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Poesie (Parini)/IV. Cicalate in versi/I. In morte dello Sfregia barbiere

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I. In morte dello Sfregia barbiere

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I. In morte dello Sfregia barbiere
IV. Cicalate in versi IV. Cicalate in versi - II. I ciarlatani

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I

IN MORTE DELLO SFREGIA BARBIERE

O Sfregia, o Sfregia mio,
o mio dolce barbieri,
o delle barbe onor, delizia e cura:
ohimè! che farò io,
5poi che ti trasse ai regni oscuri e neri
empia morte immatura?
Vita lieta e sicura,
gli è ver, tu meni a casa di Plutone:
ove, benché sii morto,
10fai la barba ad Omero ed a Platone:
ma, lasso! qual conforto
sperar poss’ io, se piú sperar non posso
chi come te mi rada infino all’osso?
Qualor passando io miro
15la quondam tua bottega,
mi sento per l’ambascia venir meno;
traggo piú d’un sospiro;
la bacio; e tento di sfogar la frega
che ho per te ancor nel seno.
20Poi, l’amato terreno
veggendo or fatto si deserto, io grido:
— Ve son ora i trecconi

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che qui venien come a lor dolce nido?
e gli sgherri e i baroni
25che i sabbati partien con alti e spessi
segni del tuo valore, o Sfregia, impressi
Que’ fortunati istanti
che ’nteso eri al lavoro
tornanmi a mente come fosser vivi.
30Farmi averniiti avanti
tal quale io ti vedea rader coloro
che prima erano quivi.
Come di senso privi
rimangon gl’impiccati in mano al boia,
35tal si vedeano questi
sotto al ferro svenir per la gran gioia.
Chi alle sfere celesti
per la dolcezza i lumi ambo volgea;
chi sospirava; e chi i denti strignea.
40Una mattina intera
non avev’anco atteso,
quando tu m’invitavi al dolce intrico.
Una scranna quivi era
che avea per ben due secoli conteso
45col tempo suo nimico.
Parea di verde antico
al sol sentirla: e tratti avea si fini
che a chi vi s’appoggiava
giva facendo mille dolci inchini:
50ma ritta poi si stava
si tosto che tu provvido mettei
sotto una bietta all’uno de’ tre piei.
Mi v’acconciavo sopra,
poi che il mio buon destino
55avea vi alfine il bilico trovato.
E tu la nobil’opra
incominciavi con un pannolino
che molto era stimato;

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imperocché Pilato
60l’usò quel di che si lavò le mane;
e da quel giorno in poi
non avea visto mai laghi o fontane.
Tu con que’ diti tuoi
questa reliquia cosí rara e sola
65tra ’l collar conficcavimi e la gola.
Si tosto, al collo intorno
cominciavo a sentire
certo soave insolito prurito;
segno, piú assai che ’l giorno
70chiaro, di quel che poi dovea seguire
gran piacere infinito.
Un popolo smarrito
quest’era d’animai vaghi e giocondi,
che da quel panno allora
75trasmigravano insieme a novi mondi;
e questo avanzo ancora
teco io facea, che quelle bestiuole
ne venien meco a crescer la lor prole.
Di stagno un bacinuzzo
80poi m’accostavi al mento,
che arnese non fu mai piú di quel ghiotto.
D’un peregrino puzzo
tutto spirava e di fuora e di drento,
che al naso facea motto.
85Da un lato era un po’ rotto:
e di quivi, nel mezzo al mio diletto,
scendea l’unto odoroso
misto col ranno a profumarmi il petto.
Muse, per me non oso
90dir di quel che seguia quanto conviene;
aiutatemi voi a dirne bene.
A dir quasi m’impaccio
come, o gentil barbiere,
tu m’impiastrassi di sapon la guancia.

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95Pria sfoderavi un braccio
ch’avria quel d’Esali latto parere
un nonnulla, una ciancia.
Di color verde e rancia
poscia una spuma, che pareva gnocchi,
100pigliavi; e a larga mano
le labbra m’infardavi e il naso e gli occhi.
Ahi, che piacer sovrano!
Quasi, come a Rugger, dicer mi tocca
che spesso io avea piú d’un tuo dito in bocca.
105Le stagion rovesciare
a te giá non piaceva,
com’usan certe frasche a questa etate;
anz’il verno agghiadare
facevane il tuo ranno, e ne coceva
110quand’egli era la state.
Ma poi ch’ambe impeciate
m’avei le guance, tu mi sciorinavi
un cencio su una spalla
ov’era il pel di tutti e sette i savi;
115anzi parea una stalla,
anzi un serraglio a i tanti ivi dispersi
verdi peli sanguigni oscuri e persi.
Oh che dolcezza, quando
alfin sopra ’l mio viso
120pigliavi a dimenare il tuo rasoio!
Solo a quel ripensando,
che tante volte ha me da me diviso,
non so perch’io non muoio.
Sur un limbel di cuoio,
125prima d’avvicinarsi agli altrui menti,
quel ferro almo e gentile
giva piú volte a ripulirsi i denti:
poscia, in un atto umile,
quasi fanciul che tema ha del pedante,
130tremando s’accostava al mio sembiante.

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Or chi può dire in carte
siccome a me la pelle
soavemente con le man stirassi?
e con che nobil’arte
135di mezzo giorno a rimirar le stelle
pel naso mi guidassi?
Perché ’l piacer durassi,
a lento passo ivi di loco in loco;
e con l’arme sospesa
140ad ogni pel tu ti fermavi un poco.
Ma al fin dell’alta impresa
giacean sul volto mio, per tuo gran vanto,
lá sradicato un pel, qui rotto e infranto.
Ma pazzo è da legarsi
145chiunque tenta il calle
di tue gran lodi, e ci riesce male.
Chi a te puote uguagliarsi
o in ispianar collina, o in aprir valle
sul viso ad un mortale?
150Oh come al naturale,
poi che parlar di guerra amavi molto,
del campo o dell’assedio
lasciavimi la carta impressa in volto!
Oh come poi rimedio
155di carta straccia ovver di ragnateli
portavi al solco ond’eran svelti i peli!
Aimè, destino avaro!
Ahi perché cosí presto,
mio Sfregia, a viver col Burchiello andasti?
160Quel tuo violin caro,
che tutto il vicinato tenea desto,
perché non ne portasti?
Ahi non la indovinasti;
ché se Pluton t’udiva o Proserpina
165sonar si stranamente,
qui facevi la barba domattina:

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e disperatamente
oggi gridando non andrebbon «ahi»
tutti i tuoi sconsolati bottegai.
170Canzon, s’egli ancor vive,
vanne, e gli di’ che se ne moia tosto,
acciocché ’nvano io non t’abbia composto.