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Poesie (Parini)/VIII. Sonetti/II. Sonetti non datati/Sonetti sacri e morali

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Sonetti sacri e morali

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II. Sonetti non datati II. Sonetti non datati - Sonetti galanti e amorosi
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SONETTI SACRI E MORALI

LXXVII

A DIO

     Virtú donasti al sol, che a sé i pianeti
ognor tragge, o gran Dio; poi di tua mano
moto lor desti per l’immenso vano,
che a gir li sforzi, e unirsi a lui lor vieti;
    ond’è che intorno al sole irrequieti
rotan mai sempre: andran da lui lontano,
se il vigor che li attragge un di fia vano,
o in lui cadran, se il lor moto s’acqueti.
     Oh eterno sol, che padre a l’altro sei,
tua grazia io sento, onde vèr te mi volga,
e il fomite che va contrario a lei.
     Deh fa che, quando il gran nodo si sciolga,
io non fugga in eterno insieme a i rei,
ma ch’entro a la tua luce alto m’avvolga!

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LXXVIII

LE PASSIONI, LA RAGIONE E L’AIUTO DIVINO

     La fetida del cor negra palude
tant’atre di pensier nuvole e crebre
manda, che colle loro ampie tenèbre
ogni breve a Ragion luce interchiude.
    Bene, o Signor, la tua santa virtude
penetra si le occulte ime latebre
che le gravi a Ragione alza palpèbre
cui l’orror folto e il crasso aere chiude;
     ma che giova, o Signor, se a poco a poco
la putrida del seno onda stagnante
io non rasciugo all’immortai tuo foco,
     si che Ragion non pure apra un istante
i lumi al ver; ma sempre abbia poi loco
nel suo nobile imper chiara e costante?

LXXIX

PER IL VENERDÌ SANTO

     Quel che la lebbra de’ peccati nostri
da le nostr’alme col suo sangue asterse,
oggi sul monte, in mezzo a fèri mostri,
vittima al padre se medesmo offerse.
    Poi che d’amor, di crudeltá fúr móstri
tutti gli eccessi, il velo in due s’aperse:
tremò Natura da i piú fondi chiostri,
e d’atro manto il volto ricoperse.
     Or noi, bagnati di quel sangue santo,
torniam a rimembrar l’atroce scempio,
nel cor compunti e con le luci in pianto:
     e tu, signor, con noi nel mesto tempio
le tue lagrime versi. Ah ben sai quanto
vaglia de’capi in Israel l’esempio!

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LXXX

ALLA VERGINE

1.

     Ohimè in quel giorno, ohimè in quell’ora amara,
ch’io non so ancor, dell’ultima partita,
a te mi raccomando, o Vergin cara,
che sei la madre dell’eterna vita.
    Deh quella grazia, o Vergine, che rara
non è giammai dalle tue mani uscita,
quella nel fèro giorno a me prepara,
Vergine, tu che n’hai possa infinita!
     E s’a lavare il mio fallir, cotanto
di lagrime non dièr fonte o rigagno,
ma queste luci mie fúr chiuse al pianto;
     or che dell’onda lor tutto mi bagno,
lavalo, i’ prego, col tuo latte santo,
Vergine tu, che sei il nostro bagno.

LXXXI

2.

     Comincio dal tuo nome a far parole,
Donna, che sei mar vero onde a noi sorse
quel che giá per salvarne a morte corse,
figlio d’eterna mente, eterno sole:
    mar, che le genti abbandonate e sole
sopra le limpid’onde in porto scorse;
e le nimiche squadre irato assorse,
onde Stige pur anco angesi e duole;
     mar, che le pure aduna amabil’acque
del divino favor, le quali a Dio
tutte nel grembo tuo riponer piacque;
     e mare, onde il bel forte a noi salio
d’eterna vita, innanzi a cui si giacque
avvelenato il serpe audace e rio.

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LXXXII

3.

     Sonami in sulle labbra, o dolce nome,
che poi dolce eccheggiando al cor mi torni:
nome altero e sovran, chi può dir come
rendi gli oscuri di belli et adorni?
    Tu, nei terren chiamato ermi soggiorni,
rendi del viver mio brevi le some;
tu il fier nimico mio empi di scorni
e a me coroni vincitor le chiome.
     Non cosí ’l buon nocchier tra tema e duolo
volge gli occhi alla stella amata e pia
che lui fa certo e gli dimostra il polo;
     com’io vèr te, sola speranza mia,
tra le dubbie contese; e vo te solo
te sol chiamando, o bel nome, Maria.

LXXXIII

PER SANTA CATERINA MORIGGiA DA PALLANZA

     La verginella che dal ciel condotta
fuggissi al monte, a viver casto e pio,
non di cantici ognor l’ermo pendio
o di sospiri fe’ sonar la grotta;
    ma, quando il sol piú scalda e quando annotta,
a lavorar suo campicello uscio;
e non mai di sé grave al suol natio,
a bene orare e a bene oprar fu dotta;
     e poi de’ poverelli asciugò il pianto
con acqua e pane, e li raccolse al seno,
utile a gli altri e al suo Signor piú cara.
     Popol, che a lei consagri incenso e canto,
fa’che gl’inni e l’odor soli non siéno;
ma ad imitar le sue bell’opre impara.

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LXXXIV

IL RICCO OZIOSO E IL POVERO LABORIOSO

     — Si, fuggi pur le glebe e il vomer duro
ch’io ti die’ in pena de l’antico fallo;
credi però dell’oro ergerti un vallo
ove tra gli ozi tuoi viver securo?
    Tristo! non sai ch’io’l mio furor maturo,
ma non l’obblio giammai? che piedestallo
mal fermo ha la tua sorte? e che in van dallo
stento t’invola impenetrabil muro? —
     Dio cosí parla; e ratto move a danno
de’ possenti le cure atre, e quel crudo
laniator degli uman petti affanno.
     Bella Innocenza intanto il braccio ignudo
sul vomer posa, e fra sé dice: — Ond’hanno
tal dolcezza le stille auree ch’io sudo? —

LXXXV

MALI CAGIONATI ALL’EUROPA DALLE CONQUISTE

     Ecco la reggia, ecco de’ prischi Incassi
le tombe insanguinate, ecco le genti
di tre parti de l’orbe intorno a i massi
ancor di scelerato oro lucenti.
    Tu America, piagnendo gl’innocenti
occhi su l’arco tuo spezzato abbassi;
tu sudi, Affrica serva: e co i tormenti
sopr’ambe minacciando Europa stassi.
     Ma la vostra tiranna ecco attraversa
il mar con sue rapine; ed ecco io veggio
vostri demòni da le triste prore
     discender seco; ed ecco in sen si versa
col rapito venen rabbia e furore
e guerra e morte. Or qual di voi sta peggio?

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LXXXVI

SULLA MALINCONIA

1.

     Occhio indiscreto, che a cercar ti stanchi
da qual d’uomo o di sorte o di ciel colpo
la cura usci, che quasi a scoglio polpo
par che intorno al mio cor lasso s’abbranchi;
    spesso nel volto, è ver, ne’ membri stanchi
esce furtivo il duol ch’io sgrido e incolpo:
ma, sebben mi scoloro e scarno e spolpo,
non fie mai che al tuo sguardo il cor spalanchi.
     Ragion l’arcano mio avvinse a un sasso;
e tal nel fondo del mio sen sommerse,
che d’occhio acume non può gir si basso.
     Mio duol, richiama tue orme disperse,
ti rannicchia e ti cela entro al cor lasso
a le viste degli uomini perverse.

LXXXVII

2.

     Occhio indiscreto, or taci, e piú non angi
con dimande importune il mio cor lasso!
Piú facil ti saria spezzare un masso:
taci, o piuttosto, se sai pianger, piangi.
    Lascia che in pace il mio dolor mi cangi,
quasi novella Niobe, in un sasso;
lascia che fino al duro ultimo passo
l’erma tristezza mia mi roda e mangi.
     Se, occhio, amico mi sei, sol ti sia detto
che nulla sceleraggine ha consorte
l’alta malinconia onde son stretto.
     Ma tu parli, o mio cor? Di durar forte
giá ti se’ stanco? Deh tu vieni, e in petto
questo debole cor strozzami, o Morte!

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LXXXVIII

3.

     Oh Morte, oh bella Morte, oh cara Morte,
tu vieni or dunque, e a me dolce sorridi?
Lascia che a questa man fredda m’affidi,
che sola involar puommi alla mia sorte.
    Affretta; usciam da queste odiate porte
di vita, usciam. Non odi, ohimè, con stridi,
quasi di drago per sabbiosi lidi,
l’atra mia cura sibilar piú forte?
     Ohimè! fin qua implacabile e tenace
malinconia? Oh Morte, ecco la fossa;
scendiam velocemente a cercar pace.
     Pace, orror queto, pace, o non mai mossa
sepolcral aria ove ogni cura tace;
pace, o ceneri miste, o teschi, o ossa!

LXXXIX

CONTRO IL BACO DA SETA

     Péra colui che dall’estraneo lito
portò il verme infelice ond’uotn si veste!
Non bastav’ei ch’ogni nefando rito
spargesse l’oro in terra, unica peste?
    Per lui, spiegando Nemesi le preste
ali, a noi volta, minacciò col dito;
e voi, o santo dio Termin, sorgeste
curvo e pesante dall’antico sito.
     Or l’avido villan sgombra e disperge
le belle opre d’Aracne; e solo ha cura
del nuovo d’ogni mal barbaro germe:
     perocché l’uom per lui sol cade o s’erge:
perocché l’uom, di Dio alta fattura,
or tutti i suoi ripon pregi in un verme.