpo sul viso della madre.
— Come sei cattiva! — gridò Regina, — lo dirò al papà, sai. Non si dà così alla mamma! Domanda subito perdono; fammi subito una cara, così: cara, cara mammina, perdonami, non lo farò più...
Ma la bimba le diede altri colpi, ed allora Regina s’incollerì davvero.
— Cattiva che altro non sei! — esclamò, afferrandole la manina e dandole dei colpettini. — Va via, non ti voglio più vedere. Più nel mio ninnino, più, più! Non ti voglio più bene. Anche tu sei così cattiva?
Caterina si mise a piangere, con lagrime vere; e quella coscienza del dolore, così rara nei bambini, colpì profondamente la giovine madre.
— No, almeno tu non soffrire! È troppo presto! — pensò. E raccolse a sè la piccina, le ravviò i capelli, la baciò sulla testina tremante.
— Vieni qua, taci. Taci, taci. Non farai più la cattiva, no, vero? Taci, la tua mammina ti vuol tanto bene. Buona, su, taci. Ecco papà!...
A questa promessa Caterina si calmò quasi per incanto. Allora Regina sentì in lei la rivelazione di un sentimento nuovo, e si meravigliò di non averlo compreso prima. Le parve, come qualche volta aveva già creduto di intuire, che Caterina amasse più il padre che la madre. Con l’istinto meraviglioso dei bimbi, Caterina sentiva che egli era il più buono, il più debole, il più affettuoso ed i due; che la amava più ciecamente ed appassionatamente di quanto la amava la madre: e lo corrispondeva e lo preferiva per ciò.
Regina non ne sentì gelosia, e non si domandò se era troppo o troppo poco madre per questo; ma quella mattina, attraverso il turbine di cose tristi e brutte che le travolgeva l’anima, ella sentì quel supremo sentimento di pietà, che tra il crollo di tutti i suoi sogni la sosteneva ancora come un’ala potente, stendersi non su lei, non su Antonio, ma sopra la loro bambina. Essi erano già morti alla vera vita, imputriditi dai loro vani errori; ma Caterina era l’avvenire, la vita, il seme, che rinasceva tra le foglie morte. Bisognava pulirle il terreno attorno.
E per la prima volta pensò che non per sè, per un’ultima vanità di sacrifizio, non per lui la cui anima sarebbe rimasta sempre macchiata, ma per la loro bambina, ella doveva ritrarre Antonio dal fango.
*
Antonio ritornò col treno delle sette e venti, ed ebbe appena il tempo di lavarsi, prendere il caffè e correre all’ufficio.
A mezzogiorno, durante il pasto, egli raccontò le meraviglie di Albano, del villino, della notte sul lago.
— Tanti fiori, tante rose! Una meraviglia. Ho perduto l’ultimo treno perchè volevo prenderlo a Castel Gandolfo, dove madame e Marianna vollero scendere a piedi: dopo siamo risaliti in carrozza. Non puoi immaginarti che splendore. C’era la luna... ho pensato sempre a te... Non ti ho telegrafato perchè era tardi...
— Chi ti dice niente? — esclamò Regina, che ascoltava e mangiava, silenziosa e distratta.
— Ti sei arrabbiata? Regina!
— Io? perchè dovrei arrabbiarmi? — ella disse con voce sorda.
Antonio dovette capire che qualche cosa di torbido le annuvolava lo spirito, perchè prese a parlare con volubilità, cercando di distrarla.
Cominciò a parlar male della principessa:
— Quanto è noiosa! Mi ha fatto fare questo viaggio nientemeno che per la famosa pelliccia... «Scusi? — proseguì, imitandola. — Non è per il valore, ma perchè era un ricordo prezioso». Chissà, gliela avrà regalata George Sand! Non ha parlato d’altro: anche Marianna si è seccata ed ha proposto di cavar la pelle al pellicciaio, se non ci restituisce la pelliccia.
— Hai dormito nel villino? — domandò Regina, senza badare a ciò ch’egli diceva.
— Sarebbe stata bella che mi avessero mandato altrove.
— Certo! — disse Regina, con evidente sarcasmo. E senza sollevare gli occhi dal piatto: — È russa madame?
— È russa, non lo sapevi? — rispose pronto Antonio.
Null’altro. Ma la voce di lui vibrò, d’una vibrazione appena percettibile, che sarebbe sfuggita a tutti, non a Regina.
Senza guardarsi, senza far un cenno, in quel momento essi si compresero e scambievolmente sentirono d’essersi compresi. Regina credette che Antonio si fosse turbato in viso; ma non osò guardarlo.
Continuò a mangiare e solo dopo un momento sollevò il volto e rise. Non seppe mai perchè in quel momento aveva riso.
— Io non ho dormito niente, questa notte: mi pareva di esser vedova.
— Magari, ti piacerebbe d’esser vedova! Lo so che non mi vuoi più bene, — egli disse, un po’ scherzando, un po’ sul serio.
— Oh zielo! — esclamò Regina, con voce sottile e cattiva, imitando il grido di beffe selvaggia che aveva udito da uno spettatore in un teatro popolare. — Che dramma da luna di miele rancido! E cambiando voce, ma sempre beffarda:
— A te piuttosto piacerebbe di restar vedovo.
— Non ne vedo la ragione.
— È vero!
— Come, è vero?
— Tanto, che faresti, vedovo? Ti riammoglieresti subito. Sei uno di quegli uomini che non sanno goder la vita, da soli, che anzi non sono neppur buoni a vivere, da soli. A me questi uomini fanno compassione.
— Dunque io ti faccio compassione?
— Tu? Tu mi fai pietà!
— E perchè? Perchè sono tuo marito?
— Sì, e perchè sei mio marito... Porta via, — disse Regina alla domestica, spingendo dispettosamente il piattino. E quando furono di nuovo soli aggiunse: — Questa volta però non saresti così stupido da sposare una donna povera.
Egli la guardò ed ella credette di scorgere gli occhi di lui illuminati da un baleno d’ira, freddi, metallici, come mai li aveva veduti.
— Io non saprei che farmene delle ricchezze, — egli rispose poi, tranquillo.
La domestica, riapparve sull’uscio e Regina tacque. Tacque, colta da un senso di freddo. Le pareva che le parole di Antonio avessero una intenzione di accanita difesa, un rimprovero breve e schiacciante come una sassata: ella se ne sentiva colpita mortalmente. La lotta cominciava? Per quel giorno non dissero altro; anzi, dopo aver mangiato si ritirarono assieme nella loro camera, assieme fecero la siesta, e prima di andar via Antonio baciò sua moglie con la solita tenerezza affettuosa e un po’ languida. Ma oramai pareva a Regina che egli vegliasse, pronto a tutte le difese.
*
Dopo quel giorno essi cominciarono a bisticciarsi di frequente. Ella se la prendeva per cose da nulla, e gli rinfacciava tutti i suoi piccoli difetti, cogliendo però l’occasione per accusarlo velatamente di ciò che, soltanto colpevole, egli avrebbe dovuto capire. Antonio si difendeva, senza stizzirsi troppo, senza offendersi troppo: ella credeva sempre più che egli avesse paura d’irritarla maggiormente e una grande tristezza la vinceva.
Perchè erano così vili entrambi? Perchè ella non osava affrontarlo ancora, mentre tutto entro di lei, tutti i suoi pensieri, tutti i suoi ricordi ed i suoi istinti insorgevano contro di lui e lo accusavano? Ebbene ella finalmente lo confessava a sè stessa. Aveva paura: aveva paura della verità. E sopratutto aveva paura di sè stessa. Le pareva che solo la speranza di ingannarsi la rendesse facilmente generosa, inducendola ad un perdono anticipato. Ma se tutto era vero? Avrebbe sinceramente perdonato? Qualche volta aveva paura di no.
*
E più che il dubbio della colpa e della viltà di Antonio, la rattristavano le sue proprie debolezze, le contraddizioni ed i fantasmi del suo spirito malato. Giorno per giorno la sua anima le si rivelava. Ella si era creduta superiore, fine, cosciente; invece s’accorgeva d’esser debole e vile.
Era simile ad una pianta non coltivata, che avrebbe potuto dar buoni frutti, e invece col suo aggrovigliamento di rami infecondi riusciva soltanto a versare un’ombra pestifera intorno a sè. Ma che colpa ne aveva?
A misura però che ella credeva di conoscersi, cercava di rendersi buona; d’altra parte, anche per istinto, non era donna da continuare in una piccola lotta di dispetti volgari e inconcludenti. Smise per la prima: i piccoli litigi cessarono, e seguì una tregua fatta di incertezze angosciose e di speranze vane.
Ella stessa si rassomigliava ad un malato che deve subire un’operazione d’esito incerto, ed è deciso a subirla e spera che la salute gli ritorni dopo, ma intanto preferisce soffrire ed allontanare ancora il momento fatale.
*
L’esistenza di Antonio e di Regina aveva intanto ripreso la sua corsa eguale, tranquilla in apparenza, tutta composta di abitudini dolci e monotone.
Maggio moriva, ridiventato puro, azzurro, quasi fresco: il cielo, dopo qualche giorno di pioggia, aveva preso tinte autunnali, dolcezze nostalgiche e profonde.
Ed al suo dolore Regina sentiva mescolarsi, come una vena di latte in un mare di veleno, la nostalgia della terra lontana. I ricordi la riassorbivano, le penetravano nel sangue con l’odore delle foglie fresche che profumava le sere glauche di via Balbo. Durante qualche passeggiata a ponte Nomentano, o sopra Trastevere, bastava lo splendore d’argento verdastro dell’Aniene o la visione gialla del Tevere, nello sfondo della campagna tutta verde, vellutata e monotona come una musica primitiva, per darle assalti di nostalgia quasi tragici. Ma ora ella riconosceva molto bene la natura di questo malore, il vano anelare verso una patria di sogni forse perduti per sempre.
Eppure ella, amava quelle passeggiate, che un tempo aveva disprezzate chiamandole «la felicità stupida dei piccoli borghesi rassegnati alla loro aurea mediocrità».
Qualche volta, in quei lunghi pomeriggi luminosi, se Antonio aveva proposto una passeggiata al di là della stazione di Trastevere, ella lo raggiungeva alla Borsa, ma il più delle volte andavano a ponte Nomentano; spesso li accompagnava la bimba, tenuta in braccio dalla donna di servizio, e Antonio si divertiva a fingere di rincorrere Caterina. La domestica correva; la bimba sussultava tutta di gioia e trillava come una rondine, rossa per l’emozione di essere inseguita e non raggiunta. Allora Regina restava indietro; guardava il cielo vermiglio dietro le siepi, i prati rosei, le lontananze tranquille, tutto quel grande paesaggio dai profili eguali, monotono e solenne come la vita di un poeta che ha cantato poemi immortali senza aver mai avuto un’avventura, nè mai commesso un errore. E vedendo Antonio correre dietro la bambina, anch’egli tutto vibrante d’una gioia quasi infantile, ella tornava a dubitare di sè stessa.*
Una sera, però, essi passeggiavano soli, diretti all’Acqua Acetosa. Per arrivare più presto al viale della Regina attraversarono un viottolo, al di là di porta Salaria, e ad un tratto Regina si fermò davanti ad un’osteria.
Per la porta spalancata si vedevano alcuni gradini, al di sopra dei quali un uscio, parimenti aperto, lasciava scorgere l’interno dell’osteria, e una invetriata colorata dal sole al declino. Su questo sfondo luminoso passava e ripassava, leggera e nera, una coppia di ballerini, i quali danzavano al suono monotono di una fisarmonica.
Una ragazza magra e pallida, con due occhi chiari lucenti, seduta vicino all’uscio, col braccio sullo spigolo d’un tavolino, occupava il primo piano del quadretto grazioso. I suoi capelli biondi si confondevano con lo sfondo luminoso. Era così rassomigliante a Gabrie, con la stessa camicetta rosea, che Regina per un momento la credette lei.
— Ma guarda se non è Gabrie, quella!
— Ma sì, — disse Antonio.
Si avvicinarono alla porta, e la fanciulla, credendoli due avventori, si alzò. Era alta almeno un palmo più della studentessa.
La coppia continuò a ballare, nera sullo sfondo arancione dell’invetriata; e Regina e Antonio passarono oltre, parlando di Gabrie.
Fin da quel momento Regina sentì un oscuro turbamento, lontana però dall’idea di cominciare un discorso odioso. Eppure, quasi involontariamente disse: — Volevo invitarla a venire con noi, uno di questi giorni, quella infelice. Non la posso vedere, ma ne ho compassione. Tosse sempre, quello straccio.
— Altro che straccio; mi pare tisica, — disse Antonio con voce indifferente: poi si animò. — Bisognerebbe non lasciarle baciar Caterina. Perchè non la puoi vedere?
— Perchè è maligna. Non fa altro che osservare e malignare.
Camminando, così, per una dolce abitudine, Antonio aveva stretto nella sua la mano di Regina.
Davanti a loro si stendeva ora il viale: a destra e a manca, in lontananza, attraverso i platani immobili sul cielo d’un grigio-perla, apparivano sfondi di campagna, vellutati dal verde vivo e puro della primavera. Negli orti esultava una pazza fioritura di rose e di gigli, il cui profumo si fondeva con l’odore dell’erba e delle fragole. Solo qualche vettura passava e spariva nelle lontananze del viale deserto.
— Chi è che mi ha detto la stessa cosa, a proposito di Gabrie? — domandò Antonio, cercando di ricordarsi.
— Marianna, forse? — chiese Regina vivamente, quasi fermandosi.
— Sì... mi pare.
— Un’altra! Una migliore dell’altra, — ella disse con amarezza, — perciò son diventate amiche.
— Oh, con Marianna non è possibile alcun paragone, — osservò Antonio; e subito guardò lontano, distraendosi.
Allora, d’improvviso, un fulmineo processo d’idee, che brillavano e s’incrociavano come lampi, si svolse in un attimo nella mente di Regina. Ella fece un movimento per ritrarre la sua dalla mano di Antonio, ma le parve ch’egli potesse da quell’atto indovinare i suoi pensieri e si irrigidì.
Si irrigidì, in apparenza, ma sentì il cuore batterle violentemente. Due, tre, dieci, molti colpi. L’ora era giunta.
Le sembrò che qualcuno, un essere misterioso, tutto nero nella intensa luminosità del tramonto, fosse passato battendole un martello sul cuore. E il cuore s’era svegliato dal maligno sopore del lungo incubo. Bisognava ora sollevarsi, scuotersi, camminare. Camminare, respirare, gridare, fare uno sforzo estremo per liberarsi completamente dall’ombra e dal peso dell’incubo. O altrimenti ricadere sotto questo peso, sotto quest’ombra, e morire.
Da giorni e giorni Regina aspettava quest’ora di lotta, ma la credeva ancora lontana, o meglio l’allontanava da sè come un calice amaro.
Ora, nel sentire ch’era giunta, ne provava un misterioso spavento. E avrebbe voluto ancora allontanarla; ma un impulso strano, quasi un istinto di conservazione, superiore alla sua volontà, la scuoteva e la costringeva a parlare.
Non ricordava nessuna delle parole da giorni e giorni preparate: solo la frase di Antonio, a proposito di Marianna, le diede un filo al quale ella si attaccò disperatamente come ad un filo che la guidasse fuori da un laberinto tenebroso.
Gira e rigira, nei tortuosi anditi del sogno maligno, ella era tornata al punto preciso dove s’era trovata il primo giorno del suo smarrimento.
— No, — cominciò con voce sorda, — tu non puoi figurarti quanto sia maligna Gabrie. Oh, molto più di Marianna. Questa qui, almeno, vede e... qualche volta tace: quell’altra... Se non ti offendi ti dico una cosa, Antonio...
Egli si volse a guardarla: anche lei lo guardò. Le parve che in quel momento essi si comprendessero senz’altro. Tuttavia insistè:
— Non ti arrabbi, però?
Egli guardò ancora davanti a sè, indifferente, troppo indifferente.
— Ma no, ti dico.
— Gabrie dice che tu sei l’amante di madame Makuline.
Egli arrossì e una collera ardente gli deformò il volto; e mentre stringeva e poi lasciava e quasi buttava lontana da sè la mano di Regina, aprì gli occhi, aprì la bocca, con atto di meraviglia e d’ira.
— L’ha detto a te? — gridò.
La sua voce risuonò nel silenzio della via.
— L’ha detto a me, sì.
Egli si fermò. Regina si fermò: il cuore le batteva forte. Le mani di lui, volte verso terra, brancicavano quasi cercando di afferrare qualche cosa, con un gesto famigliare ai grandi attori nei momenti più drammatici della rappresentazione. In realtà, pareva a Regina ch’egli recitasse troppo bene la sua parte; ma nello stesso tempo ella cercava di esser giusta, e pensava:
— Se egli è innocente è naturale che si turbi così. — E tu... tu, — egli proruppe, — tu non le hai dato uno schiaffo... tu, a quella lì... e pensavi di condurla con noi... oggi?...
— Ma... Antonio, — esclamò Regina, guardandolo con finta meraviglia; — tu avevi promesso di non arrabbiarti.
— È vero, — egli disse allora, sollevando le mani. — Ma è una cosa così infame! Come puoi pretendere che non mi arrabbi? Se è uno scherzo questo che mi fai, ti assicuro che è un brutto scherzo. Se è vero, poi, quanto mi dici, mi meraviglio della tua serenità!
Il suo viso si scolorì, rapidamente come s’era infiammato, ma si scolorì troppo; si fece quasi grigio.
Regina non batteva ciglio, tanto avidamente lo osservava. Per qualche momento, il solo desiderio che Antonio non mentisse il suo sdegno, la investì con un’onda di gioia, ed ella vi si abbandonò tutta, scambiando il suo desiderio con la certezza d’ingannarsi. Eppure... Una cosa inesplicabile avvenne in lei. La speranza di essersi ingannata, invece di renderla buona, la rese crudele, quasi cinica.
— Andiamo, — disse con ironia. — Perchè dovevo arrabbiarmi? Perchè dovevo dare uno schiaffo a Gabrie? E se ella avesse detto la verità? Camminiamo, — aggiunse, cercando di riprendere il braccio di Antonio.
Ma egli la respinse; non fece un passo.
— Lasciami! Che cosa è la verità?
— Che tutti ci credono senza osare di dirmelo come ha osato lei...
— Tutti ci credono?... Ma... Regina, e tu, ci credi? — Anch’io!
— Senti, — egli disse, adirandosi ancora, ma più cupo, più sdegnoso, — senti; non ti vergogni?
— Andiamo, — ella ripetè, avviandosi senza più cercare il braccio di lui, — non facciamo scene per la strada.
E si avviò, cieca, tutta riavvolta nell’ombra paurosa dalla quale aveva creduto liberarsi. L’attimo di speranza era passato. Perchè? Non sapeva. Si può sapere perchè il cielo ad un tratto si copre di nuvole? L’atteggiamento di Antonio era quello di un uomo offeso: egli la seguiva, lontano, lontano appena un passo da lei, e ripeteva con voce irritata e incosciente:
— Vergognati, vergognati...
Ma ella oramai non poteva più abbandonarsi all’ardente desiderio di crederlo innocente. Non poteva, non poteva.
— Tutti lo credono! — ripetè Antonio, rimettendosi al fianco di lei, ma senza sfiorarla. — E me lo dici così, per la strada, improvvisamente, come uno scherzo! E tu, anche tu ci credi! E me lo dici così!...
— Come volevi che te lo dicessi?
— Almeno prima!
— Figurati che l’abbia saputo oggi, poco fa, per esempio!
— Non è possibile. Eri troppo serena, poco fa.
— Si può fingere così bene! — ella disse, con un sorriso ghignante, che le solcò le guancie come un segno di spasimo.
— Poco fa! — egli ripetè, stringendosi le mani e scuotendole all’altezza del suo viso. — E allora perchè dicevi che tutti ci credono? Anche questo hai saputo poco fa? Te lo ha detto anche quella... quella... (cercò, non trovò una definizione esatta) non so come chiamarla! E tu, tu non ti vergogni di abbassarti a simili pettegolezzi, con creature simili? Con creature degenerate? Tu, — continuò, sforzandosi ad esser beffardo, — tu, la donna superiore, la donna fina, la gran dama! La gran dama! — ripetè, alzando e ingrossando la voce.
Allora Regina si animò. Un cupo rossore le mise un cerchio di fuoco intorno al viso, dalla fronte al mento: anche le sue mani si agitarono con gesti tragici.
— Non essere volgare, Antonio, — disse senza più guardarlo. — Che vuoi? La vita è così, stupida, borghese! Si rivelano le cose più orribili per mezzo di pettegolezzi da donnicciuole, e si svolgono i drammi per la via maestra, durante una passeggiatina. Guai se questo avvenisse in un romanzo: l’autore sarebbe tacciato di volgarità, se non d’inverosimiglianza. Nella vita, invece, vedi come succede... La gran dama va a scoprire la causa della sua infelicità in uno stambugio di via San Lorenzo; la donna superiore scende in istrada per...
— Regina, finiscila! Finiscila! — impose e pregò Antonio. — Tu ragioni troppo e troppo freddamente perchè tu possa credere a quello che dici. No, non è vero; tu non ci credi. Dimmi che non ci credi...
E cercò di riprenderle il braccio; ma questa volta fu lei a respingerlo.
— Lasciami! Ecco come siete voi uomini! Se io fossi stata un’altra donna, un’altra moglie, ti avrei atteso a casa, in agguato come la tigre nel covo, e ti avrei fatto una scena, una di quelle scene dette forti, che piacciono tanto in teatro o nei romanzi. Perchè invece ti parlo tranquillamente e ti ripeto una cosa che tutti dicono, e non ti domando meglio che di riderne assieme, tu... tu cominci con parolacce. «Non ti vergogni? Non ti vergogni? Pettegolezzi... La gran dama!...» Sicuro, sono una gran dama, molto più dama di altre grandi dame!... Soltanto che non mi piacciono le convenzionalità: questo è il guaio...
— Ma dunque vuoi anche che stia zitto? Anche? Non mi tormentare così, Regina! Certo, era meglio che tu mi facessi questa scena a casa! Ora non mi manca altro che la tua gelosia.
Regina si mise a ridere, d’un riso sincero, ma stridente, rauco, che aveva quasi un suono di ferro arrugginito.
— Tu vaneggi, mio caro! Gelosa? Questo poi no, veh!
— E allora perchè hai detto: ci credo?
— Io ho detto questo? Non è vero.
— Ti dico che l’hai detto.
— Io ho detto che credo che la gente ci creda!
— Non mi pare, — egli protestò. — D’altronde la gente è così maligna!
— Questo sì. La gente è maligna. Vede che noi abbiamo rapidamente cambiato posizione, che ci permettiamo di vivere comodamente pur avendo delle rendite modeste, e imbastisce subito un’infamia. La scusa stessa che tu ti sei messo a fare il borsista proprio ora, mentre avresti potuto farlo prima... — Sciocchezze, — interruppe Antonio. — Prima ero solo; non sapevo che farmene del guadagno. D’altronde, però, molti credono che tu sii ricca. Nessuno sa che fu per un caso che io cominciai a giocare...
— Che c’entra tutto questo? La gente non è obbligata di sapere i fatti nostri. Un caso! — ella ripetè, e si fece più cupa, più scura in viso, ricordando il caso, al quale ella aveva puerilmente prestato fede, mentre l’istinto stesso l’aveva avvertita della menzogna; menzogna abile e fragile come l’invenzione di un novelliere.
— Che vuoi? — riprese, tutta riassalita da una ondata affogante di dubbio e di rancore: — la gente è maligna, anche perchè tutti i giorni, tutte le ore, avvengono tanti casi strani! Tu lo sai meglio di me, come è fatto il dietroscena della vita odierna. Vergogne sopra vergogne. Quante volte tu stesso non mi hai additato dei giovani eleganti, dicendomi che si facevano mantenere dalle loro amanti?
Antonio non rispose: ella continuò:
— Dicevo, dunque: la scusa, o meglio l’apparenza stessa che noi non viviamo delle nostre sole rendite certe, che tu giochi, ed hai capitali disponibili appunto per un gioco nel quale, come in tutti i giochi, ora si vince, ora si perde, la scusa che tu sei un... agente, un uomo di fiducia di... quella lì... tutto ciò insomma fa sospettare... Che vuoi? — ella ripetè per la terza volta, — la gente è maligna. Tutti vedono, anzi ci vedono sempre là, in quella casa, osservano tutto, vedono tutto, sospettano di tutto... Anche i tuoi parenti... credi tu che i tuoi parenti stessi non si permettano dei sospetti... delle allusioni? Anche l’altra sera Claretta...
Arrivata a questo punto Regina tacque, quasi spaventata. Sentiva di mentire, dando forma ai fantasmi del suo dubbio; e non voleva mentire. Ella voleva la verità e la cercava con la menzogna? No, bisognava cercare la verità con la verità. Ella lo voleva, ma non lo poteva.
Come durante la passeggiata notturna lungo l’argine, la sera dell’arrivo di Antonio, ella sentiva ora un velo stendersi fra loro due. Essi si vedevano, ma non si potevano toccare, così vicini e così lontani, separati dal velo nero della menzogna.
Perchè continuare quindi quel discorso intessuto di inganno? Parole e parole! Parole comuni, inutili, fredde, volgari. La verità era nel silenzio o almeno nelle parole che le labbra menzognere non sapevano pronunziare.
Per un momento, sentendosi mentire, Regina pensò:
— Se non oso io, dire il mio pensiero, io che non ho alcuna vergogna da nascondere, come lo potrà lui? È inutile insistere; egli non confesserà. Ma potremo capirci lo stesso. Io gli dirò: «Torniamo a vivere come prima, modestamente, rompiamo ogni relazione con quella signora: così la gente non dirà più nulla». Egli capirà: egli tornerà a me, purificato dal mio tacito perdono, dalla mia delicatezza. E tutto sarà finito. Possibile che io non abbia avuto prima questa felice idea?
Ma non aveva finito di formularla e l’idea «felice» le parve una delle sue solite idee romantiche: una fantasia da passeggiata poetica, al tramonto, lungo un viale tracciato attraverso un paesaggio primaverile.
Altra cosa era la vita! Altra cosa la realtà, brutta e nuda, ma almeno sincera, simile a una donna brutta che non cerca d’ingannare nessuno.
Via, via ogni velo, via ogni abito macchiato: bisognava intendersi, squarciare ogni finzione anche se generosa e ideale.
Mentre nella sua mente balenavano rapidamente questi pensieri, Antonio diceva:
— E tu sapevi tutte queste cose e tacevi? perchè? Non riesco a spiegarmelo. Capisco finalmente certe cose; il tuo umore terribile dei giorni scorsi, le allusioni, la tua ostinatezza a non voler venire ad Albano. Ma non riesco a spiegarmi il perchè del tuo silenzio. Ah, come è brutto tutto ciò! Come è brutto, come è brutto! — egli ripetè. — Certo, la gente è maligna, e anche d’una malignità che sarebbe mostruosa se non fosse ridicola. Del resto non bisogna poi farci tanto caso: hai ragione tu. In una città come Roma, poi, dove tutto pare possibile... e nessuno crede a quanto si dice...
— Bisogna invece farne caso, appunto perchè in una città come Roma tutto sembra possibile, — disse allora Regina. — Per me... poco m’importa, ma figurati che la calunnia arrivi alle orecchie di mia madre, lassù, in quell’angolo di provincia ove le cose più piccole sembrano enormi. Mia madre ha sofferto molto; ma nessuno dei suoi dolori potrebbe paragonarsi a questo.
— E tu credi che mia madre non soffrirebbe egualmente se potesse credere... — proruppe Antonio, quasi offeso.
— Lo credo benissimo; ma a tua madre devi pensare tu, non io! Io penso alla mia. Vedi però che anche a Roma bisogna badare alle chiacchiere della gente. Se fossimo noi due soli, in faccia al mondo, a questa bestia graffiante, io me ne riderei. Ma non siamo soli, mio caro. Pensa che Caterina diventerà grande. E se saprà...
Egli allora ebbe un grido quasi selvaggio:
— Se saprà!... Ma che colpa ne ho io?
E Regina sentì ancora una volta l’impressione d’una sassata ricevuta in piena fronte. Sì, se colpa c’era risaliva a lei. Era lei la madre dell’errore che li avvolgeva. Il grido di Antonio era di accusa, non di difesa.
Ma ella si ribellò.
— È vero, — disse, — la colpa non è tutta tua; ma neppure tutta mia.
— E chi ti dice che la colpa è tua?
— Me lo sono detto io mille volte. Non c’è rimprovero che io non mi sia fatto, sai! Quante volte non ho detto a me stessa: «Se io non commettevo la leggerezza che ho commesso, Antonio non si sarebbe sforzato di mutare la nostra posizione: non si sarebbe reso servo di quella donna, non...»
— Tu... te lo sei detto mille volte? — interruppe egli, colpito sopratutto dalle prime parole di Regina. — Vuol dire che da molto tempo pensi a questa cosa? E perchè non me ne hai parlato prima? Perchè, perchè? È questo che voglio sapere!
— Non adirarti ancora, fammi il piacere! — pregò Regina, infastidita. — Perchè non te l’ho detto? Perchè non ci credevo!
— E vuol dire che ora ci credi. Ed hai atteso a dirmelo ora, oggi, in questo momento?
— Ho aspettato l’occasione...
— Oh, per questo, poi! Non te ne sono mancate di occasioni... peggiori di questa!
— Ti ripeto, non mi piacciono le romanticherie; nella storia della mia vita non ci saranno mai scene forti. Non sono un personaggio da romanzo, io! Un’altra te le avrebbe fatte queste scene, ti avrebbe scongiurato sentimentalmente a giurare la verità sul capo della nostra, bambina.. Io non so farle queste cose! Una sola volta ho commesso una sciocchezza drammatica: basta una!
— Tutto questo che c’entra? — egli disse, a sua volta infastidito. — Potevi parlare come parli ora, ma parlare. Ripetimi poi ciò che dicevi poco fa. Dicevi che ti sei rimproverata mille volte di essere la causa di questa... calunnia. Che cosa volevi dire?
— Se non ascolti! Io mi sono rimproverata di aver involontariamente fatto nascere questa calunnia sul conto tuo, costringendoti a diventare il servitore assiduo di quella donna. Era naturale che la gente, poi, sospettasse. Si sospetta di uomini più ricchi e meno belli di te! Per far posto a te, madame ha congedato gli altri, il cav. R., il signor S. Era naturale che costoro parlassero male di te. Forse furono loro a calunniarti. Però, — ella continuò, ritornando alla sua prima idea, — ricordati, Antonio: io era pentita del mio capriccio. Ricordati bene; io ritiravo tutte le mie sciocche pretese, e ritornavo a te perchè avevo finalmente compreso che per esser felice mi bastava solo il tuo affetto...
— Sì, lo dicevi, ma io non potevo crederti. Lo dicevi così, per pietà di me. Ed io non volevo la tua pietà. Regina, — egli riprese, dopo aver respirato forte, quasi per vincere un impeto di pianto, — ora te la faccio io la parte sentimentale, dicendoti che tu mi avevi troppo umiliato... perchè io... non cercassi di contentarti. Che vuoi, dirò come te, anch’io son diverso della maggior parte degli uomini. Più buono o più cattivo? Chissà! Non sarò un uomo superiore, come tu sei una donna superiore (la sua voce vibrava di sarcasmo e di dolore), sarò un uomo inferiore, anzi, un borghesuccio — quante volte me lo hai rinfacciato! — ma appunto per ciò... cosa volevo dire?
Regina, invasa anch’essa da uno strano sentimento di dolore e di beffe, si volse a guardarlo, pronta a rispondergli acremente; ma lo vide così grigio e triste in viso che non osò parlare.
Che dire, d’altronde? Perchè continuare ad aggirarsi così, vanamente, intorno all’edifizio del loro errore, senza osare di penetrarvi?
Antonio riprese:
— Sì, tu mi avevi troppo umiliato. Bisogna che te lo dica una buona volta: dopo letta la tua lettera io avrei commesso un delitto pur di liberarmi dal peso umiliante dei tuoi rimproveri. Mi pareva d’impazzire: era una condanna degradante quella che tu mi infliggevi. E volevo riaverti, tanto per amor proprio quanto per passione: riaverti, non con la forza, non con la dolcezza, ma col denaro: questa fu la mia ossessione. Denaro, denaro, a tutti i costi. Così andai e giocai... e accettai la parte, che pur mi sembrava poco degna, offertami da madame. Questa fu la mia colpa, perchè, dopo tutto, lo riconoscono, il cav. R. faceva solo quanto... anch’io feci, dopo...
Regina ascoltava e taceva, ma scuoteva lievemente la testa. Egli mentiva; mentiva sempre. Si accusava di altri piccoli errori per farsi credere innocente della vera sua colpa... Menzogne, sempre menzogne. Eppure...
— Pensavo che ti saresti forse pentita e saresti ritornata a me: ma oramai ti conoscevo. Il tuo contegno e la tua lettera mi avevano rivelato il tuo carattere. Tu saresti tornata, sì, ma per vivere, forse rassegnata, forse no, certo sempre infelice accanto a me. Ed io avrei dato il mio sangue perchè ciò non accadesse. Ti volevo felice; e sentivo di amarti appunto per le tue pretese, che rivelavano in te la creatura fina, lontana da me per razza e per educazione. Chi può spiegare, diresti tu, i torbidi arcani del nostro cuore? Così, in pochi giorni diventai un altro: ho osato e sono riuscito a migliorare la mia posizione. Ed ora tu mi rinfacci quello che io ho fatto per te, solo per te!
Regina non rispose: anch’egli tacque, forse credendola convinta. Camminarono un po’ in silenzio. Un signore biondo, vestito come un pastore protestante, li aveva raggiunti e camminava vicino a loro. Passavano molti carretti carichi di fiaschi, diretti all’Acqua Acetosa.
Regina pensava:
— Egli non voleva la mia pietà! Egli impazziva di umiliazione! Benissimo. E forse pensava che io sarei ritornata per tormentarlo soltanto e che l’avrei abbandonato ancora!... Dunque è vero! Dunque è vero! Ed io mi ostino ancora a non credere, mentre egli non sa neppure più mentire. Eppure ha mentito per due anni, ogni giorno, ogni ora, ogni momento. Come, come ha fatto?
— E io non ho un tempo covato per giorni e mesi il mio progetto di fuga? Non era un tradimento anche quello? Ed ora non mentiamo entrambi? perchè tante parole inutili, tanti sottintesi, se non per ingannarci a vicenda? Che pensa egli in questo momento? Che posso io sapere della sua anima, ed egli della mia? Ci siamo sempre fraintesi, e più che mai, forse, ora. No, noi non ci conosciamo; siamo a noi sconosciuti più che non lo sia a noi quel signore lì. Da tanto tempo dormiamo assieme, dividiamo il pane ed il letto, abbiamo una figlia, parte di noi stessi, eppure non ci conosciamo ancora! Siamo tutto al più due nemici: ci offendiamo, ci nascondiamo a vicenda per ferirci meglio...
— Ritorneremo per Ponte Molle, o faremo come l’altra volta? — domandò Antonio.
— Ci sarà forse qualche carrozza laggiù, — rispose Regina.
— Ritornare! — pensò, con disperazione.
— Riprendere la solita vita d’inganno e di vergogna. No, non voglio. Bisogna finirla.
E sentì finalmente il coraggio di finirla presto, quel giorno stesso.
La sua decisione quasi la rasserenò: le parve di sollevare il viso, di aprire gli occhi e di vedere ancora intorno a sè le bellezze della natura purificatrice.
Il viale si spalancava. Mai ella aveva veduto la campagna romana così bella, così inverosimilmente splendida e colorata. Pareva un quadro dei pittori luministi, un paesaggio di velluto verde, con macchie di pini, con un orizzonte abbagliante, rosso e giallo: una esagerazione di luce, nella cui intensità le figure degli acetosari seminudi, dei soldati a cavallo, dei mendicanti fermi allo svolto del viale, spiccavano come statue di bronzo.
Regina era decisa. Ma allo svolto della via le bastò notare il moto d’ira con cui Antonio gettò una monetina nel cappello d’un mendicante, per credere suo marito ancora offeso e sperare ancora nella sua innocenza.
*
Presero la scorciatoia. Su e giù, su e giù, per un sentierolino bruno, odoroso, fra l’erba tiepida e la terra smossa. Il pastore protestante, che forse ignorava la via, li seguì.
Il sole calava, quasi argenteo sull’orizzonte d’oro: le ombre dei pini s’allungavano sull’erba rosea: ad oriente il cielo prendeva dei toni opachi, d’un viola cinereo da pastello.
Ecco, un momento parve a Regina di trovarsi in montagna: non si scorgeva che il sentiero saliente fra l’erba, fino alla breve cima tutta verde nel vuoto luminoso. Su, su: il libero soffio della primavera ridonava il colore naturale al viso sbiadito di Antonio. La primavera non vuol vedere la gente brutta. Il volto del giovine pastore biondo pareva poi una rosa peonia appena sbocciata.
Ma ecco la breve cima, e dalla breve cima ecco la visione azzurra delle vere montagne.
Quel giorno il quadro dell’Acqua Acetosa aveva un carattere quasi biblico: uomini dormenti sull’erba, all’ombra dei carretti sui quali i fiaschi scintillavano al sole; donne, fanciulli, molti cani, un asinello nero, così immobile da parer dipinto sullo sfondo verdognolo del Tevere; una fila di pecore terree che scendevano ad abbeverarsi nel fiume; barche oscillanti fra i cespugli delle rive. Un vento lieve spandeva l’odore dei sambuchi fioriti.
Mentre Antonio e Regina scendevano i gradini scavati sul ciglione, arrivò una carrozza carica di cinque signore straniere adorne dei soliti cappellini inverosimili composti da una spiga, un papavero e un batuffolo di velo; l’ultima che scese di carrozza si mise a questionare col vetturino.
— Da per tutto queste orribili straniere! — disse Regina nervosamente; e lasciò che Antonio scendesse solo alla fonte.
Ella andò sulla riva, in alto, al di là del casotto daziario. La guardia passeggiava davanti all’osteria; il punto ove Regina s’inoltrò restava completamente deserto: i rumori vi arrivavano flebili, vinti dal grido delle allodole e da un mormorio d’acqua gorgogliante in fondo ad un crepaccio. Sulla siepe qualche foglia si agitava con un fruscio di seta, e i fiori dei sambuchi, rosei di sole, reclinavano i loro merletti già un po’ sciupati ma ancora odorosi, quasi ascoltando il gorgoglio dell’acqua. Al di là del crepaccio un popolo di fiori grigiastri copriva la china: sotto, il Tevere passava, calmo, imperiale.
Il riflesso del sole al tramonto attraversava un angolo del fiume; pareva un enorme serpente di fuoco guizzante fra l’acqua. Scintille d’oro si accendevano, si spegnevano e si riaccendevano, rapide, ostinate, per un gran tratto del fiume, dando l’illusione di una lotta fantastica fra l’acqua e il riflesso del sole. In lontananza, dove il cielo impallidiva, l’acqua aveva già vinto, e già stendeva la tristezza solenne della sua calma cinerea.
Naturalmente Regina pensò al suo fiume lontano: sedette sulle erbe aspre del ciglione ed aspettò.
Le pareva di essere forte e calma: anche dentro di lei il vano fuoco delle passioni si era spento. Un antico pensiero le ritornava in mente:
— Tutte le ore arrivano: anche questa è giunta ed altre ed altre ne arriveranno... fino all’ora della morte. Perchè tormentarci tanto? La nostra, vita, d’ora in avanti, sarà come un vestito lavato, sì, come questo, — aggiunse, raccogliendosi attorno ai piedi il lembo del vestito bianco smacchiato. — Ebbene? vuol dire che la porteremo più sdegnosamente, ma anche più comodamente, senza tanti riguardi...
— Così! — disse a voce alta rigettando i lembi del vestito sull’erba coperta di sabbia.
Guardò se Antonio veniva. Da qualche momento egli confabulava coi cinque famosi cappellini, vicino ad una barca ferma sulla riva. Accorse il barcaiolo, parlamentò con Antonio, e poco dopo la barca, carica dei cinque cappellini, prese il largo verso Ponte Molle.
Allora Antonio cercò con gli occhi sua moglie e le venne appresso col suo agile passo silenzioso.
— Le ho imbarcate anche per approfittare della loro carrozza, — disse, buttandosi anche egli a sedere sull’erba. — Spero non ti sarai fatta gelosa, Regina! Ora che hai cominciato!
La sua voce era allegra, troppo allegra.
— Spero, al contrario, di aver terminato, — ella rispose freddamente. — Se vuoi, però, parliamone ancora e... concludiamo!
— Lo so, purtroppo, bisognerà riparlarne. Ebbene, riparliamone pure, — egli disse battendosi una fronda di sambuco sulla punta delle scarpe. — Anzitutto ora mi dirai quali sono le allusioni di mia cugina, dei miei parenti... di tutti, insomma. Per regolarmi...
Regina guardava il movimento nervoso della mano di Antonio: gli occhi di lei erano ridiventati dolci, vellutati, quasi infantili, ma di una dolcezza di occhi infantili melanconici.
— Senti, mio caro, — ella cominciò; ed anche la sua voce era dolce ma triste, — non facciamo pettegolezzi. Se la cosa non è vera che ti importa? Se è vera...
— Se fosse vera?... — egli interruppe, sollevando la testa. E la sua mano continuò ad agitarsi.
Regina tacque: non sollevò gli occhi.
— Che faresti tu? Scapperesti ancora?
Ella alzò le spalle.
— Se è vera!... Tu dunque supponi ancora! Ah, è questo che io non posso sopportare, Regina! Vuol dire che tu non mi credi! Vuol dire che per te le parole maligne di qualsiasi estraneo hanno più valore delle mie!
— Sì, sì, capisco, è così! — egli proseguì, disperandosi nuovamente. — Ora che il dubbio s’è inoltrato in te, ora... ora non mi credi più! Ma io spero di guarirti, vedi, spero! Comincia col dirmi tutto. Devi dirmelo, devi, capisci! Si tratta anche del tuo onore, del resto, dell’onore di tutti. Dimmi, dimmi...
Ella fece cenno di no, di no, di no.
A che serviva?
— Dimmi tutto! — egli comandò, allora. — Anche la mia pazienza ha un termine.
— Non alzare la voce, Antonio! C’è la guardia, là. Non essere piccolo!
— E finiscila anche tu con le piccolezze! Io sono piccolo, sì, sono piccolo; e appunto perciò voglio sapere... Vedi, mi fai arrabbiare! Dimmi dunque, te lo impongo.
Allora Regina si volse, lo fissò: i suoi occhi grandi e melanconici, sfavillavano al riflesso del tramonto.
Mai Antonio li aveva veduti più belli, più dolci, più profondi: in quel momento fu colto da una specie di fascino, e il suo sguardo non potè più abbandonare quegli occhi luminosi e tristi come il sole al tramonto. Regina diceva:
— E quando ti avrò raccontato tutte le cose che tu desideri sapere, che farai tu? Che ne sai tu, che ne so io se le cose da me udite sieno o no semplici allusioni, sospetti maligni? Che il dubbio, invece, non sia nato da un mio istinto?
— Ma se tu dicevi poco fa che non credevi... Io non ti capisco...
— Ed io, forse, capisco te? Ci comprendiamo noi? Pensaci bene, Antonio, pensaci. Ci comprendiamo noi? Ci siamo mai compresi? Che ne so io che tu non mentisca? Che ne sai tu che non mentisca io? Vedi, — ella proseguì, stendendo la mano verso il Tevere, — ci sembra di essere vicini, ed invece, siamo lontani come le rive di questo fiume che si guardano sempre e non si toccheranno mai!
— Fammi il piacere, finiscila! — egli disse, amaro, ma umile e supplichevole. — Sii buona, cara, non tormentarmi! Non dire queste orribili cose. Può darsi benissimo che io non arrivi a capirti, ma tu, sì, tu devi capirmi. Ragioniamo, vediamo assieme quello che bisogna fare. Io... io farò tutto quello che tu vorrai... Non l’ho sempre fatto? Non sono buono, io? Dillo tu, non sono buono? Dimmi che cosa devo fare, ma non dubitare di me. Non ci mancherebbe altro! Se perdiamo la nostra pace, il nostro accordo, che ci rimarrà?
Egli parlava piano, umile, quasi dolce, ma con quella dolcezza che si usa verso i bimbi malati e perciò riottosi. Prese la mano di Regina e la pose sul suo ginocchio, e sopra appoggiò la sua mano.
Regina sentì pulsare e vibrare quella mano, la cui carezza oramai non si comunicava più al suo sangue.
Sì, era vero. Egli aveva fatto sempre la sua volontà: egli era un debole, e questo era il suo errore e la sua difesa. Sì, egli era buono, ma troppo buono. Non solo lo spirito, ma anche il corpo le aveva dato: questa misera carne mortale egli l’aveva venduta per lei. Tutto le aveva dato, e tutto le darebbe ancora. Fra un momento, se ella glielo chiedeva, egli confesserebbe la sua vergogna. Come aveva potuto ella dubitarne?
Allora Regina gli disse tutta la verità.
— Senti, un giorno andai da Gabrie, che credevo malata...
*
Gli disse tutto, con parole brevi e calme. Parlava piano, guardandosi attentamente il merletto del vestito, e le dita attraverso il merletto. Pareva lei la colpevole, ma una colpevole dignitosa, pronta al castigo. Parlò del suo dubbio, com’era cresciuto e divampato; ripetè i rimproveri che s’era rivolta, le visioni, il delirio maligno, i sospetti, il sogno, il presentimento, il proposito del perdono.
*
Intanto il sole tramontava.
Il fiume si divideva ora in due zone, una d’argento violaceo sotto il cielo pallido dell’oriente, l’altra cremisi sotto l’ovest acceso.
Ma nel cielo e nell’acqua pareva finita ogni lotta fra le luci e i colori; tutto si univa e si fondeva in una suprema armonia di pace; l’ombra cercava ancora la luce; e questa si ritirava lentamente verso una misteriosa lontananza, al di là, oltre l’orizzonte, dove non arriva lo sguardo umano.
Il popolo di fiori grigiastri s’era addormentato, immobile sulla china; la siepe taceva; tutte le cose intorno, nel silenzio della riva, si assopivano, cullate dalla cantilena infantile dell’acqua in fondo al burroncello.
E in tutto questo silenzio armonioso, Regina, mentre finiva il suo racconto, sentiva l’indifferenza solenne della natura per l’uomo ed i suoi casi meschini.
— Noi siamo soli, — concluse, suggestionata da questa impressione di solitudine e di abbandono. — Soli nel mondo del nostro errore, se veramente l’errore c’è. Compatiamoci a vicenda, e rinnoviamo la nostra esistenza. Se ci combattiamo noi, chi può aiutarci? I nostri parenti, i nostri amici, possono anche morire per noi, senza che la loro morte rechi un istante di sollievo alla nostra pena. Una volta ho letto una novella, d’un marito che voleva uccidere la moglie. Mentre stava per ferirla, ella smarrita gli si gettò addosso, cercando instintivamente protezione in lui, nell’assassino, tanto era abituata a considerarlo il suo difensore. Quante volte anch’io, in questi giorni di dubbio, mentre ti spiavo, vergognandomi, mentre combattevo l’idea di rivolgermi ad estranei, per sapere... sapere... quante volte ho sentito l’impeto di rivolgermi a te, per pregarti di parlare, di salvarmi, di proteggermi... Vedi, la natura essa è indifferente per noi; vedi, in questo momento, mentre forse si decide la nostra vita, ogni atomo, ogni luce, ogni onda corre verso il proprio destino senza commuoversi dei casi nostri. Noi siamo soli, soli e sperduti... Se ci dividiamo dove andiamo? Eppoi, se abbiamo errato, non abbiamo appunto errato per non dividerci? Se ci lasciamo, passiamo cadere in errori più gravi. Vicini ci sosterremo a vicenda: se non potremo fare altro prepareremo l’avvenire della nostra bambina...
— Veramente, — disse Antonio, con uno sforzo estremo di difesa, — tu una volta volevi...
Regina allora ebbe un’ultima impazienza. Ella parlava come avrebbe dovuto parlare lui, ed egli resisteva ancora! Che voleva dunque?
— È inutile ricominciare! — esclamò; — ora basta. Mi pare che ragiono troppo perchè tu capisca che fra me e te non è più ora di rimproveri...
— Tu ragioni troppo, Regina! È questo che mi spaventa...
Egli abbassò gli occhi, guardò la sua mano, la sollevò e la lasciò ricadere d’un colpo, inerte, sopra quella di Regina che aveva tenuto sempre sul suo ginocchio.
— Perchè ragiono troppo? E perchè ti spaventi?
— Perchè se davvero tu avessi creduto alla mia colpa non avresti parlato così come parli. Tu parli così perchè non credi... ancora! Se fra me e te esistesse davvero un... dramma, la fine che tu vuoi dargli non sarebbe logica.
Ella si sentì battere il cuore. Egli aveva ragione. Ma si fece forza, vinse sè stessa.
— Guardami! — gli impose.
Antonio la guardò. Egli aveva gli occhi velati di lagrime.
*
Dunque era vero: egli era colpevole.
Regina non aveva mai visto piangere suo marito, nè si era mai immaginata ch’egli potesse piangere. In quel momento, dopo la tacita confessione di Antonio, mentre tutto si oscurava entro di lei, non per un rapido eclisse, ma per un crepuscolo eterno, — ebbe un ricordo confuso, lontano, tanto lontano che da anni non le era più riapparso alla memoria. Rivedeva dunque un uomo, seduto davanti ad un camino acceso: quest’uomo teneva i gomiti sui ginocchi, il viso fra le mani, e piangeva, mentre una donna si curvava su lui, posandogli una mano sulla testa calva. L’uomo era il padre dissipatore, la donna era la madre paziente di Regina. Era il ricordo di un sogno, o la realtà dell’infanzia ignara, lontana, dimenticata? Ella non sapeva; ma in quel momento nell’ombra del suo spirito parve rosseggiare una luce, quasi il riflesso del camino acceso nello sfondo di quel lontano quadro di errore e di pietà umana.
Ella non pensò di mettere la sua mano sul capo del marito, come la madre la posava sul capo del padre, forse più colpevole di Antonio; ma pensò alla serenità, alla bellezza della vita di quella donna che compiva il suo ciclo come lo devono compiere tutte le donne giuste, fra l’amore dei figli e per amore dei figli. Mai la vedova aveva fatto pesare sui figliuoli i suoi ricordi penosi: se i figli soffrivano, come per legge universale soffrono tutti i nati di donna, il ricordo di lei non aumentava ma leniva il loro dolore.
— Anch’io devo compiere il mio ciclo, — pensò Regina. — Nostra figlia deve ignorare che noi abbiamo sofferto ed errato.
Perdonare, dunque, perdonare più che mai. Passare taciti, simili all’acqua d’un fiume, verso la luce di un orizzonte oltre il terreno, verso il mare della carità infinita, dove il più grande degli errori umani non è che il ricordo d’una scintilla spenta.
*
Al ritorno, nella carrozza lasciata dai cinque cappellini, Antonio e Regina si presero la mano, come due sposi rivedutisi dopo una lunga separazione. Un crepuscolo molle e lucido incombeva sopra di loro e dentro di loro, ma essi, non molto tristi ma neppure lieti, rassegnati alla nostalgia di una luce perduta per sempre, si stringevano la mano promettendosi tacitamente di aiutarsi a vicenda come due ciechi. Rientrarono così nel cerchio della città e del passato.
Pareva a Regina che lungo tempo, tutto un periodo di vita, fosse trascorso, dopo ch’ella e suo marito s’erano fermati accanto all’osteria del viottolo. Ma nel ripassarvi davanti, mentre il cocchiere si fermava per accendere i fanali della carrozza, ella vide ancora seduta vicino all’uscio interno la ragazza dalla camicetta rosa. E la coppia dei ballerini passava e ripassava ancora, nera e leggera sullo sfondo lilla dell’invetriata.
fine.