Novelle e racconti (Carrer)/Una professione nel convento di ***

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Una professione nel convento di ***
Novelle e racconti (Carrer) Tre incontri e un matrimonio


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UNA PROFESSIONE NEL CONVENTO DI ***

Dacchè mi fu raccontata la storia che intendo narrarvi, non potei a meno di portarmi a visitare la chiesa e il convento di ***. Non è certamente chi ignori come i fatti che sonosi uditi raccontare, o che abbiansi letti, ci affezionino ai luoghi nei quali è probabile che siano que’ fatti accaduti. La fantasia circonda di luce ed allarga ogni stanza più cupa ed angusta; acquistano importanza, e per poco non dico favella, i ruderi più meschini, un mucchio di sassi, il tronco d’un albero, l’alveo d’un torrentello. Quanto le tradizioni sono più vaghe, tanto più cresce il nostro interessamento; l’oscurità ingigantisce gli oggetti; e quanto è minore la precisione onde sono tirate le linee, tanto è maggiore la libertà conceduta alla nostra immaginazione quando voglia far compiuto il disegno. Pensate adunque se io poteva far a meno di visitare la chiesa e il convento di *** dopo quello che mi fu raccontato essere ivi accaduto da forse ottanta anni! Non mi sono però contentato di tanto. Dopo aver esaminato con [p. 246 modifica]attenta curiosità tutto il sito, interrogai ne’ dintorni quelle persone dalle quali io poteva presumibilmente raccogliere qualche notizia, e con queste cure mi venne fatto di appurare il racconto da molte innocenti bugie, che il poco diligente, o poco ricordevole narratore vi aveva inserite, e riempiere molte lagune inducenti in molti sospetti. Fatto questo, credereste voi forse che mi avessi procacciato materia a più credibile, o almeno più intera narrazione? Mi accadde il contrario. Saputi con ogni possibile esattezza i nomi e le relazioni de’ personaggi ricordati in questa novella, mi accorsi esser atto poco cortese, per non dire anche poco onesto, il riporre nella memoria degli uomini nomi di genti e di cose che n’erano in gran parte caduti; e ciò che avrei francamente narrato come semplice novellatore, mi punse coscienza di riferire in persona di storico.

Contentatevi adunque dei nomi supposti che io fo indossare ai miei personaggi, e ben anche dell’indeterminazione onde accenno le località. Davvero, che mi duole grandissimamente di non poter senza giri di parole, e senza preamboli, raccontar netto netto il dove e il quando d’ogni cosa, e dirvi per esempio: nella città tale, il tal anno, ci avea il signor tale; e via così discorrendo. Uscirei così alla bella prima dall’imbarazzo delle descrizioni, che mi conviene pur farvi in qualche guisa, per mettervi alcun che nella fantasia, ed invogliarvi ad ascoltarne il [p. 247 modifica]racconto. Bensì vi prometto di tenermi entro i limiti d’ogni possibile brevità per cui lascio stare l’esordio, e vengo senza più alla novella.

Fu mandata dal padre suo nel convento di *** una giovinetta di forse diecinove anni, perchè compiuto il noviziato vestisse l’abito monacale e pronunziasse i suoi voti. Chiameremo quel padre col nome di Leonardo (avesse o no questo nome, lo chiameremo con questo), e la fanciulla sarà da noi detta Felicita. Ora Felicita non era gran fatto inclinata a farsi monaca; fra le altre ragioni perchè aveva veduto un giovane di ventitrè in ventiquattro anni che gli era paruto assai bello, ed uditolo alcuna volta favellare gli era paruto che favellasse assai bene. Essa nobile e ricca, nobile e ricco al pari di lei era quel giovane, e l’averlo sposo sembravale miglior cosa, e più rispondente a’ suoi desiderii, del vestir l’abito monacale. Ma il padre, come s’è detto, amava che fosse monaca, ed era venuto in questa determinazione appunto per quel motivo, che doveva meno di ogni altro a ciò consigliarlo, ed era perchè quel giovane piaceva a sua figlia. Dovete sapere, che, bello e assennato ch’era paruto quel giovane a Felicita, bello e assennato egli era veramente. Nobile, ricco ch’egli fosse ve l’ho già detto. Perchè dunque discordava Leonardo da queste nozze? Leonardo aveva un’antica animosità colla famiglia del giovane: battezziamolo una volta ancor esso! e d’ora innanzi si chiami Saverio. [p. 248 modifica]Leonardo adunque nudriva quest’animosità colla famiglia di Saverio, e avrebbe piuttosto voluto la morte, che sofferire un genero di quel sangue. Lagrimevole stravaganza! ma il buon uomo (buon uomo per amor della frase) non sapeva nè pensare, nè sentire altrimenti.

Direte adesso: E la Felicita, che pure sarà stata figlia amorosa e di tempera piuttosto soave, se deve far le parti di protagonista, o poco meno, nella novella, non poteva acconciarsi alla volontà del padre, e scegliersi qualche altro bello ed assennato giovane, di cui non avrà assolutamente mancato il paese? Primieramente io non ho detto, nè intendo di dire che Felicita debba essere nè protagonista, nè altro della novella; e poi ad essere protagonista di una novella non ci veggo ragione ch’ella avesse a sposare chi non le andava ai versi, e quanto all’esser figlia amorosa e di tempera piuttosto soave, può ben essa meritarsi questo panegirico alla buon’ora, senza professare contro coscienza in un monastero. Vi ascolto anche soggiungere: E quel signor Leonardo non si è contentato d’impedirle che sposasse Saverio, che volle anche allogarla in un convento? Signori miei, io desidero mi diciate quando gli uomini abbiano avuto misura nelle loro passioni; e credo che l’astiosità e l’ostinazione non siano delle più discrete. In somma permettetemi di raccontarvi la cosa com’è avvenuta, e non altrimenti; le ragioni di certe stravaganze, se non [p. 249 modifica]sapete trovarle nel vostro cuore, e me ne rallegro con voi, cercatele negli altri, e nella innumerabile varietà dei caratteri possibili a manifestarsi in questo o in quest’altro individuo. Leonardo voleva Felicita monaca, e Felicita voleva Saverio a marito.

Felicita aveva pregato e ripregato Leonardo, e Leonardo sempre saldo come un macigno. E perchè mai con questa avversione allo stato monastico si è lasciata condurre al convento, ed è giunto non più che una settimana discosto il giorno della professione, che già l’abadessa si crede ch’ella pronunzierà i voti; e presso che tutti gli apprestamenti per la festa del vestimento si sono fatti? A questo io posso rispondere: Felicita era d’animo dolce, affettuoso e pio veramente. Aveva voluto lottare colla sua passione per quanta forza le poterono dare il rispetto e l’amore dovuti al padre, la diffidenza di sè in affare di tanta importanza quale si è lo scegliere fra tutti quell’uomo con cui aver a condurre inseparabilmente la vita. Aveva, dico, voluto lottare, aveva lottato per quanto le convenne rimanere novizia. E le monache, che vedevano soltanto l’esteriore rassegnazione e nulla sapevano della interna battaglia, avevano preso concetto di Felicita come di santa, o poco meno. E certamente, se il patire è da santi, Felicita non era immeritevole affatto di quel loro sì buono concetto. Povera Felicita! Passava tutte le notti vegliando, ed incessantemente domandava [p. 250 modifica]la grazia della vocazione, la quale viene concessa, ma non può essere guadagnata. Si assoggettava ad ogni guisa di mortificazione, ma inutilmente. Un solo pensiero veniva a confondersi in tutte le sue meditazioni, tutte le sue preghiere riuscivano in una sola parola. Parola terribile e cara! La vedeva su tutti i muri del convento, su tutti i fiori dell’orto; la leggeva su tutte le pagine del breviario; sempre quella parola! Suonasse l’avemmaria della mattina, o quella della sera, il rimbombo della campana non portava al suo cuore che quella parola. Avrebbe voluto chiuder l’orecchio agli accordi dell’organo per non sentirla eccheggiare potentemente per tutta l’anima. Voi già indovinate qual fosse questa parola. E intanto le si era allungato il volto miseramente, e tolti alcuni momenti di una improvvisa e passaggera accensione, il colore abituale della sua faccia era la pallidezza, la pallidezza di chi è malato; quando innanzi che avesse fatto sua stanza quel chiostro erano poche fanciulle che potessero mostrare una tinta di sanità più gioconda della Felicita. Gli occhi rientrati scintillavano ancora di tutta la loro vivezza; anzi, a giudicare della sola vivezza, erano più scintillanti che per lo innanzi, ma immobili lungamente, e giravano molto lenti. E ad ogni lieve rumore balzava come tramortita, e guardava attonita e sospettosa. Alle domande che se le facevano rispondeva interrottamente e con voce ineguale. Non piangeva, per verità, o almeno non era [p. 251 modifica]veduta piangere; all’incontro talvolta sorrideva, e la mestizia di quel suo sorridere era inesprimibile. Era un intenso dolore a cui le lagrime non bastavano. Povera Felicita! Di già non mancavano che pochi giorni alla festa del suo vestimento, e le toccava vedere le sue sorelle che affaccendate correvano su e giù pel convento ad allestire ogni cosa per quelle che chiamavano le sue nozze, e passando le sorridevano, o venivano a visitarla nella sua cella, e ad offrirle alcuno di que’ doni che s’usano fra genti claustrali. Ed ella abbassare la testa, e stringere a tutte la mano senza che alcuna sapesse accorgersi del calore febbrile che facevale battere i polsi assai inegualmente.

Vi darebbe l’animo di accompagnare l’infelice per tutti i passi del suo dolore? La vorreste vedere immobile riguardando la terra quasi desiderasse rimanerne ingoiata, o il cielo a ricercarvi quella consolazione che le veniva negata dagli uomini? Fermavasi attonita a contemplare anche l’acque; perchè dovete sapere che quel monastero era situato appunto da presso il mare. E un orto bellissimo distendevasi declinando insensibilmente fino a far sponda con alte siepaie ai marosi, che trascorrendo venivano alcuna volta a sturbare l’opera del giardiniere. Oh i tetri pensieri che le furono suggeriti dall’ardente fantasia di diecinove anni contemplando quell’acque! V’ebbe fin anco chi disse averla veduta sull’ultima riva a braccia alte e [p. 252 modifica]allungate far arco della persona mentre gli occhi le scappavano della testa... ma non fu che una volta, e rientrata nella sua cella non mise più piede nell’orto dopo quel giorno. Ella era veramente religiosa Felicita; e la disperazione non potè prenderle addosso tanto campo da escludere affatto la confidenza in Colui che avvalora i deboli e solleva i prostrati.

Venne il prelato a far la visita del convento, e dovette esserle mostrata fra le novizie quella particolarmente cui non mancavano che pochi giorni alla professione. Il prelato era d’animo retto e di pronta intelligenza: serpe e colomba, come si vuole dalle Scritture. Il nome del rispettabile uomo sarà da me taciuto, come tutti gli altri, e la novella il chiamerà Policarpo. Policarpo visitò adunque il convento e vide Felicita. Una fanciulla, dicevagli l’abadessa, nata fatta pel chiostro; una vocazione delle singolari. E il prelato taceva. Suor Giovanna, già m’intendete, gli è questo il nome dell’abadessa, faceva i suoi racconti al prelato di buonissima fede. Per verità Felicita nulla avea fatto trasparire del suo disamore pei voti, ed era delle novizie la più mansueta, la più taciturna, la più sofferente. Mattiniera fra tutte, (non dormiva presso che mai la meschina!) sorgeva ad orare, e avviavasi quindi alle incumbenze della settimana, come si fa ne’ conventi. Appartavasi dalle compagne nell’ora de’ passatempi, e invitata dalla superiora vi prendea tal parte che ben si [p. 253 modifica]vedeva procedere da obbedienza anzichè da elezione. Vi ho già detto che la si aveva in concetto di santa; non voglio ripetere le stesse cose.

Al prelato sembrò di poter conchiudere che il cuore della giovane se ne stesse tuttavia al secolo, e voi tutti sapete, lettori miei cari, se al prelato falliva l’ingegno a conchiudere la verità. La Felicita dal canto suo trovò nel riposato discorrere di Policarpo sufficiente ragione a non credersi affatto perduta, e quando avesse potuto un’altra volta parlargli sentivasi atta a tentare una piena manifestazione de’ suoi pensieri. Ma il tempo stringeva, e il prelato, che si sapesse, non aveva a fare altre visite al monastero. Con quanta ansietà non accompagnò ella la veste pavonaccia strisciante sul pavimento quando Policarpo se ne andava via! Credo anche che le uscisse dal petto una cotal voce inarticolata, che tutte comprendeva le angosce della sua anima, senza dichiararne nessuna; potrei anzi dire che questo fosse avvenuto assolutamente, dacchè il prelato, giunto alla soglia, si volse a guardare donde venisse quel suono come di gemito; ma nessuna parlando, e Felicita meno d’ogni altra, alzò la mano a benedire e partì. Tornò Felicita alla sua cella, e si diede a piangere dirottissimamente; era da più mesi che non piangeva.

In quell’anima ingenua ed appassionata che aveva soffocate le sue pene sotto i rigori della mortificazione (soffocate, ma non estinte come [p. 254 modifica]credeva) un tocco lievissimo fu bastante a risuscitare le morte speranze. Allora la lotta diveniva più grave che per lo innanzi non aveva a combattere più il solo amore, ma la speranza, nemico tanto più terribile quanto arriva più tardi e ci trova spossati dalla lunga difesa. Voglio anche che sappiate di qual tempera si fosse l’amore di Felicita. Ella aveva uno di quei cuori nei quali la gioia non può essere che riverberata; la infondono senza accorgersi in chi li circonda, e devono aspettare che altri ne sia compreso, per gustarne essi pure la dolcezza. Il pensiero di contribuire a far contenta la vita dell’uomo che le era sembrato più degno di condurre una vita contenta; dirò meglio, il pensiero di non poter altri far ciò se non ella sola, era stato questo il germe della passione, che, alimentata da mille fuggevoli dimostrazioni, da mille inavvertite diligenze (fuggevoli e inavvertite per chi non sia innamorato) le si era dilatata nell’anima tanto da tutta comprenderla, tutta colorirla, tutta infiammarla. Pensiero superbo, dirà qualcheduno, legarsi ad un uomo una giovinetta nella presunzione di averne a formare la felicità. Sì, pensiero superbo, quando non abbia preso che sola la testa, ma quando sia un sentimento, quando sia identificato coll’amore, è la sola condizione possibile a prosperare il vincolo coniugale. V’è in esso la più esatta osservanza della naturale destinazione della molle e delicata persona creata ad addolcire l’esilio, e [p. 255 modifica]ad interrompere la solitudine non propria dell’uomo. Se tanto riceve di consolazione quanto ne dà, non c’è più luogo a superbia, ma a gratitudine.

Per non indugiarmi nella discussione di un principio, che o si afferra a prima giunta o si corre rischio di sempre più disconoscerlo quanto più se ne parla, conchiuderò che l’amore di Felicita era del vero; sapeva mantenersi intatto nel conflitto crudele a cui veniva posta, filtrare per tutti gli ostacoli, insignorirsi di tutti gli avvenimenti; amore indomabile, costante, sicuro perchè innocente. E perchè tale, non aveva bisogno di esagerazioni, di trascorrimenti, di termini disperati. Chi sentivasi allettata a formare la felicità del compagno che le veniva conceduto dal Cielo, non poteva persuadersi di giungere a questo nobile fine avversando le intenzioni del padre, s’egli è vero che la felicità non fa prova nel terreno intristito dall’odio. Oltrechè la Felicita era d’animo mansueto, e ho detto più sopra che diffidava di sè in questo affare più assai che in ogni altro, sì per esser desso più di ogni altro importante, sì perchè non dissimulava a se stessa la passione, che, da volere a non volere, intromettevasi in tutti i giudicii della sua mente. Sicchè trovavasi terribilmente perplessa tra l’orrore di uno spergiuro, e l’angoscia di affliggere il padre. Il prelato, ricco di dottrina e di buon cuore, avrebbe solo potuto levarla da quelle angustie. L’autorità religiosa contrappesava il ri[p. 256 modifica]spetto dovuto alla paternità; non vedeva in somma di meglio che parlare a Policarpo. I suoi patimenti, la forza a sè fatta, le molte riflessioni rigettate e riprese nelle lunghe ore in cui non poteva dormire, o in quelle nelle quali non voleva spassarsi in compagnia delle altre sorelle, le avevano dato questo coraggio, e potevasi dire che fosse il coraggio del pudore. Un tale coraggio è incomparabilmente più incrollabile e più efficace di quello che procede dalla spensierata non curanza della dignità propria, e si direbbe procacità con più giusto vocabolo. Certe anime, che non bene misurano la capacità loro, e l’intensità dei doveri che impongono a sè medesime, gettandosi avventatamente nel precipizio, abusano, per lo più fuor di stagione, il coraggio onde avrebbero potuto usare con vantaggio vero e con lode preventivamente. Anche in questo caso è da compiangere la nostra misera debolezza, per cui fabbrichiamo i più gravi de’ nostri infortunii, con quei mezzi stessi che sarebbero stati opportuni all’edificio della nostra felicità. Ma di commenti abbastanza.

Se ci ha tra i lettori di questo racconto chi prendesse parte all’afflizione della giovane professante, ho una buona novella a dargli, ed è che il prelato fece ritorno al convento. Dovesse ritornarvi per altre cagioni, o gli fosse sembrato cagione bastante l’esame delle disposizioni non bene accertate di Felicita per la vita monastica, il prelato da indi a tre giorni fu vedu[p. 257 modifica]to ricomparire nelle stanze dell’abadessa. In quelle stanze l’ingenua Felicita aperse tutto il suo cuore a Policarpo; glielo aperse tutto, e posso dire gliel fece toccare con mano, così buono, così paziente, così amoroso ch’egli era di sua natura, così duramente provato da una lunga e ostinata battaglia di tanti mesi, cuor lacero, trafitto, sanguinoso, veramente da far compassione. E in mezzo a tanta avversità, a tanto contrasto, una fede viva, una rassegnazione non ancora domata, una speranza ineffabile che rimarginava, possiam dire, le ferite appena appena erano aperte.

E queste dichiarazioni non le avete voi fatte al padre vostro? domandava Policarpo a Felicita. E la risposta di Felicita era il singhiozzare angosciato di chi non voleva render odioso suo padre, e non aveva altra guisa a scolparsi dalla taccia apparente di sconsideratezza. Poi, dalle particolarità passando ai generali, era molto commovente, e, per chi avesse potuto udirlo, molto istruttivo, l’affrontarsi delle semplici ed ovvie ragioni di Felicita cogli argomenti severi ed elevati di Policarpo; e vedere come a poco a poco si andavano le une agli altri avvicinando, e come fra loro si confondevano e compenetravano, concorrendo in un consentimento scambievole, cui più non mancava che la uniformità delle parole. Oh ch’egli è certo! la vera semplicità e la sublimità vera, i sentimenti e le ragioni di un cuore retto e sincero, e i consigli e i [p. 258 modifica]precetti del Cielo sono sempre d’accordo. Il dialogo tutto di questa giovane e del prelato può immaginarsi; a me basta averla mostrata a’ suoi piedi, aver accennato che Policarpo non mancò di farle tutte quelle interrogazioni che voleva il suo caso, di tutte raccogliere le notizie ch’erano necessarie a porvi rimedio, e conchiuderò colle parole ond’egli si accomiatò da Felicita dopo un colloquio di ben due ore: Figliuola mia, voi avete parlato nella sincerità del vostro cuore; nulla è quello ch’io possa fare, o che far possano gli uomini tutti per voi, rispetto a ciò che potete attendervi di lassuso. Pregate, pregate; avete bene cominciato, diffidando di voi, rassegnandovi, sofferendo: presso a poco rassegnarsi e soffrire è la vita di tutti; il diffidare la più utile virtù, il pregare il più dolce conforto. E non voglio tuttavia che disperiate; anzi sperate. Il giorno della vostra professione è imminente; non vi atterrite. Su quell’altare, a’ piedi del quale non voleste portar lo spergiuro, vi è Dio. Al fianco vostro vi sarà il suo ministro. Venite sicura; e Dio, oggi e quel giorno, vi benedica.

Partì. Felicita comprese di aver fatto bene a rivelare il suo cuore a Policarpo; il comprese a quell’intima soddisfazione che le serpeggiava per tutte le viscere. Potè ricrearsi della vista dell’orto, cambiar parole colle sorelle, e quella che tiene dietro al colloquio col prelato fu la prima notte ch’ella dormisse. Doveva naturalmente il [p. 259 modifica]discorso di Policarpo suscitarle nell’anima mille pensieri, mille curiosità; ma inesperta com’ella era del mondo, disperata d’ogni umano conforto, si era abbandonata ad una confidenza piena e sicura nel Cielo. Sentiva che le doveva accadere alcun che di bene; fosse vita, fosse morte, non avrebbe saputo ben dirlo, ma doveva essere bene. E aspettava con impazienza il giorno della sua professione per lo innanzi tanto temuto. Credereste? Il pensiero del suo sposo le veniva assai raro nell’animo; o temesse di ritardare i disegni della Provvidenza frapponendovi i proprii, o volesse ricevere quel dono sì caro tutto affatto dal Cielo, senza avervi neppure pensato.

Sarebbe qui luogo a raccontare le informazioni prese, e le pratiche tenute da Policarpo affine di ridurre l’animo ostinato di Leonardo nelle intenzioni della figliuola. Pratiche inutili. Potette bensì conoscere apertamente che il maritaggio da Felicita desiderato non era punto disforme a quanto voleva ragione e convenienza. E quando dico convenienza intendo la somma di quelle leggi, per verità arbitrarie nella più parte, che il bel mondo innesta sulle leggi immutabili e certe della universale giustizia; e queste leggi secondarie, e direm meglio apposte sul corpo delle primitive, s’inviscerano in esso per modo da non poterne essere senza grave iattura smembrate. Ora, come diceva, anche le convenienze sociali cospiravano a rendere desiderabile quel matrimonio. La famiglia di Saverio, che è, [p. 260 modifica]come sapete, lo sposo, non avrebbe fatta la menoma opposizione alle nozze, anzi, ove fosse stato da essa, sarebbero succedute, come s’usa dire comunemente, piuttosto l’oggi che il domani. Il prelato non ignorava neppur questo, avendo voluto, prima di pensar nulla e di nulla intraprendere, venire in cognizione di tutto. L’animosità di Leonardo era dunque l’ostacolo forte al quale bisognava dar batteria, e Policarpo, parmi averlo detto, vi aveva adoperato tutte l’armi della persuasione, e per quanto si concedeva dal suo ministero, quelle ancora delle minacce. E non sapete, disse Policarpo a Leonardo, che a questo modo sagrificate la vostra figliuola? — Maritandosi a Saverio sono certo ch’essa non può esser felice, fu la sola risposta del padre. Spesse volte a sostegno di ciò che ci viene consigliato dalla nostra passione inventiamo argomenti che hanno un’apparente verità, perchè appunto dedotti da ciò che meno colla nostra passione si accorda. Non era certamente il solo pensiero di far felice la sua figliuola che stesse a cuore di Leonardo; però egli non sapeva come meglio giustificare le sue avversioni a quelle nozze che mettendo in campo quella felicità stessa. Il prelato per altro, che mentre ascoltava le risposte del padre ne studiava anche l’animo attentissimamente, si accorse che l’indole di Leonardo era in sostanza alquanto diversa da quello poteva sembrare a prima giunta. Non era di quelle volontà, che dirette ad un fine non sa[p. 261 modifica]prebbero torcersi da esso senza rimanere spezzate, e per conseguenza l’ostinazione di lui, che che potesse sembrare, non era invincibile. Ei conveniva trovar modo a domarla, dacchè il modo ci doveva pur essere. In Leonardo aveva il prelato un animo non maneggiabile punto dalle ragioni, alle quali, anzichè arrendersi, amava far testa e contraddire con quelle, che gli sembravano ragioni non meno forti, del suo cervello. Ma nella composizione di quell’animo, mi sia comportata la singolarità della frase, c’entrava molto ingrediente di stravaganza, e un cotale amore del bizzarro e del nuovo aveva in esso un grande dominio. Vi deve tutto questo bastare a far giudizio della proprietà del mezzo scelto dal prelato per condurre a buon termine la sua impresa: mezzo insolito, per dir vero, ma d’insolitezza che assai bene aggiustavasi al carattere di Leonardo. Fosse il solo possibile ad ottenere l’intento, non è questo ch’io voglio dire; voglio e posso dire bensì che il mezzo adoperato da Policarpo, anche tolto l’effetto, che tiene pur troppo assai volte luogo di ragione per certe menti, era scelto con abbastanza di senno e di rettitudine, perchè se gliene dovesse dar lode.

Il giorno frattanto della professione non era lontano, anzi possiamo dire ch’egli era arrivato, dacchè le campane del monastero suonando a festa annunziavano, che indi a poche ore Felicita avrebbe pronunziato i suoi voti. Stupenda era veramente la tranquillità della giovane. Per tut[p. 262 modifica]ti quei giorni che precedettero la festa era stata veduta pregare ferventemente, ma prendersi anche le ricreazioni solite all’altre giovani del monastero. Volete propriamente sapere come stesse Felicita nel suo interno? La mattina del giorno solenne si destò assai per tempo, e gli occhi suoi appena aperti si scontravano nell’incerto crepuscolo che leggermente tingeva i vetri della finestra della sua cella. Devo dichiarare per amore di verità, che accumulando la giovane nella propria mente tutte le circostanze del grande atto che si apparecchiava per quel giorno, e colorandole colla vivacità di una fantasia tutta forza e calore, rimase colta da una specie di brivido e di sbigottimento non facile ad essere descritto. Aveva ella posto tutto il suo cuore e la fede nel savio e buon prelato; ma se ne rimanesse ingannata? E subito dopo rimproverava a sè medesima quel timore. In questo le parve di dover sorgere, e mostrossi sollecita più dell’usato. Messe che si ebbe dattorno le vesti, quali le venivano dal convento assegnate, la prima in cui s’imbattè nell’uscire della sua cella fu Chiara, che aveva tra l’altre monache prediletta nel tempo del noviziato. Chiara le diede un saluto di molta affezione, e: Bel giorno, le disse, per voi, mia sorella, e per noi tutte, sapete, e per me in particolare. — Che sia bello anche per me voglio sperarlo, rispose Felicita, e quanto a voi, buone sorelle, tutti i giorni della vita vostra son belli. La risposta non era assolutamente delle solite a [p. 263 modifica]darsi dalle professanti in quel giorno, ma Chiara non vi fece attenzione, e condusse Felicita dall’abadessa. Il colloquio, che dovette tenere la nostra giovane, senza palesare le speranze secrete della sua anima, e senza mentire, rispondendo a ciò tutto di che veniva interrogata, non sarebbe forse disaggradevole pei lettori; ma più ancora che a questo colloquio ameranno ch’io gli ammetta, senz’altro, alla professione con cui deve aver termine il nostro racconto.

La chiesa era addobbata con molto elegante semplicità, e con quella minuta diligenza che è propria de’ monasteri. La gente vi era foltissima, e non bastando a tutta contenerla la chiesa, i più tardi ad arrivare, che per strana contraddizione sono per lo più i più curiosi, e quelli che ne vogliono saper più degli altri, si rimanevano a far cerchietti e a ciarlare nella piazzuola al di fuori. Giunto il prelato, la cerimonia doveva cominciare, e Felicita tremava tutta; e non è da domandare se avesse voluto si differisse d’un poco almeno quell’ora che, come si è detto, aveva i giorni innanzi tanto affrettato col desiderio. Al mostrarsi della giovane professante, circondata dalle monache, dal chiarore dei cerei, dal fumo degl’incensi, con mani giunte, con passi lenti ed incerti, quasi toccasse un terreno non conosciuto e che le potesse mancare sotto ai piedi, con un volto in cui dipingevansi i contrarii affetti dell’animo, compresi tutti per altro in quella speranza che non l’aveva mai abbandonata, [p. 264 modifica]e alla quale tenevasi più che mai strettamente abbracciata in quell’ora tanto solenne, un mormorare sommesso si sparse per la moltitudine colà raccolta, mormorare formato dalle domande di parecchi, dalle risposte di parecchi altri, e dalle esclamazioni: eccola! la è dessa! e simili, della più parte. Quando tutti attendevansi che la cerimonia della professione incominciasse, ecco levarsi in piedi il prelato, e tutti naturalmente tacere. Saverio! Al pronunziar di questo nome all’attenzione successe un senso di universale sbalordimento. Pochi furono quelli i quali credessero di aver bene udito. Siete voi contento che Felicita sia vostra sposa? La maraviglia di tutti avrebbe voluto scoppiare in un O lungo; ma un’altra voce, che si fece udire da un’angolo della chiesa a rispondere venne a soffocare l’espressione di quel primo stupore. Voltatisi tutti a quella parte donde il era partito, fu veduto Saverio, non vi voglio dire con qual colore di faccia, e in qual attitudine di persona. Il che avevano pronunziato le sue labbra gli scintillava negli occhi, non c’era fibra in esso che non tremasse convulsa, e ben si vedeva che fino all’ultimo de’ suoi capelli era concorso a proferire quel irrevocabile. Felicita, siete voi contenta di darvi per isposa a Saverio? Questa seconda domanda fatta dal prelato potè essere udita più distintamente, perchè allo stupore essendosi aggiunta la curiosità, e il timore di non interrompere una cerimonia tan[p. 265 modifica]to singolare, e la voglia di non perder punto di quanto avveniva, erano divenuti taciti tutti, e possiam dire quasi senza respiro. Talchè il di Felicita, quantunque fievole e pronunziato colla faccia rivolta all’altare, fu anch’esso udito da buona parte delle persone. Quelli che se ne stavano fuori della porta, e che non potevano intender bene come andasse la cosa, ma che tuttavia non udivano nulla di ciò ch’era solito di accadere in tali feste, non volevano prestar fede a coloro che, più opportunamente allogati, parte guardavano e parte riferivano; e se ne credevano burlati. E l’abadessa? E le monache? E quelli che se ne stavano pronti col bacino, le forbici e l’abito religioso? Ma voi domandate altro che ciò! E Leonardo? Leonardo al primo sorgere del prelato con faccia onestamente severa, rivestito di tutto lo splendore della sua dignità, e più ancora del grande concetto in cui era d’uomo pio e reverendo, si sentì mancar l’animo, come udisse un muto rimprovero alla sua disapprovazione. Dirò quasi che gli parve di averne assai meno di quello si meritava quando udi quella voce ferma ed augusta di Policarpo non altro pronunziar che Saverio. A mano a mano che le brevi interrogazioni e le risposte brevissime si andavano succedendo, il vecchio gentiluomo prendeva fiato, se gli snodava la lingua, avrebbe potuto parlare; ma che dire a quel prelato, in quel luogo? Non che pronunziare parola, nè manco arrischiavasi di levar gli occhi all’oro della mi[p. 266 modifica]tra, dell’infula, del sacro piviale, su cui riverberavansi i lumi dell’altare, a far la persona di Policarpo oltre ogni dire splendente e poco meno che celeste. E intanto i turiboli diguazzati dai chierici profumavano l’aria di dolcissimi olezzi, e l’organo diffondeva per tutta la chiesa i suoi gravi accordi, accompagnandosi alla voce dei sacerdoti che intuonavano le loro salmodie. La parola del rancore come poteva essere proferita in quel mezzo? Leonardo aveva gli occhi confitti sul suo libro delle preci, nè avrebbe osato di voltar carta, anzi neppur di passare da riga a riga, così era legato in ogni suo senso, e posso dire impietrito. Ma quando il prelato benedicendo la nuova unione invocò su di essa la grazia del Cielo, quando i favori onde doveva essere prosperato quel nodo, che si stringeva con auspicii tanto solenni, venivano annunziati con parole tanto sante, e di tanto soave efficacia, quanta se ne ha dal rituale, una lagrima scappava inavvertita dagli occhi di Leonardo, e cadde sul libro che avea tra le mani. Il batter di quella lagrima sulla riga che non leggeva, ma nella quale affissava da più minuti, lo scosse, gli fe alzare la testa, e che vide? Vide due giovani inginocchiati sotto la mano del prelato che gli benediva.

Voi ne avete, credo, o lettori quel tanto che basta. Non mancherà chi mi dica che questa novella, oltre agli altri difetti, ha quello ancora di aggirarsi intorno persone, che, tolta l’animo[p. 267 modifica]sità e l’ostinazione di Leonardo, sono tutte genti dabbene, e dal più al meno rassegnate e tranquille. Primieramente la novella non l’ho inventata, come sapete; e vi ho detto fin dalle prime che le fo da storico anziché da romanzatore. In secondo luogo di novelle terribili, e di caratteri di persone sovranamente malvage, ne trovate a bizzeffe in tutti i libri di questo genere che si stampano al nostro tempo. E se avessi voluto badare a quel che mi fu raccontato, avrei potuto terminar la novella col mio bel lampo di luce infernale, nè più nè meno di quello che s’usa. Perchè mi fu detto essere corso voce che il prelato, indi a pochi mesi della cerimonia, morisse, non senza sospetto di avvelenamento. Ma vi posso assicurare che ella è pretta menzogna. E devo anzi soggiugnere, mi perdonino gli amatori del genere spaventoso, che i giorni di Felicita e di Saverio passarono tranquillissimi. Una sola sventura toccò a queste nozze, che per essere fatte così all’impensata, non poterono aver sonetti.