Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/XVII

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XVII

RELIGIONE


(continuazione)


DD
io o demonio, per questi Indiani è lo stesso, e li chiamano con lo stesso nome, che, come ho già detto, è ahót presso i Mattacchi.

Questa indistinzione li libera, almeno dal lato del linguaggio, dal vizio della intolleranza, che è tanto potente presso di noi così essi la nostra chiesa la chiamano tohuó-hotó-hi, che letteralmente vuol dire «quello che contiene gli ahót», cioè gli ahót, o gli Dei cristiani.

Anche al cimitero danno lo stesso nome: e in questo si trovano d’accordo con gli abitanti di quei campi, i quali lo chiamano panteón.

E a proposito di questo vocabolo, guardate la fortuna delle parole! Tutti sappiamo che il Panteon era in Grecia il tempio consacrato a tutti gli Dei, come lo dice la parola composta, che include il concetto di totalità o di tutto in pan, e di divinità in teón poi si collocò ai tempii dove si collocavano gli uomini, che per le loro prodezze si riguardavano semidei, e finalmente, spenta la idea mitologica, passò nella nostra società a esprimere il cimitero degli uomini illustri. E in questo concetto si riserva a tale ufficio qualche monumento insigne [p. 128 modifica]per arte o per tradizioni, come il Panteon di Parigi, o come il tempio di Santa Croce in Firenze.

Nel Ciacco, e in tutto il Nord della Repubblica, ove sono popoli più democratici, più perequatori, più ironici o più ingenui, chiamano addirittura panteón un pezzo di terra coperto d’erbacce, recinto di siepe secca. Questo luogo è aperto al tigre e al cane che vi vanno a celebrare alternamente il loro festino a spese d’un recente cadavere, di bianco, di negro o di pardo, ma certamente non di un semidio greco o d’un uomo divino moderno!

Di questo passo, un bel giorno la parola Panteon avrà suono sprezzativo.

E quante volte nella storia del linguaggio non troviamo di queste alterazioni progressive e profonde? Positivamente erinni non si sarebbe figurato che dal suo significato primitivo di bontà si sarebbe cambiato in quello di Furie infernali; nè tiranno da reggitore di popoli in tormentatore. E chi avrebbe detto agli aristocratici romani, ai gentili, alla gente, ai decentes d’allora1, che in bocca cristiana il loro appellativo, di cui andavano tanto orgogliosi, suonerebbe anatema? E chi avrebbe detto ai Tasso e ai Metastasio, i quali si bene cantarono delle virtù e delle gioie della vita campestre, che la parola rurale nel nuovo vocabolario liberalesco andrebbe sostituendo pel ridicolo e per lo scredito, il pagano o l’abitatore dei paghi, attaccato ancora alla gloriosa religione avita quando il cristianesimo già trionfava?

Gli ahót, non solamente hanno il potere di entrare nelle persone e stregarle, e di incarnarsi, accettatemi il neologismo, in elementi che portano il male, come la tempesta, il vaiolo, la carestia ecc., ma son capaci anche di tirar bòtte, e specialmente frecciate. [p. 129 modifica]

Ma questo delle frecce, pare che non lo facciano che dietro invito degli stregoni, che in mattacco si chiamano hájagué, e ippaja in ciriguano; e che sia comune anche al gualiccio degli Araucani, i quali infatti hanno un verbo a proposito per esprimere questa azione, il quale è cúglin: mentre è ióco in mattacco.

E si comprende che gli stregoni abbiano scelto la freccia per arma loro riservata dallo spirito del male, perchè è la unica, tra le armi usate dagli Indiani, che si presti al mistero, e alla ciurmeria, perchè, essendo proiettile, può scagliarsi da qualunque parte e da lontano dissimulando la mano.

Gli Indiani hanno molta fiducia in questo potere dei loro ahót. Un mio ladino, certo Tajo (si chiamava così per un taglio che aveva nella faccia) Indiano, per dimostrarmi una volta il potere certo degli ahót, e che i Cristiani son tanti ignoranti quando negano la loro esistenza, mi raccontò questo fatto:

Una volta una tribù era di ritorno da uno stabilimento di zucchero della provincia di Salta. Era il tempo dell’algarroba; una notte la gente faceva festa cantando e ballando. A un tratto si sente venire un Cristiano che cantava, si sente il pesticciare del cavallo e poi il cigolio dei grandi speroni di argento.

Arrivato in faccia alla gente, si ferma e li rimbrotta per quello che facevano, e vuole proibirglielo; alla gente non piace che il Cristiano s’intruda, e dice al hájagué che lo mandi via. Il hájagué non avendolo potuto conseguire con le buone, dice al Cristiano ostinato a sciupare e a profanare la festa: «Ora tu vedrai se siamo gente da poco, e quel che può l’ahót

Si china, si tappa e grida all’ahót: «Freccialo quel Cristiano e mostragli se è poco quello che vagliamo noialtri.»

«Sta bene,» risponde l’ahót.

A un tratto si sente che sta suonando d’abbasso un rumore come se avessero rotto un palo. Era stata una freccia.

Di repente il Cristiano casca da cavallo: era morto. [p. 130 modifica]

L’ahót l’aveva frecciato, perchè il Cristiano non gli aveva creduto che era ahót.

Tutta la tribù giura di esserne testimone.

Quand’ebbe finito, io pensai tra me: che differenza c’è, se se ne toglie le dimensioni, tra questa credulità e quella degli Ebrei, che credevano all’esterminio di Sennacherib e di 185 000 Assirii che ne fece l’Angelo del Signore in una notte mentre quegli si preparava ad assediare Gerusalemme? o quella di poco fa si può dire, degli spagnuoli conquistatori del Messico, che secondo lo storico Gomara, cappellano di Cortés, vinsero contro gli innumerevoli nemici, per l’apparizione del Señor Santiago apostol sobre un caballo tordillo al fronte delle truppe spagnuole?

E anche questo non era infine che una seconda edizione dell’angelo tutelare su cavallo bianco e con armatura d’oro che a Giuda fece vincere Antioco Eupatore qualche migliaio d’anni avanti!

Questi selvaggi hanno tante fonti di certezza per credere alle loro fole, quante noi alle nostre: hanno anch’essi i si dice e i il tale lo ha visto, ripetuti da mille; hanno un fatto accompagnato da una circostanza, e prendono questa per la causa di quello, come s’usa tra noi. Miracolo per miracolo, l’uno vale l’altro.

È curioso che l’oggetto, se non d’una adorazione, almeno d’un riconoscimento, è il principio del male, perchè in fine l’ahót non è che qualche potenza malefica o potente di male. Se vogliamo considerare tal riconoscimento come il crepuscolo d’una religione, bisogna dire dunque che la religione ha per punto di partenza il timore d’un male e il desiderio di scongiurarlo.

E ciò che si trova tra gli Indiani del Ciacco fu trovato anche nel resto delle popolazioni selvagge dell’America, benchè presso alcune, nell’America settentrionale, si riconoscessero anche potenze o esseri invisibili benefici, che erano chiamati maniti e ockis presso alcune nazioni. [p. 131 modifica]

E in ciò gli Americani ragionano da ingenui, ma accorti: a che preoccuparsi, essi dicono, d’un essere che per sua natura è benefico? tanto non ci farà del male, perchè se è buono lo può volere.

Bisogna dire che tutte le religioni si risentono di questo, direi, peccato originale, perchè tutti predicano e impongono sacrifizii espiatorii a placare l’ira suprema.

E se noi facessimo l’esame di coscienza, potremmo forse dire che abbiamo amore a Dio? timore sì, nonostante il decimo Comandamento e infatti i Predicatori inculcano sempre il santo timor di Dio: l’amore c’entra di mattonella.

E per chi affermi il contrario ripeteremo il detto del Redentore: «Beati i poveri di spirito, poichè il regno dei cieli è per loro.»

Tra gli Indiani del Ciacco che conservano qualche tradizione della catechizzazione sofferta dai Missionari, si usa una cerimonia, forse la unica religiosa, che parodia una funzione cristiana. Di tanto in tanto si riuniscono le donne da una parte, e gli uomini da un’altra attorno ai loro anziani e caporioni. Nel mezzo, tra un mucchio di fiori pongono un ahót, un bambino futuro stregone: e intanto parlano, fumano, bevono, finchè si sciolgono dicendo di essere stati a messa. Gli stregoni non mancano di conversare col Dio Bambino, di levarne responsi e di comunicarli.

In questa come in altre cerimonie il brucio, o bruco (così in alcune parti di Toscana si chiamano gli stregoni, che in castigliano si dicono popolarmente brujos) sempre si china, si tappa, parla alla terra, dove sotto sono gli ahót, parla con voce naturale e si risponde con una voce o acuta o profonda, sempre alterata secondo il carattere dall’ahót, e la ciurma crede che sia davvero l’ahót che risponde, non accorgendosi che è un giuoco di ventriloquio.

Si vede che la impostura non ha aspettato le religioni rivelate per pigliare a gabbo i gonzi. [p. 132 modifica]

Le traveggole del fanatismo, e non dico dell’ignoranza, hanno fatto vedere il battesimo cristiano misteriosamente comunicato, nell’uso tra i selvaggi ab antiquo di lavare i corpi dei neonati tal uso è dovuto a nient’altro che al bisogno di pulire il corpicino della creatura, ricoperto appena nato di uno strato muccoso.

Ho citato più volte gli stregoni per dire che sono gli intermediari tra gli ahót e i vivi. Essi sono anche i medici: anzi sono i preti, e ora dirò perchè appunto sono medici.

L’associazione della religione alla medicina sembra un fatto costante presso i popoli primitivi e presso il volgo delle società civili attuali. E tal fatto non manca di ispirare riflessioni filosofico-storiche. È poi certo che esisteva presso i popoli selvaggi d’America, secondo gli storici: ed anzi Oviedo vi chiama sopra l’attenzione quando trovò quel fatto nella Spagnuola: e Robertson, lo storico così sobrio e acuto dell’America, lo spiega in poche parole quando dice: «La superstizione nella sua forma primitiva ebbe per principio la impazienza naturale nell’uomo di liberarsi da un male presente, e non il timore dei mali che lo aspettavano in una vita futura, di modo che fu innestata originariamente nella medicina e non nella religione.»

Bisogna dire però, che poi la religione ne fece suo pro e che se ne risente ancora, dimostrando con questo l’affinità che vi ha. E tra noi, moltissimi che prestan fede alle streghe e ai bruci, credono questi non solamente bravi curatori di mali, ma attribuiscono tale abilità al loro commercio con esseri invisibili della stessa risma. Son note a tutti le tragedie plebee e ufficiali che hanno accompagnato e accompagnano tutto di tale superstizione, che ci riaccoppia proprio ai nostri fratelli selvaggi.

Presso questi Indiani io non ho trovato che la loro supertizione si colleghi a fatti crudeli, e non ho letto che altrimenti fosse tra gli altri selvaggi americani. Il privilegio delle crudeltà sembra sia esclusivo delle religioni.

In fatti: qua nel nuovo continente, i Messicani, i Bogotiani [p. 133 modifica]e gli stessi Peruani, che possedevano una religione in tutta regola (quella degli astri e di alcuni idoli), si compiacevano in atti crudelissimi propiziatorii delle loro Divinità, a cui sacrificavano vittime umane. Anzi dei Messicani si sa perfino il numero delle vittime immolate in alcune epoche. Così Las Casas, tanto pietoso verso gli Indiani, di cui cercava sempre attenuare i difetti, ci dice nondimeno che le vittime sacrificate al Dio Messicano Huitzlopotolili erano non meno di 20 000 all’anno, e che nella inaugurazione del gran tempio del Messico, una generazione prima della conquista, furono immolati 80 400 uomini. Tascala, Ciovula, e Hetzotziaco, repubbliche ai confini dello Impero messicano, avevano di accordo con questo segnato alle frontiere una zona, dove tutti gli anni si guerreggiava per far prigionieri, possibilmente senza ferirli, e giovani, da sacrificarsi dopo ingrassati.

Nel Perù fu Manco Capac, che secondo Garcilasso de la Vegadistrusse i sacrifizi umani: nondimeno, secondo Acosta, nelle ricorrenze solenni si sacrificavano fanciulli da 4 a 10 anni, e secondo lo stesso Garcilasso, mitigatore dei costumi dei suoi avi, nella Pasqua del Sole chiamata Rajmi, che veniva dopo il solstizio di giugno, si distribuiva alla mensa imperiale lo Zancú, pane di farina di mais impastato dalle loro monache (Acglia) con sangue tratto dalla fronte e dalle narici di fanciulli.

E tra noi, non principiamo dal sacrifizio d’Isacco che, sia come si voglia, è un padre che lo sacrifica al suo Dio che glielo chiede? e la figlia di Jefte sacrificata al Dio della vittoria contro gli Ammoniti? E Agag il re degli Amaleciti, prigioniero di guerra sacrificato al Signore dalle mani stesse del Gran Sacerdote Samuele? E i Sacerdoti Babilonesi di Belo che lanciavano i fanciulli nell’idolo rovente? E il re di Moab che sacrifica suo figlio agli idoli per liberarsi dall’assedio degli Ebrei?

E come segni dei tempi, abbiamo Ifigenia la figlia di Agamennone sacrificata; e Curzio che si getta nella voragine. [p. 134 modifica]

E che è mai il Redentore che ha bisogno di essere crocifisso per propiziare Dio all’Umanità?

E che sono i digiuni, i cilizii, le penitenze, tutto il corredo delle mortificazioni necessarie per calmare l’ira di Jehovah?

E domando: se un conquistatore sceso da un altro mondo, avesse veduto gli autos da fé religiosi di quattro secoli fa, son certo che gli avrebbe presi per tanti sacrifizi messicani?

Sì, in verità, la crudeltà è il privilegio delle religioni, e ne traggono, principalmente, dal loro formalismo i motivi e dai Governi la forza.

Ma quel giorno in cui, nei Governi e nella Società la Filosofia soppianterà il Dogma e che il Culto sarà sostituito dall’adesione, tutta interna, della Coscienza ai Veri riconosciuti dall’Intelletto, o intuiti dal Pensiero, quel giorno spariranno dalla Società umana il danno e l’infamia delle crudeltà religiose.

Quel giorno l’Umanità, superati i marosi delle idolatrie, delle incarnazioni, dei dogmi; raggiunta la riva dell’Impero Umano; superba del suo intelletto ingrandito, fatto robusto e sicuro dalle prove sofferte; lieta dell’avvenire di amore, di lavoro e di pace che le starà dinanzi; guatando l’onda perigliosa, scorgerà l’altra sponda dove giovanetta, ignara ancora delle lotte della vita inasprite dalle sottigliezze della mente corruttrici dei cuori, menava l’esistenza infantile non tormentata dalle ire degli Dei. Ancora comprenderà, che la semplicità dava spontanea quella tolleranza e quella pace che allora le detterà la saggezza appresa tra mezzo a diuturne, millenarie, feroci lotte e ne trarrà argomento a riconoscere la propria virtù ingenita continua, e risorta cosciente di sè, garante del nuovo avvenire, dell’avvenire virtuoso e glorioso della Scienza.




Note

  1. Qua gente in ispagnuolo serve tuttora ad esprimere, nell’interno, le persone per bene. E significa lo stesso, e ancor più, la parola decente.