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Poesie (Parini)/V. Terzine/VI. Lo studio

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VI. Lo studio

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V. Terzine - V. La maschera V. Terzine - VII. Il teatro

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VI

LO STUDIO

Satira.

     Un di costor che per non esser sciocchi
su’ libri stan colla sparuta faccia
logorandosi ognor cervello ed occhi,
     spesso mi dice: — Amico, ornai ti piaccia
5dirmi ’l perché, se cosí folto è ’l mondo,
poco è lo stuol che i dolci studi abbraccia?
     Ha forse in questa etade a gire al fondo
il letterario onor, che ’l vulgo indotto
tien lontan da un ingegno alto e fecondo? —
     10Io gli rispondo allora: — Esser si ghiotto
di libri non si vuol; ché piú sovente
il gran libro del mondo altrui fa dotto.
     Leva le luci ornai consunte e spente;
pon sul naso gli occhiali; e intorno guata,
15guata che fa la sconsigliata gente.
     Parti che tra costor che all’impazzata
seguono i crocchi e l’oziose tresche
trovar debba il saper stanza adagiata?
     Oppur tra quei che de’ clienti all’esche
20uccellan solo; e, se non fa a lor modo,
anco al buon Giustinian dán delle pesche?
     Oppur con quelli che tra ’l piscio e ’l brodo,
interpreti a rovescio d’Ipocrasso,
alla fortuna lor fissano il chiodo?
     25Sai chi sta ben con essi? Il babbuasso:
ma un ingegno immortai dal loro albergo
ah lontano, per dio, rivolga il passo! —

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     Forse d’amaro fiel gli scritti io vergo?
Verghinsi pur gli scritti; a me che importa,
30se all’onesto ed al ver non volto il tergo?
     Vanne, Filosofia, povera e smorta;
ma fa che ’l tuo baston giá mai non batta
allo sportel d’un’elevata porta.
     Piú non ritorna quell’etá siffatta
35in cui le filosofiche bigonce
la maestá degli Alessandri han tratta.
     Chi t’inuggiola il cor con cose sconce,
e scritte in uno stil degno di remi,
questi a libbre abbia l’ór, non pure ad once.
     40L’Aretino animale ognor si premi;
ma il Franco povere!, che sa qualcosa,
soltanto aspetti il paretaio del Nemi.
     Come addunque potranno e versi e prosa,
o vuo’ tu la spiantata o vuoi la ricca
45gente rendere in un chiara e famosa?
     — lo,—con volto seren dice lo Sbricca,
— convien che ’l tempo e le sostanze io libri
fra teatro e corteo e bisca e cricca. —
     Soggiunge un altro: — E d’uopo è ch’io delibri
50di non beccarmi piú il cervel cotanto;
ch’io non ho pan, s’io non rosecchio i libri. —
     Il grasso Sbricca, e quel meschino intanto,
l’uno per poco aver, l’altro per troppo
lasciano i sacri studi ognor daccanto.
     55O Italia, Italia! e perché mai si zoppo
torna quel secol d’ór che ratto andonne,
come un destrier che corra di galoppo?
     Aranno ingordi mimi e le lor donne
quel che dièr Mecenate e ’l buono Augusto
60a que’ giá di saper ferme colonne?
     Che strana infermitá t’ha guasto il gusto,
o piuttosto il cervel, che J’òr tu gitti
lunge cosí dall’uso tuo vetusto?

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     I giorni di Neron forse prescritti
65ácci puranco il ciel, quando in teatro
si stavano i roman si intenti e fitti;
     e in vista del lor danno immenso ed atro,
alla voce s’udia d’un castroncello
tutto applaudire il popolo idolatro?
     70Ella mi fuma, e rodomi, e arrovello,
veggendo i ruspi ornai gettarsi a carra
dietro al vile ragliar d’uno asinelio:
     e a chi si sta la fantasia bizzarra
stancando ognor colla sospesa penna
75negarsi infino un quattrinel per arra.
     Manco male però che la cotenna
non grattan giá per accattarsi un marco,
ma perché un bel desio lor l’ale impenna:
     un bel desio di gir sublime e scarco
80su per la via d’onor diritta e franca
che non adduce altrui di Lete al varco.
     Ma che fará la giá spossata e stanca
schiera gentil, se, poiché ’l pan piatisce,
il desco della gloria anco le manca?
     85Odi ser Busbaccon che ancor putisce
d’unto di buoi; e dallo aratol tratto
a la rustica treggia il cocchio unisce;
     e’ dice che coloro han ben del matto
che per isquadernar qualche libraccio
90e resto e saldo a’ lor piaceri han fatto.
     E ’l ricco, e ’l poverello, e ’l popolaccio,
e chi vien dalle costole d’Adamo,
tutti di dirne mal tolgons’impaccio.
     L’uno dice che noi, còlti a quell’amo
95di sentirci lodar ben da parecchi,
ciò che piú ne fa d’uopo andar lasciamo;
     insino a’ pesciaiuoli, a’ ferravecchi,
e que’ che stanno a venderci la trippa
fannone un chiasso da intronar gli orecchi,

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     100e la Cesca e la Nencia e la Filippa
sannoti dir, sbarbando la conocchia,
che dimagra il poeta, e non istrippa.
     Se tu ne vai per via, ognun t’adocchia,
e fa motto al compagno, perch’e’ guati
105uno ch’ha la pazzia per sua sirocchia.
     E infine odi gridar da tutti i lati,
che ’l volere studiar lettere umane
egli è appunto un mestier da sfaccendati;
     che voglionsi lasciar cose si vane;
110e che a fama immortale e non oscura
dèssi anteporre il procacciar del pane.
     Cosí contro di noi le bocche stura
la turba di color che a’ giorni nostri
hanno posta nel fango ogni lor cura.
     115A bestiacce malvage, a feri mostri
destina intanto il volgo, e a gente trista
i belli applausi e i lodatori inchiostri;
     a un bacchetton che pare un santo in vista,
e bindoli fa poi degni di forca
120con un empio pensar macchiavellista;
     a un dottorello che le leggi storca,
onde poi coll’altrui se ne va in cocchio,
e polli e starne alla sua mensa inforca;
     anzi a un tinto musin che, con un occhio
125che mover non si può dentro alla biacca,
l’anima infilza al guardator capocchio.
     Quale stupor però se ognun si stracca
dello studiar, poiché niun premio trova,
e non ha chi lo stimi una patacca?
     130e che la bile che nel sen mi cova
bullichi alfin, e poi sciolta in rimbrotti,
qual da pentola umor, trabocchi e piova?
     Maraviglia ben è che sien si cotti
alcuni di studiar, benché la sorte
135mai sempre incontro a lor le ciglia aggrotti;

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     e che ci sia un drappel cui sol conforte
il suo valore; ond’ei, come in un vallo,
contro al furor del secol si tien forte;
     sicché te, o Italia, che al tuo onor vassallo
140e in arme e in toga il mondo tutto avesti,
or non beffeggi il prussiano e ’l gallo.
     Segui, onorato stuol, le vie ch’or pesti;
e ad onta ancor della spilorcia etate
sostien tu Italia onde il natal traesti.
     145E tu, platano illustre, alle cui grate
ombre pur or novellamente io seggo,
per acquistarmi anch’io nome di vate,
     ergi i tuoi rami ognor; ché, s’io ben leggo
nello avvenir, de’ valorosi insubri,
150sotto un astro men reo, la fama io veggo
     volar dagli arimaspi ai liti rubri.