Orlando innamorato/Libro secondo/Canto quarto

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Libro secondo

Canto quarto

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Libro secondo - Canto terzo Libro secondo - Canto quinto

 
1   Luce de gli occhi miei, spirto del core,
     Per cui cantar suolea sì dolcemente
     Rime legiadre e bei versi d’amore,
     Spirami aiuto alla istoria presente.
     Tu sola al canto mio facesti onore,
     Quando di te parlai primeramente,
     Perché a qualunche che di te ragiona,
     Amor la voce e l’intelletto dona.

2   Amor primo trovò le rime e’ versi,
     I suoni, i canti ed ogni melodia;
     E genti istrane e populi dispersi
     Congionse Amore in dolce compagnia.
     Il diletto e il piacer serian sumersi,
     Dove Amor non avesse signoria;
     Odio crudele e dispietata guerra,
     Se Amor non fusse, avrian tutta la terra.

3   Lui pone l’avarizia e l’ira in bando,
     E il core accresce alle animose imprese,
     Né tante prove più mai fece Orlando,
     Quante nel tempo che de amor se accese.
     Di lui vi ragionava alora quando
     Con quella dama nel prato discese;
     Or questa cosa vi voglio seguire,
     Per dar diletto a cui piace de odire.

4   La dama, che col conte era smontata,
     Gli dicea: - Cavalliero, in fede mia,
     Se non che messagiera io son mandata,
     Dentro a questo giardin teco verria;
     Ma non posso indugiare una giornata
     Del mio camino, ed è lunga la via.
     Or quel ch’io te vo’ dire, intendi bene:
     Esser gagliardo e saggio ti conviene.

5   Se non vôi esser di quel drago pasto,
     Che d’altra gente ha consumata assai,
     Convienti di tre giorni esser ben casto,
     Né camparesti in altro modo mai.
     Questo dragone fia il primo contrasto
     Che alla primiera entrata trovarai:
     Un libro ti darò, dove è depinto
     Tutto ’l giardino e ciò ch’è dentro al cinto. -

6   Il dragone che gli omini divora,
     E l’altre cose tutte quante dice,
     E descrive il palagio ove dimora
     Quella regina, brutta incantatrice.
     Ier entrò dentro e dimoravi ancora,
     Perché con succo de erbe e de radice
     E con incanti fabrica una spata
     Che tagliar possa ogni cosa affatata.

7   In questo non lavora se non quando
     Volta la luna e che tutto se oscura.
     - Or te vo’ dir perché ha fatto quel brando
     E pone al temperarlo tanta cura.
     In Ponente è un baron, che ha nome Orlando,
     Che per sua forza al mondo fa paura:
     La incantatrice trova per destino
     Che costui desertar debbe il giardino.

8   Come se dice, egli è tutto fatato
     In ogni canto, e non si può ferire,
     E con molti guerreri è già provato,
     E tutti quanti gli ha fatto morire;
     Perciò la dama il brando ha fabricato,
     Perché il baron che io ho detto, abbia a perire,
     Benché lei dica che pur sa di certo
     Che il suo giardin da lui serà deserto.

9   Ma quel che più bisogna avea scordato,
     E speso ho il tempo con tante parole.
     Non se può entrare in quel loco incantato
     Se non aponto quando leva il sole.
     Poi ch’io son quivi, è bon tempo passato:
     Più teco star non posso, e me ne dole.
     Or piglia il libro e ponevi ben cura:
     Iddio te aiuti e doneti ventura. -

10 Così dicendo gli dà il libro in mano,
     E da lui tol combiato la fantina;
     Ben la ringrazia il cavallier soprano:
     Lei monta il palafreno e via camina.
     Va passeggiando il conte per il piano,
     Poi che indugiar conviene alla mattina;
     Ben gli rincresce il gioco che gli è guasto
     Ch’esser conviene a quella impresa casto:

11 Perché Origille, quella damigella
     Che avea campata, seco dimorava.
     Amore e gran desio dentro il martella,
     Ma pur indugïar deliberava.
     La luna era nel celo ed ogni stella,
     Il conte sopra a l’erba si posava,
     Col scudo sotto il capo e tutto armato;
     La damigella a lui stava da lato.

12 Dormiva Orlando, e sornacchiava forte
     Senz’altra cura il franco cavalliero;
     Ma quella dama, che è di mala sorte
     Ed a seguir Grifone avea il pensiero,
     Fra sé deliberò dargli la morte;
     E, rivolgendo ciò l’animo fiero,
     Vien pianamente a lui se approssimando,
     E via dal fianco gli distacca il brando.

13 Tutto è coperto il conte d’armatura:
     Non sa la dama il partito pigliare,
     Né de ferirlo ponto se assicura,
     Onde destina di lasciarlo stare.
     Lei prende Brigliadoro alla pastura,
     E prestamente su vi ebbe a montare,
     E via camina e quindi s’alontana,
     E porta seco il brando Durindana.

14 Orlando fu svegliato al matutino,
     E del brando s’accorse e del ronzone.
     Pensati se de questo fu tapino,
     Che ’l credette morir di passïone;
     Ma in ogni modo entrar vôle al giardino:
     E bench’egli abbia perduto il ronzone
     E il brando di valor tanto infinito,
     Non se spaventa il cavalliero ardito.

15 Via caminando come disperato,
     Verso il giardino andava quel barone;
     Un ramo d’uno alto olmo avea sfrondato,
     E seco nel portava per bastone.
     Il sole aponto alora era levato,
     Quando lui gionse al passo del dragone;
     Fermossi alquanto il cavallier sicuro,
     Guardando intorno del giardino al muro.

16 Quello era un sasso de una pietra viva,
     Che tutta integra atorno l’agirava;
     Da mille braccie verso il ciel saliva,
     E trenta miglia quel cerchio voltava.
     Ecco una porta a levante s’apriva:
     Il drago smisurato zuffellava,
     Battendo l’ale e menando la coda;
     Altro che lui non par che al mondo s’oda.

17 Fuor della porta non esce nïente,
     Ma stavi sopra come guardïano;
     Il conte se avicina arditamente
     Col scudo in braccio e col bastone in mano.
     La bocca tutta aperse il gran serpente,
     Per ingiottire quel baron soprano;
     Lui, che di tal battaglia era ben uso,
     Mena il bastone e colse a mezo ’l muso.

18 Per questo fu il serpente più commosso,
     E verso Orlando furïoso viene;
     Lui con quel ramo de olmo verde e grosso
     Menando gran percosse gli dà pene.
     Al fin con molto ardir gli salta adosso,
     E cavalcando tra le coscie il tiene;
     Ferendo ad ambe mano, a gran tempesta
     Colpi radoppia a colpi in su la testa.

19 Rotto avea l’osso, e il suo cervello appare,
     Quella bestia diversa, e cadde morta.
     Il sasso, che era aperto a questo intrare,
     S’accolse insieme, e chiuse questa porta.
     Or non sa il conte ciò che debba fare,
     E nella mente alquanto se sconforta;
     Guardasi intorno e non sa dove gire,
     Ché chiuso è dentro e non potrebbe uscire.

20 Era alla sua man destra una fontana,
     Spargendo intorno a sé molta acqua viva;
     Una figura di pietra soprana,
     A cui del petto fuor quella acqua usciva,
     Scritto avea in fronte: ’Per questa fiumana
     Al bel palagio del giardin se ariva.’
     Per infrescarse se ne andava il conte
     Le man e ’l viso a quella chiara fonte.

21 Avea da ciascun lato uno arboscello
     Quel fonte che era in mezo alla verdura,
     E facea da se stesso un fiumicello
     De una acqua troppo cristallina e pura;
     Tra’ fiori andava il fiume, e proprio è quello
     Di cui contava aponto la scrittura,
     Che la imagine al capo avea d’intorno;
     Tutta la lesse il cavalliero adorno.

22 Onde si mosse a gire a quel palaggio,
     Per pigliare in quel loco altro partito;
     E caminando sopra del rivaggio
     Mirava il bel paese sbigotito.
     Egli era aponto del mese di maggio,
     Sì che per tutto intorno era fiorito,
     E rendeva quel loco un tanto odore,
     Che sol di questo se allegrava il core.

23 Dolce pianure e lieti monticelli
     Con bei boschetti de pini e d’abeti,
     E sopr’a verdi rami erano occelli,
     Cantando in voce viva e versi queti.
     Conigli e caprioli e cervi isnelli,
     Piacevoli a guardare e mansueti,
     Lepore e daini correndo d’intorno,
     Pieno avean tutto quel giardino adorno.

24 Orlando pur va drieto alla rivera,
     Ed avendo gran pezzo caminato,
     A piè d’un monticello alla costera
     Vide un palagio a marmori intagliato;
     Ma non puotea veder ben quel che gli era,
     Perché de arbori intorno è circondato.
     Ma poi, quando li fu gionto dapresso,
     Per meraviglia uscì for di se stesso.

25 Perché non era marmoro il lavoro
     Ch’egli avea visto tra quella verdura,
     Ma smalti coloriti in lame d’oro
     Che coprian del palagio l’alte mura.
     Quivi è una porta di tanto tesoro,
     Quanto non vede al mondo creatura,
     Alta da diece e larga cinque passi,
     Coperta de smiraldi e de balassi.

26 Non se trovava in quel ponto serrata,
     Però vi passò dentro il conte Orlando.
     Come fu gionto nella prima entrata,
     Vide una dama che avea in mano un brando,
     Vestita a bianco e d’oro incoronata,
     In quella spada se stessa mirando.
     Come lei vide il cavallier venire,
     Tutta turbosse e posesi a fuggire.

27 Fuor della porta fuggì per il piano;
     Sempre la segue Orlando tutto armato,
     Né fu ducento passi ito lontano,
     Che l’ebbe gionta in mezo di quel prato.
     Presto quel brando gli tolse di mano,
     Che fu per dargli morte fabricato,
     Perché era fatto con tanta ragione,
     Che taglia incanto ed ogni fatagione.

28 Poi per le chiome la dama pigliava,
     Che le avea sparse per le spalle al vento,
     E di dargli la morte minacciava
     E grave pena con molto tormento,
     Se del giardino uscir non gl’insegnava.
     Lei, ben che tremi tutta di spavento,
     Per quella tema già non se confonde,
     Anci sta queta e nulla vi risponde;

29 Né per minaccie che gli avesse a fare
     Il conte Orlando, né per la paura
     Mai gli rispose, né volse parlare,
     Né pur di lui mostrava tenir cura.
     Lui le lusenghe ancor volse provare,
     Essa ostinata fo sempre e più dura;
     Né per piacevol dir né per minaccia
     Puote impetrar che lei sempre non taccia.

30 Turbossi il cavallier nel suo coraggio,
     Dicendo: - Ora me è forza esser fellone;
     Mia serà la vergogna e tuo il dannaggio,
     Benché di farlo io ho molta ragione. -
     Così dicendo la mena ad un faggio,
     E ben stretta la lega a quel troncone
     Con rame lunghe, tenere e ritorte,
     Dicendo a lei: - Or dove son le porte? -

31 Lei non risponde al suo parlar nïente,
     E mostra del suo crucio aver diletto.
     - Ahi, - disse il conte - falsa e fraudolente!
     Ch’io lo posso sapere al tuo dispetto.
     Or mo di novo mi è tornato a mente
     Che in un libretto l’aggio scritto al petto,
     Qual mi mostrarà il fatto tutto a pieno. -
     Così dicendo sel trasse di seno.

32 Guardando nel libretto ove è depento
     Tutto il giardino e di fuore e d’intorno,
     Vede nel sasso, ch’è d’incerco acento,
     Una porta che n’esce a mezogiorno;
     Ma bisogna a l’uscir aver convento
     Un toro avanti, che ha di foco un corno,
     L’altro di ferro, ed è tanto pongente,
     Che piastra o maglia non vi val nïente.

33 Ma prima che vi ariva, un lago trova,
     Dove è molta fatica a trapassare,
     Per una cosa troppo strana e nova,
     Sì come apresso vi vorò contare;
     Ma il libro insegna vincer quella prova.
     Non avea il conte a ponto a indugïare,
     Ma via camina per l’erba novella,
     Lasciando al faggio presa la donzella.

34 Via ne va lui per quelle erbe odorose,
     E poi che alquanto via fu caminato,
     L’elmo a l’orecchie empì dentro di rose,
     Delle qual tutto adorno era quel prato.
     Chiuse l’orecchie, ad ascoltar si pose
     Gli occei, ch’erano intorno ad ogni lato:
     Mover li vede il collo e ’l becco aprire,
     Voce non ode e non potrebbe odire,

35 Perché chiuso se aveva in tal maniera
     L’orecchie entrambe a quelle rose folte,
     Che non odiva, al loco dove egli era,
     Cosa del mondo, ben che attento ascolte;
     E caminando gionse alla rivera,
     Che ha molte gente al suo fondo sepolte.
     Questo era un lago piccolo e iocondo
     D’acque tranquille e chiare insino al fondo.

36 Non gionse il conte in su la ripa apena,
     Che cominciò quell’acqua a gorgoliare;
     Cantando venne a sommo la Sirena.
     Una donzella è quel che sopra appare,
     Ma quel che sotto l’acqua se dimena
     Tutto è di pesce e non si può mirare,
     Ché sta nel lago da la furca in gioso;
     E mostra il vago, e il brutto tiene ascoso.

37 Lei comincia a cantar sì dolcemente,
     Che uccelli e fiere vennero ad odire:
     Ma, come erano gionti, incontinente
     Per la dolcezza convenian dormire.
     Il conte non odìa de ciò nïente,
     Ma, stando attento, mostra di sentire.
     Come era dal libretto amaestrato,
     Sopra la riva se colcò nel prato.

38 E’ mostrava dormir ronfando forte:
     La mala bestia il tratto non intese,
     E venne a terra per donarli morte;
     Ma il conte per le chiome ne la prese.
     Lei, quanto più puotea, cantava forte,
     Ché non sapeva fare altre diffese,
     Ma la sua voce al conte non attiene,
     Che ambe l’orecchie avea di rose piene.

39 Per le chiome la prese il conte Orlando,
     Fuor di quel lago la trasse nel prato,
     E via la testa gli tagliò col brando,
     Come gli aveva il libro dimostrato,
     Sé tutto di quel sangue rossegiando,
     E l’arme e sopraveste in ogni lato.
     L’elmo se trasse e dislegò le rose;
     Tinto di sangue poi tutto se ’l pose.

40 Di quel sangue avea tocco in ogni loco,
     Perché altramente tutta l’armatura
     Avrebbe consumata a poco a poco
     Quel toro orrendo e fora di natura,
     Che avea un corno di ferro ed un di foco.
     Al suo contrasto nulla cosa dura,
     Arde e consuma ciò che tocca apena:
     Sol se diffende il sangue di sirena.

41 Di questo toro sopra vi ho contato,
     Che verso mezogiorno è guardïano.
     Il conte a quella porta fu arivato,
     Poi che ebbe errato molto per il piano.
     Il sasso che ’l giardino ha circondato,
     S’aperse alla sua gionta a mano a mano,
     E una porta di bronzo si disserra:
     Fuora uscì il toro a mezo della terra.

42 Muggiando uscitte il toro alla battaglia,
     E ferro e foco nella fronte squassa,
     Né contrastar vi può piastra né maglia,
     Ogni armatura con le corne passa.
     Il conte con quel brando che ben taglia,
     A lui ferisce ne la testa bassa,
     E proprio il gionse nel corno ferrato:
     Tutto di netto lo mandò nel prato.

43 Per questo la battaglia non s’arresta;
     Con l’altro corno, ch’è di foco, mena
     Con tanta furia e con tanta tempesta,
     Che il conte in piede si mantiene apena.
     Arso l’avria da le piante alla testa,
     Se non che il sangue di quella sirena
     Da questa fiamma lo tenìa diffeso,
     Che avrebbe l’arme e il busto insieme acceso.

44 Combatte arditamente il conte Orlando,
     Come colui che fu senza paura;
     Mena a due mano irato e fulminando
     Dritti e roversi fuor d’ogni misura.
     Egli ha gran forza ed incantato ha il brando,
     Onde a’ suoi colpi nulla cosa dura;
     Ferendo e spalle e testa ed ogni fianco,
     Fece che ’l toro al fin pur venne manco.

45 Le gambe tagliò a quello e il collo ancora,
     Con gran fatica se finì la guerra.
     Il toro occiso senza altra dimora
     Tutto se ascose sotto della terra;
     La porta, che era aperta alora alora,
     A l’asconder di quel presto si serra;
     La pietra tutta insieme è ritornata,
     Porta non vi è, né segno ove sia stata.

46 Il conte più non sa quel che si fare.
     Ché de l’uscita non vede nïente;
     Prende il libretto e comincia a guardare,
     D’intorno al cerchio va ponendo mente;
     Vede il vïaggio che debbe pigliare
     Dietro ad un rivo che corre a ponente,
     Ove di zoie aperta è una gran porta;
     Uno asinello armato è la sua scorta.

47 Ma presto narrarò com’era fatto
     Questo asinello, e fu gran meraviglia.
     Dio guardi il conte Orlando a questo tratto,
     Che alla riva del fiume il camin piglia.
     Via ne va sempre caminando ratto,
     E seco nella mente se assotiglia,
     Perché ’l libro altro ancor gli avea mostrato,
     Prima che gionga a l’asinello armato.

48 Così pensando, a mezo del camino
     Uno arbore atrovò fuor di misura:
     Tanto alto non fo mai faggio né pino,
     Tutto fronzuto di bella verdura.
     Come da longe il vide il paladino,
     Ben si ricorda di quella scrittura
     Che gli mostrava il suo libretto aponto,
     Però provede prima che sia gionto.

49 Fermosse sopra il fiume il cavalliero,
     E ’l scudo prestamente desimbraccia,
     Da l’elmo tolse via tutto il cimiero,
     Alla fronte di quello il scudo allaccia,
     Sì che ’l copria davanti tutto intiero,
     Verso la vista e sopra della faccia.
     Dinanti ai piedi aponto in terra guarda:
     Altro non vede e il suo camin non tarda.

50 E come il loco avea prima avisato,
     Al tronco drittamente via camina.
     Un grande occello ai rami fu levato,
     Che avea la testa e faccia di regina,
     Coi capei biondi e il capo incoronato;
     La piuma al collo ha d’oro e purpurina,
     Ma il petto, il busto e le penne maggiore
     Vaghe e dipente son d’ogni colore.

51 La coda ha verde e d’oro e di vermiglio,
     Ed ambe l’ale ad occhi di pavone;
     Grande ha le branche e smisurato artiglio,
     Proprio assembra di ferro il forte ungione.
     Tristo quello omo a chi dona di piglio,
     Ché lo divora con destruzïone.
     Smaltisce questo occello una acqua molle,
     Qual, come tocca gli occhi, il veder tolle.

52 Levosse dalle rame con fraccasso
     Quel grande occello, e verso il conte andava,
     Il qual veniva al tronco passo passo
     Col scudo in capo, e gli occhi non alciava,
     Ma sempre a terra aveva il viso basso;
     E l’occellaccio d’intorno agirava,
     E tal rumor faceva e tal cridare,
     Che quasi Orlando fie’ pericolare.

53 Ché fu più volte per guardare in suso;
     Ma pur se ricordava del libretto,
     E sotto il scudo se ne stava chiuso.
     Alciò la coda il mostro maledetto,
     E l’acqua avelenata smaltì giuso.
     Quella cade nel scudo, e per il petto
     Calla stridendo, come uno oglio ardente;
     Ma nella vista non toccò nïente.

54 Orlando se lasciò cadere in terra,
     Tra l’erbe, come ceco, brancolando.
     Calla l’occello e nel sbergo l’afferra,
     E verso il tronco il tira strasinando.
     Il conte a man riversa un colpo serra;
     Proprio a traverso lo gionse del brando,
     E da l’un lato a l’altro lo divise,
     Sì che, a dir breve, quel colpo l’occise.

55 Poi che mirato ha il conte quello occello,
     Sotto il suo tronco a l’ombra morto il lassa,
     E raconcia il cimiero alto a pennello,
     E ’l scudo al braccio nel suo loco abassa.
     Verso la porta dove è l’asinello,
     Drieto a ponente, in ripa al fiume passa,
     E poco caminò che ivi fu gionto,
     E vide aprir la porta in su quel ponto.

56 Mai non fo visto sì ricco lavoro
     Come è la porta nella prima faccia.
     Tutta è di zoie, e vale un gran tesoro;
     Non la diffende né spata né maccia
     Ma uno asino coperto a scaglie d’oro,
     Ed ha l’orecchie lunghe da due braccia:
     Come coda di serpe quelle piega,
     E piglia e strenge a suo piacere e lega.

57 Tutto è coperto di scaglia dorata,
     Come io vi ho detto, e non si può passare;
     Ma la sua coda taglia come spata,
     Né vi può piastra né maglia durare;
     Grande ha la voce e troppo smisurata,
     Sì che la terra intorno fa tremare.
     Ora alla porta il conte s’avicina:
     La bestia venne a lui con gran roina.

58 Orlando lo ferì de un colpo crudo,
     Né lo diffende l’incantata scaglia;
     Tutto il scoperse insino al fianco nudo,
     Perché ogni fatason quel brando taglia.
     L’asino prese con l’orecchie il scudo,
     E tanto dimenando lo travaglia,
     Di qua di là battendo in poco spaccio,
     Che al suo dispetto lo levò dal braccio.

59 Turbosse oltra misura il conte Orlando,
     E mena un colpo furïosamente;
     Ambe l’orecchie gli tagliò col brando,
     Ché quella scaglia vi giovò nïente.
     Esso le croppe rivoltò cridando,
     E mena la sua coda, che è tagliente,
     E spezza al franco conte ogni armatura:
     Lui è fatato, e poco se ne cura;

60 E de un gran colpo a quel colse ne l’anca
     Dal lato destro, e tutta l’ha tagliata,
     E dentro agionse nella coscia stanca.
     Non è riparo alcuno a quella spata;
     Quasi la tagliò tutta, e poco manca.
     Cadde alla terra la bestia incantata,
     Cridando in voce di spavento piena,
     Ma il conte ciò non cura e il brando mena.

61 Mena a due mano il conte e non s’arresta,
     Benché cridi la bestia a gran terrore.
     Via de un sol colpo gli gettò la testa
     Con tutto il collo, o la parte maggiore.
     Alor tutta tremò quella foresta,
     E la terra s’aperse con rumore,
     Dentro vi cadde quella mala fiera;
     Poi se ragionse, e ritornò com’era.

62 Or fora il conte se ne vuole andare,
     Ed alla ricca porta èsse invïato,
     Ma dove quella fosse non appare:
     Il sasso tutto integro è riserrato.
     Lui prende il libro e comincia a mirare;
     Poi che ogni volta rimane ingannato
     E dura indarno cotanta fatica,
     Non sa più che se facci o che se dica.

63 Ciascuna uscita sempre è stata vana
     E con arisco grande di morire;
     Pur la scrittura del libretto spiana
     Che ad ogni modo non se puote uscire
     Per una porta volta a tramontana,
     Ma là non vi val forza, e non ardire,
     Né ’l proprio senno né l’altrui consiglio,
     Ché troppo è quello estremo e gran periglio.

64 Perché un gigante smisurato e forte
     Guarda la uscita con la spata in mano,
     E se egli avvien che dato li sia morte,
     Duo nascon del suo sangue sopra il piano,
     E questi sono ancor de simil sorte:
     Ciascun quattro produce a mano a mano,
     Così multiplicando in infinito
     Il numero di lor forte ed ardito.

65 Ma prima ancor che se possa arivare
     A quella porta, che è tutta d’argento,
     Per quella serrata, vi è molto che fare,
     E bisognavi astuzia e sentimento.
     Ma il conte a questo non stette a pensare,
     Come colui che avea molto ardimento,
     Seco dicendo a sua mente animosa:
     "Chi può durare, al fin vince ogni cosa."

66 Così fra sé parlando il camin prese
     Giù per la costa verso tramontana,
     E vide, come al campo giù discese,
     Una valle fiorita e tutta piana,
     Ove tavole bianche eran distese,
     Tutte apparate intorno alla fontana;
     Con ricche coppe d’oro in ogni banda
     Eran coperti de ottima vivanda.

67 Né quanto intorno se puote mirare,
     Disotto al piano e di sopra nel monte,
     Non vi è persona che possi guardare
     Quella ricchezza che è intorno alla fonte;
     E le vivande se vedean fumare.
     Gran voglia di mangiare aveva il conte;
     Ma prima il libracciol trasse del petto,
     E, quel leggendo, prese alto sospetto.

68 Guardando quel libretto, il paladino
     Vide la cosa sì pericolosa.
     Di là dal fonte è un boschetto di spino,
     Tutto fiorito di vermiglia rosa,
     Verde e fronzuto; e dentro al suo confino
     Una Fauna crudel vi sta nascosa:
     Viso di dama e petto e braccia avia,
     Ma tutto il resto d’una serpe ria.

69 Questa teneva una catena al braccio,
     Che nascosa venìa tra l’erba e’ fiori,
     E facea intorno a quella fonte un laccio,
     Acciò, se alcun, tirato da li odori,
     Intrasse alla fontana dentro al spaccio,
     Fosse pigliato con gravi dolori;
     Essa, tirando poi quella catena,
     A suo mal grado nel boschetto il mena.

70 Orlando dalla fonte si guardava,
     E verso il verde bosco prese a gire.
     Come la Fauna di questo si addava,
     Uscì cridando e posesi a fuggire;
     Per l’erba, come biscia, sdrucellava,
     Ma presto il conte la fece morire
     De un colpo solo e senza altra contesa,
     Ché quella bestia non facea diffesa.

71 Poi che la Fauna fu nel prato morta,
     Ver tramontana via camina il conte,
     E poco longi vide la gran porta,
     Che avea davanti sopra un fiume un ponte.
     Su vi sta quel che ha tanta gente morta,
     Col scudo in braccio e con l’elmo alla fronte;
     Par che minacci con sembianza cruda,
     Armato è tutto ed ha la spada nuda.

72 Orlando se avicina a quel gigante,
     Né de cotal battaglia dubitava,
     Perché in sua vita ne avea fatto tante,
     Che poca cura di questa si dava.
     Quello omo smisurato venne avante,
     Ed un gran colpo de spata menava.
     Schifollo il conte e trassese da lato,
     E quel ferisce col brando affatato.

73 Gionse al gigante sopra del gallone,
     Non lo diffese né piastra né maglia,
     Ma, fraccassando sbergo e pancirone,
     Insino a l’altra coscia tutto il taglia.
     Ora se allegra il figlio di Melone,
     Credendo aver finita ogni battaglia,
     E prese de l’uscir molto conforto,
     Poi che vide il gigante a terra morto.

74 Quello era morto, e ’l sangue fuora usciva,
     Tanto che ne era pien tutto quel loco;
     Ma, come fuor del ponte in terra ariva,
     Intorno ad esso s’accendeva un foco.
     Crescendo ad alto quella fiamma viva
     Formava un gran gigante a poco a poco;
     Questo era armato e in vista furibondo,
     E dopo il primo ancor nascìa il secondo.

75 Figli parean di ’l foco veramente,
     Tanto era ciascun presto e furïoso,
     Con vista accesa e con la faccia ardente.
     Ora ben stette il conte dubbïoso;
     Non sa quel che far debba nella mente:
     Perder non vôle, e ’l vincere è dannoso,
     Però, ben che li faccia a terra andare,
     Rinasceranno, e più vi avrà che fare.

76 Ma de vincere al fin pur se conforta,
     Se ne nascesser ben mille migliara,
     Ed animoso se driccia alla porta.
     Quei duo giganti avean presa la sbara;
     Ciascuno aveva una gran spada torta,
     Perché eran nati con la simitara.
     Ma il conte a suo mal grado dentro passa,
     Prende la sbarra e tutta la fraccassa.

77 Unde ciascun di lor più fulminando
     Percote adosso del barone ardito;
     Ma poca stima ne faceva Orlando,
     Ché non puotea da loro esser ferito.
     Lui riposto teneva al fianco il brando,
     Perché avea preso in mente altro partito;
     Adosso ad un di lor ratto se caccia,
     E sotto l’anche ben stretto l’abbraccia.

78 Aveano entrambi smisurata lena,
     Ma pur l’aveva il conte assai maggiore.
     Leval il conte ad alto e intorno il mena,
     Né vi valse sua forza, o suo vigore,
     Ché lo pose riverso in su l’arena.
     L’altro gigante con molto furore
     Di tempestare Orlando mai non resta
     Da ciascun lato e basso e nella testa.

79 Lui lascia il primo, com’era disteso,
     E contra a questo tutto se disserra;
     Sì come l’altro a ponto l’ebbe preso,
     E con fraccasso lo messe alla terra.
     L’altro è levato de grande ira acceso:
     Orlando lascia questo e quello afferra;
     E mentre che con esso fa battaglia,
     Levasi il primo e intorno lo travaglia.

80 Andò gran tempo a quel modo la cosa,
     Né se potea sperare il fin giamai;
     Non può prendere il conte indugia o posa,
     Ché sempre or l’uno or l’altro gli dà guai.
     Durata è già la zuffa dolorosa
     Più che quattro ore, con tormento assai
     Per l’uno e l’altro; a benché ’l conte Orlando
     A duo combatte e non adopra il brando.

81 Per non multiplicarli, il cavalliero
     Batteli a terra e non gli fa morire,
     Ma per questo non esce del verziero,
     Ch’e duo giganti il vetano a partire.
     Lui prese combattendo altro pensiero
     Subitamente, e mostra di fuggire;
     Per la campagna va correndo il conte,
     Ma quei due grandi ritornarno al ponte.

82 Ciascun sopra del ponte ritornava,
     Come de Orlando non avesse cura;
     E lui, che spesso in dietro si voltava,
     Credette che restasser per paura;
     Ma quella fatason che li creava
     Quivi li tenea fermi per natura.
     Sol per diffesa stan di quella porta,
     E fanno al fiume ed al suo ponte scorta.

83 Il conte questo non aveva inteso,
     Ma via da lor correndo se alontana;
     Alla valletta se ne va disteso,
     Che ha ’l bel boschetto a lato alla fontana,
     Dove la Fauna avea quel laccio teso
     Per pascerse de sangue e carne umana.
     Tavole quivi son da tutte bande;
     Il laccio è teso intorno alle vivande.

84 Era quel laccio tutto di catena
     Come di sopra ancora io v’ho contato.
     Orlando lo distacca e dietro il mena,
     Strasinando alle spalle, per il prato:
     Tanto era grosso, che lo tira appena.
     Con esso al ponte ne fu ritornato,
     E pose un de’ giganti a forza a terra,
     E braccie e gambe a quel laccio gl’inferra.

85 Benché a ciò fare vi stesse buon spaccio,
     Perché l’altro gigante lo anoiava;
     Ma a suo mal grado uscì di quello impaccio,
     Ed ancora esso per forza atterrava;
     Come l’altro il legò proprio a quel laccio.
     Ora la porta più non se serrava,
     E puote Orlando a suo diletto uscire;
     Quel che poi fece, tornati ad odire.

86 Perché se dice che ogni bel cantare
     Sempre rincresce quando troppo dura,
     Ed io diletto a tutti vi vo’ dare
     Tanto che basta, e non fuor di misura;
     Ma se verreti ancora ad ascoltare,
     Racontarovi di questa ventura
     Che aveti odita, tutto quanto il fine,
     Ed altre istorie belle e pellegrine.