Poesie (Parini)/VIII. Sonetti/II. Sonetti non datati/Sonetti di vario argomento

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Sonetti di vario argomento

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II. Sonetti non datati - Sonetti per nozze IX. Canzonette

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SONETTI DI VARIO ARGOMENTO

CX

PER UN NEODOTTORE IN LEGGI

     E dove, o Temi, per l’aereo vano
vai le bilance dietro strascinando?
e guardi bieca, sol di quando in quando,
questa terra che lasci, di lontano?
    Deh non fuggir! Mira il poter sovrano
che, sfoderato a tua difesa il brando,
scaccia le arpie, di sangue avide, in bando,
e generoso a te stende la mano;
     mira il giovin che, or or cinto d’alloro,
viene al tuo tempio e, novo sacerdote,
offre adulto consiglio e pensier santi:
     e giura che, insensibile qual cote,
pria che tradirti a speme a tema o ad oro,
verserá il proprio sangue a te davanti.

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CXI

PER UN NUOVO VESCOVO

     Signor, tra i fasti onde piú sorge altera,
vanta la fé di Cristo i tuoi grand’avi
che in remote contrade e in mezzo a gravi
onde e perigli la serbáro intera.
    Ma da te, seme lor, quanto non spera,
poi che di sagra mitra il capo or gravi,
e il popol con gli esempi e co’ soavi
detti riduci a pietá saggia e vera?
     Ah ben nascer dovea da tal radice
il nobil fiore, onde spirasse intorno
odor di santitá puro e felice,
     or che di Cristo sul bell’orto adorno
funesta e di veleno apportatrice
aura si spande a fargli danno e scorno!

CXII

LA DUCHESSA SERBELLONI OTTOBONI

al figlio Gian Galeazzo che si trova a Roma.

     Mentre fra le pompose urne e i trofei,
figlio, t’aggiri onde va il Tebro altero,
l’ombre forse vedrai de gli avi miei,
ch’ebber qui primi gradi o sommo impero.
    Ah! se, ammirando i tuoi costumi bei,
di te mai chiede od Alessandro o Piero,
non celar la mia gloria; e di’ che sei
nato di me, lor sangue, in suol straniero:
     e di’ ch’io non raccolsi altro che i danni
di loro alta fortuna, ond’ebbi assorto
in fiere doglie il cor molti e molt’anni;
     ma che alfin, dal tuo amor guidata in porto,
io vivo; e dolce ho de i passati affanni,
sol ne la tua virtú, premio e conforto.

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CXIII

TEMI DATI AD UN IMPROVVISATORE

2. — L’estro.

     Qual cagion, qual virtú, qual foco innato,
signore, è quel che la tua mente accende,
quando ogni cor dai versi tuoi beato,
da’ labbri tuoi meravigliando pende?
    È spirito? è materia? è Dio, che scende
l’una e l’altro agitando oltre l’usato?
Come l’estro in te nasce? e come stende
in noi sue forze imperioso e grato?
     Tu l’arcano ch’io cerco esponi al giorno:
e mentre il ver da le tue labbra espresso
splenda di grazie e di bellezze adorno,
     crederò di veder, lungo il Permesso,
fra il coro de le Muse accolte intorno,
parlar de le sue doti Apollo istesso.

CXIV

2. — Il lamento di Orfeo.

     Qual fra quest’enne, inculte, orride rupi
che han di nevi e di ghiaccio eterno manto,
echeggiando per entro a gli antri cupi
s’ode accostar melodioso pianto?
    Ah ti conosco al volto, al plettro, al canto,
giovin di Tracia, che il bel core occupi
sol di tua doglia; e d’ammansare hai vanto
gli uomini atroci e gli stessi orsi e i lupi.
     Deh un momento ti arresta; e il caro oggetto
come perdesti, e gl’infortuni tui
canta; e ne inonda di pietade il petto.
     Qui baccanti non son; ma ninfe, a cui
l’alma è gentile, e piú d’ogni altro affetto
è dolce il palpitare a i casi altrui.

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CXV

CONTRO GLI APPALTATORI

     Che vale ormai sulle erudite carte
impallidire ricercando il vero?
Che vai seguir d’Astrea la nobil arte,
e serbar delle leggi il santo impero?
    Che vai esporre il petto al dubbio Marte
e sotto l’elmo incanutir guerriero?
Che vai fidar la vita a vele e sarte,
del mar solcando l’infedel sentiero,
     quando sol la virtú deserta langue,
e’1 vizio esulta fra le gemme e gli ori?
Che vai scienza, onestade e sparger sangue,
     quando il vii pubblican, co’ rei tesori
che di bocca strappò del volgo esangue,
s’erge dal fango a profanar gli onori?

CXVI

LICORI PARAGONATA A CLARISSA HARLOWE

     Poiché, compiuto il diciottesim’anno,
d’un infelice amor vittima giacque
l’alta eroina che soverchio piacque,
per sua sventura, al seduttor britanno,
    pietoso il cielo del comune affanno,
cotanto al mondo quella morte spiacque:
— Ma poi che questa al suo destin soggiacque,
sorga, — diss’ei,—chi ne compensi il danno;
     sorga nel basso suol, sorgane alcuna
che, saggia al par di lei, ma piú felice,
abbia la sua virtú, non la fortuna;
     sorga, s’affretti; e il secol nostro ancora
vegga risorta in lei la sua Clarice. —
Disse, o Licori, e tu nascesti allora.

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CXVII

LA MADRE MORTA

vien dal cielo e trova il figlio affidato alla matrigna.

     D’Adria l’estinta sposa in bianche vesti,
notte coprendo il mondo opaca e nera,
entrar fu vista, ed al fanciullo in questi
sensi far vezzi, tra pietosa e altera:
    — Figlio, ché pur mio figlio esser dovresti,
se noi toglieva morte, o se non era
che a te, che di tua patria onor nascesti,
forse non convenia madre straniera,
     vivi, o figlio, felice: il caro padre, —
e in ciò dir pianse e se lo strinse al seno, —
fa di te lieto, e la gentil tua madre.
     Tu questi imita; e, s’altro non poss’io,
al ciel ritorno ad impetrarti almeno
gli anni ch’eran dovuti al viver mio. —

CXVIII

UN VEDOVO E SUA FIGLIA

     Mentre sul freddo letto ancor giacea,
piena il viso di morte, e gli occhi spenti,
su l’una sponda assisa a lei stendea
la figlia, ignara ancor, palme innocenti.
    Muto dall’altra il genitor volgea
or su questa or su quella i rai piangenti;
poi, scosso al fine: — Oh figlia mia, — dicea,
— che il danno tuo, che il mio dolor non senti,
     a che cerchi la madre? a che la mano
stendi ai gelidi avanzi? In Dio, giá sciolto,
fuggi lo spirto, e tu lo chiami in vano.
     Deh non seguirla, o figlia; e al mesto padre,
in parte almen, nelle virtú, nel volto,
rendi un giorno, se il puoi, rendi la madre! —

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CXIX

AL PITTORE ANDREA APPIANI

che gli aveva fatto il ritratto.

     Tu pingesti il mio volto, e nello sguardo
tutto esprimesti il creator pensiero,
che nella mente irresoluto e tardo
sempre s’arresta a rintracciar il vero.
    Pingesti il labbro, ove albergar gagliardo
udisti ognora il ragionar sincero,
né chiuse mai, simulator codardo,
bassa lusinga o riso menzognero.
     Pinger però non ti fidasti il core,
perché il credevi, in sue latebre stretto,
troppo ascondersi all’occhio indagatore;
     eppur, se di ritrarlo avrai diletto,
cercalo in te, ché, con eterno amore,
stassi unito col tuo, dentro il tuo petto.

CXX

AGLI ENDECASILLABI

     Endecasillabi, voi non diletti
cercar le veneri de’ prischi versi:
tali d’infamia turpe cospersi
no non si vogliono trattar subbietti.
    I duo Valerii laidi e scorretti
sien cari a gli uomini nel vizio immersi:
ma voi serbatevi ben puri e tersi,
a i dabben uomini sempre diletti.
     Gli esempi veteri sol ne la colta
forma s’imitino; ma in altro questi
no non si vogliono seguir per nulla.
     Sol io concedovi parlar talvolta,
ma con vocaboli e detti onesti,
di qualche tenera gentil fanciulla.

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SONETTI

CXXI

PER CARLO IMBONATI (?)

     Garzon bellissimo, a cui con gli anni
crescon le grazie, cresce il vigore,
tal che con Venere tu sembri Amore,
e sol ti mancano la benda e i vanni;
    ah! il tuo buon genio da i folli inganni
te de lo spirito guardi e del core,
e su per l’arduo sentier d’onore
a grandi movati sublimi affanni.
     Cosí, nel riedere, questo bel giorno,
o sii tu giovane o adulto o veglio,
ognor piú vedati di pregi adorno;
     e l’altro secolo, serbato al meglio
di tue bell’opere, a te dintorno
di tue bell’opere si faccia speglio.

CXXII

IN MORTE DEL CURATO CIOCCA

     No che non eran mani, eran crivelli
con tanto de boggiatter quij soeu man,
né scuoter le dovean i poverelli,
per fá che passas sgiò on quaj tocch de pan.
    Egli medesmo a prò’ di questi e quelli,
su par i scar de legn, fina al quart pian,
portava loro gravidi fardelli,
tappasciand da on eoo all’olter de Milan.
     Nulla per sé, nulla di proprio avea;
quel poch ben da cá soa e dell’altar
tutto co i poverelli ei dividea.
     Oh per che non passaron per sua mano
tane dobbel impesaa in di sgriff di avari
Quanti miseri meno avria Milano!

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CXXIII

IN LODE DEL MINISTRO PLENIPOTENZIARIO

CONTE CARLO FIRMIAN

     Ponendo con amor leggi alle genti,
preme Carlo il sentier che a gloria mena;
e sceso a invigorir sue brame ardenti,
parte in lui del divin raggio balena.
    Però tra ’l dir ch’altri lusinga o frena,
le avare ei scopre ambiziose menti;
e sulla ad arte altrui fronte serena
legge i foschi pensieri a fraude intenti.
     Merto o Virtú neglette, ecco i di vostri
tornano alfine; or fia che ornai la dura
ignorante Superbia a voi si prostri;
     poiché l’Alcide, che l’Insubria ha in cura,
salvando i buoni ed atterrando i mostri,
nostra felicitá giusto assecura.

CXXIV

SUPPLICA A UN MINISTRO

     Una povera donna che si trova
senza marito con quattro bambini,
come questo attestato lo comprova
del curato Gian Carlo Filippini,
     5sa che Vostra Eccellenza molto giova
col favor, collo zelo e coi quattrini;
laonde implora che a pietá si mova
e che qualche soccorso a lei destini.
     Costei è degna di compassione;
10non ha che figli e stracci, e ha a dare
lire settantadue della pigione.

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     Il padron non fa altro che gridare,
dice che vuol danari oppur cauzione,
o che dai birri la fará cacciare.
15Il caso singolare
ha cavate le lagrime a un poeta
largo di cuor, ma scarso di moneta.
Ei, per mandarne lieta
questa povera donna, al meno in parte,
20di questi versi ha imbrattate le carte;
e per onor dell’arte
le ha detto: — Andate con questo sonetto
che in Su’ Eccellenza fará buon effetto. —
Ah signor benedetto!
25poi che vedete miraeoi si strano,
un poeta operar da buon cristiano,
deh, stendete la mano:
fate l’altro miraeoi, che un cantore
non sia, per questa volta, mentitore;
30anzi, per piú stupore,
aggiugneten un altro de’ piú rari,
fate che i versi producan danari!
E, per che ognuno impari
come nulla impossibile a voi sia,
35fate che i frutti de la poesia
or non si gettin via
nelle bische, nel vino e nei bordelli,
ma vadano in soccorso ai poverelli.

CXXV

COME NASCE L’UOMO

     Nel maschio umor piú puro un verme sta,
che poi che uscito in altra stanza entrò,
in un cert’uovo ad albergar sen va
che solo in vita mantener lo può.

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     La madre poscia in alimento dá
del sangue a lui, che in lei soverchio errò;
si ch’uom perfetto in nove lune egli ha
onde portar le brache al mondo o no.
     Ma stanco alfin di star rinchiuso piú,
squarcia il mantel che sino allor vesti,
poi ch’è rivolto colla testa in giú.
     Nicchia la madre; ed ei con mani e piè
s’aiuta, insin che ’l primo varco apri.
Cosí nasce il villano, il papa e il re.

CXXVI

IL PUTRIDUME E GLI INSETTI

     Chiunque dice che impossibil sia
che fuor del putridume escan gl’insetti,
perché non ponno uscir cosí perfetti
fuor del fastidio e della porcheria,
     5prima di giudicar l’opinion mia,
che può star fra tant’altre anch’essa, aspetti:
la quale io cavo per diritta via
da i medesimi nostri umani effetti.
     Noi veggiam, per esempio, uscir sovente
10dal fango alcun villan, che, asceso in alto,
si paragona pur col piú potente:
     e chi direbbe mai che si gran salto
facesse dalla mota, anzi dal niente,
col gioco, verbigrazia, o coll’appalto?
15e come in sur un alto
albero fa la cicala di state,
sol del suo nome assordi le brigate?
Quanti fra noi mirate
del concime uscir bruchi e canterelle
20che del ricolto non lascian covelle,

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e traggonci la pelle?
Quanti del succidume escon pidocchi,
che ne succiano il sangue e cavan gli occhi
a noi altri capocchi?
25E quant’altri animai sozzi e poltroni
nascon dal lezzo, e pelano i minchioni?

CXXVII

IL GATTO E IL VILLANO

     Il gatto andò alla casa del villano
col collo torto e molta sommessione;
gli si accostò all’orecchio, e disse piano:
— Deh prestami, o villan, la tua magione.
     5Non mi terrai nella tua casa invano,
perché col fiero dente e con l’unghione
io ti difenderò le noci e il grano
dai topi che non hanno discrezione. —
     Il villan ciò si reca a gran ventura;
10gli dá la chiave di tutti i granai,
dicendo:—Amico mio, abbine cura.—
     Tutta la notte si sentirò i lai
de’ topi che, tremando di paura,
se ne fuggivan dagli estremi guai.
15Non fu veduto mai
tanto macello come quella notte
che le truppe topesche furon rotte.
Di lagrime dirotte
bagnossi ambe le guance il contadino
20poi che fu desto e ciò vide al mattino:
il gatto paladino
prese per mano, al sen lo strinse, i bigi
peli lisciolli, e baciolli i barbigi.
Ma sì grandi i servigi
25non furono del gatto il di seguente:
forse era stracco dell’antecedente.

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L’altra notte si sente
miagolar su pe’ tetti in compagnia:
odonlo i topi e ruban tuttavia.
30Alla poltroneria
in pochi giorni si dá in preda; e pare
ch’altro non ami fuor che il focolare.
Poi gittasi a rubare
il lardo, i pesci e tutta la cucina;
35e lascia i topi, e vive di rapina.
Il padron si tapina
veggendo tanto mal; ne accusa il gatto;
e finalmente lo coglie sul fatto.
— Oh pazzo, oh mentecatto, —
40gridò il villano inviperito allora,
— che ti credetti! Or vanne alla malora.
Per difendermi ognora
in casa ti raccolsi: or mi sta bene,
se festi come a gatto si conviene. —

CXXVIII

AD UN CATTIVO POETA

     Vate non trovasi, che piú bei versi
del nostro Pontico arrivi a fare.
Tanto son facili, tanto son tersi,
che tutti gli uomini fan strabiliare.
    Di scherzi nobili, di sale aspersi
sono e di favole diverse e rare:
la piú bell’opera non può vedersi;
cotanto Pontico li suol vantare.
     Or sai tu, Pontico? Questi che il fòro
versi ed i vicoli fanno stupire,
tanto essi t’amano quanto tu loro:
     onde spessissimo soglionmi dire
che, poi ch’egli ebbono vita e decoro
da te, pur vogliono teco morire.

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CXXIX

LA BRUTTEZZA E LE GRAZIE

     Nice la brutta al vago Elpin porgea
ceste di frutta e ghirlande di fiori;
ei de l’avuto don dono facea
alla famosa per bellezza Clori.
    Dell’iniquo commercio in fra i pastori
con l’alma genitrice Amor piagnea:
e de la cara sua prole a i clamori
moveasi il cor dell’acidalia dea.
     Che mai dispose allor la diva ultrice?
Diede a la bella il fasto in compagnia;
spedi le Grazie a circondar la brutta.
     Cosí da Clori ogni amator fuggia;
e i duo beati amanti Elpino e Nice
s’amavan senza fiori e senza frutta.

CXXX

CONGEDO DI UN PRECETTORE DAI SUOI DISCEPOLI

appartenenti ad illustre famiglia.

     O germi illustri, io mi credea molt’anni
trarvi per man sul calle erto d’onore;
chè leggier m’avria reso i lunghi affanni
di bella gloria e di voi stessi amore.
    Ma, o sia sete d’aver, che gli ampi vanni
fa ognor batter piú in alto all’uman core,
o sien di mia fortuna i tristi danni,
panni ’l premio dell’opra assai minore.
     Ond’io vi lascio, il mio destin seguendo;
e prego vi di me dottor migliore
colle palme ch’ai cielo ambedue stendo.
     Forse i miei voti udran gli dii; ma caro
ei vi sia piú di me; ché in van piangendo
si va, poi ch’è perduto, un uom preclaro.

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CXXXI

IN OCCASIONE DUNA SONTUOSISSIMA FESTA DA BALLO

data dal dottor Giletti in propria casa.

     Sul lieto stuol cui della* danza il vago
genio uni, di Citerá alto la dea
fremè d’invidia; ed in dolente immago
pensosa e scarna Economia piangea.
    Del suo dolor, de’ scorni suoi presago,
il coniugale Amor muto sedea;
Temperanza languia; e a’ piè d’Astrea
mordeasi il labbro il creditor non pago.
     Fra gemme ed oro in nobil fasto altero
sol festeggiar, sol trionfare io vidi
ridente il Lusso, in tuon superbo e fiero.
     L’arresto, e: —Come? — dissi, — in si gioconde
forme tu sol fra tanti esulti e ridi? —
Passa il nume villano, e non risponde.

CXXXII

     Crispin non avea pan tre giorni è oggi;
or la sua casa è fatta una cuccagna:
sofá, trumò, argenti, arazzi, sfoggi,
e thè, caffè, cioccolata, sciampagna,
    pernici, storion, zecchini a moggi,
gioco, teatro, guardaroba magna,
trine, ricami, anella, poste, alloggi,
suoni, conviti, casino in campagna.
     Come diavol può far che tanto ei spenda?
Dicon gli sciocchi: — Crispin l’altro giorno
trovato ha una miniera ond’egli sguazza. —
     Eh baccelloni! La miniera un corno!
Crispin ier l’altro ha avuta un’azienda,
ed ha sposato una bella ragazza.

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CXXXIII

AL CURATO DI PUSIANO

     Scior curat de Pusian, ne ridii no
par avè refrescaa quij de Bosis:
parché par al gran vin sii vuu tobis,
caro piovan, ve compatissi mo.
    Quij de Bosis fan semper de cojò,
ma a temp e leugh i slonghen i barbis;
e, se ben che g’han minga i cavij gris,
i saran bon de coionavv anmò.
     E savij ben che chi la fa la spetta.
Bon che a Bosis non ghe portee i mincion;
ché, se mai ghe tornee, a dilla s’ cetta,
     podii specciavv in su quel vost zucon
ona rosciada, ma ben maladetta,
de nos bus, de pom marsc e de fuston.

CXXXIV

CONTRO AL PADRE CAVENAGO

     O reverendo padre Cavenago
che vi sieno cavati ambi i...
e attaccativi al col con uno spago
a foggia di due begli medaglioni!
    5Poich’io veggo che voi siete si vago
di comprarvi a contanti le quistioni,
chiamatemi un briccon, s’io non vi pago
propiamente a misura di carboni.
     Ditemi, caro voi, come c’entrate
10a voler criticar gli altrui sonetti?
Forse per dimostrar che siete un frate?
     o per la gola di quattro confetti
o ciambelle che v’abbiano donate
di que’sonetti vostri maladetti?

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15o per che vi diletti
di far sapere al popolo, alla gente
che voi siete una bestia onnipotente?
Non dubitate niente:
se non mancano in me l’usate vene,
20vi sará dato quel che vi si viene.
Tenete a mente bene
ch’a siffatti argomenti egli è il mio gioco,
frate ignorante, poltrone e dappoco.
N’andrete in ogni loco
25voi e que’ vostri versacci stivali,
che fan rider le acciughe e i caviali;
e vivrete immortali
co la lingua che tanto onor vi féo
in mezzo alla Ritonda e al Culiseo.

CXXXV

Contro lo stesso.

     Un somarello è montato in bigoncia
per legger poesia agli animali;
e s’accavalcia sul naso gli occhiali,
e gli altrui versi rattoppa e racconcia:
     ma perché di sapere e’ non ha oncia
in quel capaccio suo, che porta l’ali,
e’ dice arrosti cosí madornali
ch’ogni femmina gravida si sconcia.
     Elefanti, cammelli, orsi, lioni
e bestie d’ogni clima e d’ogni guisa
traggono ad ascoltar le sue quistioni:
     ma ad ascoltarlo chiunque s’affisa,
se gli sfondola il ventre ne’...
perché il brachier gli schiantano le risa.
Egli è partito a Pisa,
vinto per sette ceci e due lupini,
ch’e’ vi vada a insegnar versi lionini

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a’ guelfi e a’ ghibellini:
e insino a’ gufi, insino a’ vipistregli
l’han dichiarito papa de’ baccegli.
E, intanto che legg’egli,
dicon l’un l’altro:—Compar mio, deh mira
quanto sta bene l’asino alla lira. —

CXXXVI

PENTIMENTO

     Ira è un breve furor, subito ardente,
ch’un gentil petto infiamma, agita e scuote;
e bench’ella sia error, anco è sovente
de le bell’opre altrui stimolo e cote:
    e ’l poetico sacro estro fervente,
tu, pio Signor, ben sai quanto in noi puote;
e sai come, s’avvien ch’altri lo tente,
ratto s’inaspri, e’l fier pungolo arrote.
     Ma perché ornar con lusinghiero inchiostro
il mio fallir vogl’io, qual chi cancella
macchie dal volto suo con minio od ostro?
     Venga ’l mio fallo a te, Signor, con quella
sua feritá natia; e in faccia al mostro
splenda la tua pietate assai piú bella.

CXXXVI I

LAMENTO DI EURINDA

     Stesa sul letto un di languida e mesta
stava Eurinda gridando: — Ohimè tapina! —
per un certo dolor, che per la festa
aveala concia e messala in rovina.
     Non era questo giá dolor di testa,
o qualche gran difficoltá d’orina,
ma male a cui altro guarir non resta
che tosto domandar monna Lucina.

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     Veggendosi ella allor le membra rotte,
coi lumi al ciel languidamente intesi,
tali fuori mandò grida interrotte:
     — Questi son del connubio atti cortesi ?
Per il gusto viril d’una sol notte,
mal muliebre sentir per nove mesi! —

CXXXVIII

LE SORELLE OLIVAZZI MONACHE

     Son sorelle Olivazzi, e non han padre:
l’una Chiara si chiama e l’altra Ersiglia;
donna Metilde ad una par che quadre,
e l’altra chiamerassi donna Emiglia.
    Fuggono il mondo e le sue pompe ladre,
ché l’angelo del ciel si le consiglia,
e fanno pianger la signora madre
e ridere il fratello a meraviglia.
     L’una e l’altra di canto si diletta;
santa Geltrude è il luogo, e parmi udire
che la lor vita non sia molto stretta.
     A chi mi comandò, per ubbidire,
che dicessi di lor qualche cosetta,
dirò che fanno ben: cosa ho da dire?

CXXXIX

Egimo, andiam giú per l’inferma (sic) valle.

CXL

AI CANONICI DI CURIO

che inauguravano la cappa magna.
Riedi, riedi all’onor de’ prischi vanti,
sacro stuol di leviti, e all’ara intorno
con la cetra e ’l salterò alterna i canti,
piú di virtú che di tai fregi adorno.

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     Sai che fede e pietade e zelo i santi
renderá illustri nell’estremo giorno,
e che senza virtú gli esterni manti
ornamento non fian, ma infamia e scorno.
 .................
..................
..................
     Ma sia l’indizio onde la Chiesa ascenda
a contemplar come t’ammanti il core
di fregi eterni e ad emular ti prenda.