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Poesie (Parini)/V. Terzine/VII. Il teatro

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VII. Il teatro

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V. Terzine - VI. Lo studio V. Terzine - VIII. Al canonico Candido Agudio

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VII

IL TEATRO

Satira.

     Or ecco il carnesciale; e in qual de l’anno
stagione (o Musa mia, io parlo teco)
spropositi maggior gli uomini fanno?
     Bacco or va intorno; lo spumoso greco
5ne l’agita bollendo: e il sen gli sferza
Vener che ignuda e calda il figlio ha seco.
     Seguelo il volgo trionfante, e scherza.
Scherzi il volgo profano; e noi frattanto
de’ satirici carmi opriam la sferza,
     10Ma a chi volgerci in prima, od a qual canto,
s’aizzan tutti, or che ciascuno impazza,
l’aspro ridente venosino al canto?
     Entrerem noi su l’ondeggiante piazza
a veder le magnanime tenzoni
15dell’insubre di Brenno inclita razza?
     Briarei i fanciulli e Gerioni
fatisi a raccor la pubblica treggea,
ch’è in vece d’arme ai fervidi campioni.
     Ma noi non giá della pazzia plebea
20frustiam le spalle: andiam lá ’ve s’aduna
e la ricca e la nobile assemblea.
     Andiancene al teatro: oramai l’una
ora è di notte: quivi il carnesciale
gli spropositi suoi tutti raguna.
     25Odi ’l romor de’ cocchi universale
che van precipitando in vèr la corte
dal cocchier spinti e dal padron bestiale.

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<poem>

    Eccoci del teatro in su le porte:

vedi ’l portier con minaccevol fronte, 30ché le pubbliche lance il rendon forte.

    Non parti ’l ceffo del crudel Caronte

che l’obolo a le vòte anime chiegga su la riva de l’ultimo Acheronte?

    Entriam; ma fa ben poi che tu ti regga

35incontro all’ira; e il periglioso a dire sol nel volto sdegnoso altri ti legga.

    Entriam dopo costui, che tanto a uscire

sta di carrozza, e seco al fianco válli l’altrui moglie ch’egli ha tolto a servire.

    40II marito aspettando a casa stalli;

e de la mellonaggin del marito ridono i consapevoli cavalli.

    Stimasi oggi un error d’esser punito,

non che da tinger per rossor le guance, 45veder lo sposo a la sua moglie unito.

    O Astrea, o Astrea nimica delle mance,

che sei scappata di quaggiuso al cielo per non avere il tratto alle bilance,

    scendi or di nuovo; ché non pure il pelo

50cangia il mondo alla fin; ma tuttavia cacciane i vizi di virtú col telo.

    Quella peste chiamata gelosia

pur se l’è colta; e l’adulterio atroce sen fugge ornai per la medesma via:

    55però che all’uom piú non incresce o nuoce

sopra gli altri apparir con quel cimiero ch’ebbe a’ tempi piú rei si mala voce.

    Ma giá siam dentro, o Musa: il bel severo

contegno verginal pon giú e spalanca, 60benché cosí modesta, i lumi al vero.

    Vedi qual ampio sorge a destra e a manca

edificio sublime: il fulgid’auro del vario ordin de’ palchi il guardo stanca. [p. 146 modifica]

     Vide appena Quirin tanto tesauro
65sparso ne’ suoi teatri, allor ch’edile
fu di Siila il figliastro Emilio Scauro.
     Forse per udir qui l’ornato stile
di Tullio e di Maron credi che stretta
stia tanta femminil turba e virile?
     70Musa non giá. Qui sol, Musa, s’aspetta
un fracido castron che a’ suoi belati
il folto stuol de’ baccelloni alletta.
     Ecco s’apre la scena; ecco dai lati
Utica s’erge: e in faccia al suo periglio
75esce il fiero Caton con pochi armati.
     Se gli scorge sul volto il gran consiglio;
e la cadente libertá di Roma
tutta gli siede in sul rigido ciglio,
     Cesar ne vien che la superbia doma
80vuol di costui: pur se gli legge in viso
qual sostenga di cose altera soma.
     Ma tu, Musa, pur vuoi scoppiar dal riso
al mio parlar, veggendo ad amendue
di biacca il muso e sobillato intriso.
     85Conterresti però le risa tue,
stu vedessi la Lisa spettatrice
che ha ’l corpo a gola e portane almen due:
     onde il rigor de’ roman volti or lice
co’ mini ornar, perché atterrito il sangue
90non le corra con urto alla matrice.
     Però vedrai Caton fra poco esangue
cantar morendo. Il popol tenerino
troppo a le doglie altrui s’agita e langue.
     Che importan leggi al poeta meschino,
95purché quel poco alfin vada buscando
che avanza a Farinello e a Carestino?
     Ma vaglia il vero, o Musa, or come, or quando,
fu serbato il decor meglio e ’l costume,
se gl’impavidi eroi muoion cantando?

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     100Piace a Cornelia vecchia il succidume
del sopran floscio; e lodalo a la figlia
con quanta ella può mai forza ed acume:
     ma la figlia vuol altro: ella si appiglia
dell’amante alla destra, e l’empio foco
105tremulo le balena in su le ciglia.
     Ella sente scaldarsi a poco a poco,
e stuprator della giá salda mente
fansi gli obbietti, il suono, il canto e ’l loco.
     Ved’ella giá nella platea fervente
110sconosciute arrivar donne e donzelle
giunte co’ vaghi lor procacemente.
     Dan le maschere ardir: sotto di quelle
frate Uguccion, che dal convento scappa,
copre il rossor di pizzicar le belle.
     115E, mentre per veder chi’l cor gli arrappa,
levas’in piedi, e con chi è dopo alterca,
casca improvviso al poverin la cappa.
     Ben di raccorla in un baleno ei cerca;
ma giá tutto fischiando il gran teatro
120vede apparir la mascherata cherca.
     Musa, dirá talun che di tropp’atro
fiele ingombro i miei versi; ed ei sei dica;
ciò sol m’incresce che a la luna io latro.
     E chi si duol della salubre ortica?
125Solo il cui vergognoso; e cosí i tristi
alle punture altrui montano in bica.
     Debb’io tacer però che spesso misti,
anzi allacciati in un con Clori e Fille
i vezzosi abatin giugner ci ho visti?
     130e grondar tutti d’odorose stille
co’ manichetti candidi d’Olanda,
e i ricci in su la testa a mille a mille?
     La veritá vuol ir per ogni banda;
e correttrice satira non ave
135riguardo al servo, o a quel pur che comanda.

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     Ben ride dello sparmio lungo e grave
della moglier del Gisca refaiuolo
sol per comprar d’un seggiolin la chiave;
     ma s’arma d’un acuto punteruolo
140contro a chi, per aver palchetti e cocchi,
fa di sé stessa abbominevol noio.
     E chi rattiemmi si ch’io non iscocchi
contro agli avari diversori un motto,
ov’è piacer sovente altro che d’occhi?
     145o contro all’esecrabile ridotto,
laddove un uomo ricco sfondolato
sur una carta spiantasi di botto?
     Per Dio! meglio saria, Musa, ch’entrato
io non ci fossi mai, però ch’io trovo
150materia da miei versi in ogni lato.
     Ben vedi quante qui, come in lor covo,
si stanno scelleraggini raccolte.
Ma non cerchiam di grazia il pel nell’uovo:
     ridiam soltanto delle varie e folte
155maschere che co’ lor strani capricci
par che dato al cervello abbiati le volte.
     Quanti vedrai spropositi massicci!
quanti birboni avviluppati in ostri!
e in pelle di lione oh quanti micci!
     160Ma bene sta che fuor non ne dimostri
l’abito il cor; poiché troppo gran parco
noi vedremmoci aver d’orridi mostri.
     Del poeta ridiam, che fatto un arco
ha della bocca, e gonfi ha gli occhi appunto
165qual chi di troppo duol cede all’incarco.
     Ei leva ambe le mani e ’l viso smunto
al ciel pietosamente; e cosí esclama:
— Odi, Apollo, il tuo servo ornai consunto!
     Dunque tu crei, per adempir la brama
170sol de’ canori sozzi avidi lupi,
la tua possente ognor fulgida lama?

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     Per lor nelle montagne agli antri cupi
fai forza col tuo caldo, e sol per loro
v’indori co’ tuoi raggi e massi e rupi.
     175Sproposito! gittar tanto tesoro
in grembo a certa gente, Apollo mio,
ch’ogni sua gran virtú posta ha nel foro
     della gola. Non piú ci reggo; addio,
addio, o Musa! —E quando piú esecrandi
180detti e piú sciocco favellar s’udio?
     Bestia! Non sa che l’ór, le vesti e i prandi
premi del volgo son che ha il viver corto,
e che vivon d’onor l’anime grandi?
     Non sa che il nostro mondo oggi è si torto
185che a drizzarlo dal posto ov’ei si siede
non basterebbe l’argano piú accorto
     di quel gran matematico Archimede?