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Poesie (Parini)/VIII. Sonetti/II. Sonetti non datati/Sonetti galanti e amorosi

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Sonetti galanti e amorosi

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II. Sonetti non datati - Sonetti sacri e morali II. Sonetti non datati - Sonetti per nozze

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SONETTI GALANTI E AMOROSI

XC

A PAN

     O Pan capripede, che tutto puoi,
e se’ il medesimo tutto, cui còle
o vuoi de’ celeri fauni o pur vuoi
l’irta de i satiri lasciva prole,
    cui stuol di driadi co’ vaghi suoi
intorno tessono danze e carole
al suon de l’aspera canna che suole
scorrer fuggevole da’ labbri tuoi;
     deh, poi che Fillide pur tra’ velluti
greggi dimorasi, e a gli antri torna
dall’eco queruli spesso renduti,
     deh, la mia Fillide di vezzi adorna
togli de’ satiri a’ corni acuti,
o a che ch’egli abbiansi piú de le corna.

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XCI

PER LA BALLERINA PELOSINI

     Il pomo che a le nozze di Peleo
suscitò fra le dive alte disfide,
o bella Pelosini, Amor decide
che a te darebbe il pastorello ideo.
    Per te pugnar vorrebbe il gran Pelleo
che l’Indo e il Gange a sé soggetto vide;
per te l’asta impugnar vorria Pelide
onde Troia superba arse e cadeo.
     Qualor piena di grazie e di decoro
danzar ti veggo, il sangue in ogni vena
m’arde, come la terra di Peloro;
     e Pelio ed Ossa innalzerei con lena,
se gir potessi ad ottener ristoro
per quella via che in vèr Pelusio mena.

XCII

PER L’UCCELLINO DI FILLIDE

     Quanto t’invidio, bello uccellino,
che, in aureo vincolo il piè ristretto,
star su la tremula neve del petto
a la mia Fillide hai per destino:
    e or fra le tiepide mamme e il bel lino
scherzando innoltriti, per calle stretto,
sin dove ahi dubito! or t’è diletto
star del bell’umido labbro vicino;
     onde coll’avido becco trai fuora
qualche dolcissimo picciol granello
ch’ella ministrati co’ baci ancora.
     Non se’ giá il massimo Giove, a novello
dolo qui tessere? Te quanto a un’ora
temo ed invidio, uccellin bello!

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XCIII

PER UNA COLOMBA

che, fuggita dal carro di Venere sulle scene del teatro ducale di Milano,

andò a posare in braccio alla contessa S...

     Colombetta gentil, che, fra i clamori
di popol lieto, in libertá ten riedi,
perché sol Nice qual tuo albergo onori
ed in quell’une sue braccia ti siedi?
    Forse agli atti, all’aspetto esser lei credi
la madre delle Grazie e degli Amori?
e star congiunta all’aureo carro chiedi
con quegli alati suoi bei corridori?
     Forse ti disse alcun, che fra i suoi belli
candidi avori ogni augellino invita
onde al grato tepor si rinnovelli?
     O fra le dilicate agili dita
ti lusinghi ancor tu, come altri augelli,
morte trovar soave e dolce vita?

XCIV

LA SORPRESA

I.

     Che spettacol gentil, che vago oggetto
fu il veder la mia Nice all’improvviso,
quando sorpresa in abito negletto
m’apparve innanzi ed arrossi nel viso!
    Come il candido velo al sen ristretto
i bei membri avvolgea! come indeciso
celava e non celava i fianchi e ’l petto
che sorger si vedeva in due diviso!
     Quali forme apparian sotto alla veste!
Paga era l’alma e vivo era il desio;
e il piacer del mirarla era celeste.
     Deh! mi concedi, Amor, che questa cruda
tal mi si mostri anco un momento; ed io
piú non invidio chi vedralla ignuda.

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XCV

2.

     Piú non invidio chi vedralla ignuda?
Ah come, ohimè, se immaginando ancora
quella sera fatale o quell’aurora
trema quest’alma sbigottita e suda?
    Come soffrir che al mio rivai si schiuda
ciò che, velato ancor, m’arde e innamora?
Come soffrir che a mille baci allora
quel bel labbro, ch’è mio, s’apra e si chiuda?
     e ch’altri faccia al bel corpo catena
de le sue braccia, e spiri altri quel fiato,
e ch’altri, oh Dio! che il suo fedele amante...?
     Togli, togli da me l’orrida scena,
scaldata fantasia, o disperato
col morir preverrò si atroce istante!

XCVI

LA LINGUA DELL’AMOR VERACE

     Ah colui non amò; colui avversi
ebbe i labbri al pensier; perfido inganno
ordí colui che d’amoroso affanno
parlar fu ardito a la sua donna in versi!
    I carmi, o Nice, di lusinghe aspersi
spesso imitano il ver, ma il ver non fanno.
È un’arte il verso; ed arte aver non sanno
gli affetti che dal core escon diversi.
     Un sospir chiuso a forza; un agitato,
un tronco favellare; un pertinace
ora languido sguardo, ora infocato;
     questa è la lingua dell’amor verace;
a questa credi, a questa il core è nato;
e Febo péra e il suo cantar fallace.

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XCVII

PER LA MARCHESA PAOLA CASTIGLIONI LITTA (?)

     Quand’io sto innanzi a que’due lumi bei,
vorrei mille segreti e mille aprire;
ma s’affollan cotanto i pensier miei,
che, per troppo voler, nulla so dire.
    Dice Amor: — Pusillanime che sei,
non sai che nel mio regno è d’uopo ardire? —
I’ gli rispondo: —Amore, i’ parlerei,
ma chi può a gran desir gran detti unire? —
     Sorride alquanto entro al mio petto Amore:
indi mosso a pietá ne gli occhi ascende
pur con la face e pur co i dardi sui:
     e, quasi d’alto pergamo oratore,
quindi parla per me, prega, riprende:
i’ mi sto quieto, e lascio fare a lui.

XCVIII

ALLA MARCHESA PAOLA CASTIGLIONI LITTA

che piglia i bagni nella sua villa di Povenzano.

     Le fresche ombre tranquille, i colli ameni
e queste di vigore aure feconde,
che tu respiri, e queste tiepid’onde
ove le belle membra ignuda tieni;
    si, domeranno alfin gli aspri veneni,
donna gentil, che il tuo bel petto asconde;
e a te l’alma Salute, ore gioconde
portando, tornerá co’ piè sereni.
     La patria e il mondo allor con grato core
porrá al genio del loco un’ara in segno;
e queste note inciderávvi Amore:
     «Salva colei, che di virtú, d’ingegno,
di grazia, di modestia ottiene onore
sopra quant’altre lian di bellezza il regno.»

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XCIX

A CLORI

(Maria Beatrice d’Este?)

     Volgi un momento sol, volgi un momento,
Clori divina, sul mio stato acerbo
l’onnipotente tuo occhio superbo:
e calma in parte il mio crudel tormento;
    e vedrai tosto, a quel girar, lo spento
estro avvivarsi; e quel che in mente io serbo
foco menar gran vampa; e acquistar nerbo
l’ingegno per la doglia stanco e lento;
     e qual torrente giú precipitarmi
dal labbro i versi; e al mio piè l’Astio nero
prostèrnersi, e la Gloria incoronarmi,
     e la Terra devota al tempio altero
offerir del tuo nume e bronzi e marmi,
dicendo: — A te che ravvivasti Omero. —

C

IN LODE DI BELLA DONNA

     Natura un giorno a contemplar discese
di sua maestra man l’opre piú belle,
ma, non trovando un bel compiuto in quelle,
volle provarsi, e un lavor nuovo imprese.
    Dal giglio e dalla rosa il color prese,
e due pennelleggiò guancie novelle;
indi, trascelti dalle ardenti stelle
i piú bei raggi, due pupille accese.
     Poscia una bianca fronte e un bel crin d’oro,
due rosei labbri ed un celeste viso
e tutto alfin compiè l’alto lavoro.
     Ma quando il vide e ne scoperse il vanto,
piacque a se stessa, e con superbo riso
— No, —disse, — io non credea di poter tanto! —

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CI

     Fuoco, gelo, velen, salute e morte
spiran gli accenti tuoi dentro al mio petto:
e mentre un mi lusinga, un altro detto
la mia disperazion rende piú forte.