Qui dove, Iola, in grembo al mar sen corre

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Ciro di Pers

Indice:AA. VV. - Lirici marinisti.djvu Canzoni Letteratura XXV. I viaggi sulle galee di Malta Intestazione 3 agosto 2022 100% Da definire

Celeste dono è la beltà, che scende O di possente impero inclita sede
Questo testo fa parte della raccolta Ciro di Pers
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XXV

I VIAGGI SULLE GALEE DI MALTA

     Qui dove, Iola, in grembo al mar sen corre
dal mal gradito amante
fuggitiva Aretusa,
d’orme penose imprimo
il bel lido sicano,
col pensier misurando
quanto mar, quanto cielo
quanta terra fraposta mi disgiunge
da quelle ch’io solea
chiamar de l’alma mia parti migliori,
di cui l’una sei tu, l’altra è Nicea.
E penso ch’ora a punto

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l’intero suo cammin fornito ha il sole,
da ch’io lasciai partendo
cotesti ameni colli, che sovente
imparano a fiorire
da quelle belle guance,
e son forse ancor caldi
dell’amoroso ardor di que’ begli occhi;
ed ho in spazio sí breve
tanti lidi trascorsi,
che de l’itaco duce
stimo men lunghi i peregrini errori.
E se d’udir t’aggrada
quel che feci pur dianzi
per le contrade eoe lungo camino
sui nostri armati pini,
che contra l’elespontico tiranno
spiegan candida croce
in purpureo vessillo,
tel narrerò; della mia rozza musa
tu gli accenti improvisi intanto escusa.
     Giá mezzo avea trascorso
della fèra nemea l’adusto segno
il portator del lume,
allor che i bassi lidi
di Melita lasciando
con cinque audaci legni
ch’hanno d’armi e d’eroi gravido il seno,
venimmo a queste arene
dove l’antica Siracusa ancora
con rinovate moli
contro il tempo contrasta;
e di qua poi rivolte
al rinascente Sol l’ardite prore,
fidammo i lini al vaneggiar de l’aure,
e dopo lunghi spazi
di vastissimo mare,

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mentre spuntava in ciel la quinta aurora,
sorger si vide a fronte
di Berenice il lido,
che di cinque cittadi, onde famosa
fu Pentapoli un tempo, appar primiera.
Quindi non lungi infra i cerulei flutti
chetamente confonde
l’oblivïoso Lete
i suoi tartarei umori.
Si vide poscia il loco
dove era Arsinoe e dove
Tolomaide risorse,
dove Apollonia fu, dove Cirene,
ché dell’alte ruine
sparso da lungi ancor biancheggia il suolo.
Giá fûr cittá superbe, or sasso a pena
v’è ch’a sasso sovrasti:
cosí fragili sono incontra il tempo
l’opere de’ mortali.
Non have alcun albergo
che sembri ad uso umano
quel barbaro terreno; e pur è tutto
dagli uomini abitato,
i quai non so s’io debba
infelici chiamare o pur beati;
cosí mal si misura
l’altrui felicitá coi propri affetti.
Ma se beati fûro
quei del mondo novello
primieri abitatori,
perché non doverò chiamar beati
questi ancora, che sono
tanto a lor somiglianti?
Quello che piace lece,
quel che diletta è onesto;
re, ciascun a se stesso

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obbedisce e comanda,
né tien, fuor che la gregge, altri soggetti.
Quindi essi tranno il cibo,
qualor non glielo dan le scosse palme;
la clemenza dell’aria,
over l’uso piú tosto
toglie loro il bisogno
d’ingombrar con le vesti
l’esercitate membra,
ed hanno al caldo, al gelo
letto il suol, tetto il cielo.
Nessun di vano onore
rispettoso ritegno
pon mèta ai lor diletti;
nessuna avara brama
le lor menti molesta;
poiché ’l biondo metallo,
d’ogni volere espugnator possente,
solo fin de’ mortali e sola cura,
appo lor è sí vile
che in nessun pregio, in nessun uso s’have.
     Son tai gli abitatori
della bella Cirene, ed anco appresso
di Marmarica tutta,
che tutta noi scorremmo
con le temute prore
per insino a l’Egitto,
presso ai cui verdi lidi
il Nilo, peregrin del paradiso,
stanco dai lunghi errori,
riposa in grembo a Teti,
che non come vassallo
ma come ospite suo l’onora, e pare
che turbar non ardisca
co’ salsi flutti i di lui dolci umori.
Qui nel lido si vede

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la famosa cittade
cui diè l’essere e ’l nome
il Macedone invitto.
Quindi non lungi un giorno
nell’apparir della novella aurora:
— Ecco — s’udí gridare, — ecco una squadra
di veleggianti abeti. —
Destossi a quelle voci
di ciascuno guerriero
e la speme e l’ardire,
e con veloce moto
spingendo i remi e dando in preda a l’aure
da l’alte antenne le piú larghe vele,
s’affrettava il camino.
Giá giá distinta appare
di torreggianti pini
la vasta forma, e da l’eccelse poppe
scorgonsi tremolar le tracie lune,
onde certo ciascuno
che son nemici: — All’armi, all’armi — grida,
e di ferrato usbergo
il petto cinge, e grava
d’elmo pesante l’onorata fronte,
e la spada fedel s’acconcia al fianco,
tenendo ne la destra
apparecchiate le fulminee canne.
Ed ecco, ecco d’intorno
freme il ciel, mugge il mar, rimbomba il lido,
mentre i bronzi tonanti
con orridi fragori
replican quinci e quindi
gli spaventosi colpi.
Fugge timido il giorno
tra densa nube ascoso
che celando l’orror l’orrore accresce;
ne’ piú riposti fondi

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vanno a tuffarsi le cerulee ninfe,
e timido Nettuno
fin oltre il varco d’Elle
gli squammosi destrier fuggendo affretta.
Stringesi intanto la feroce pugna,
e de’ nostri l’ardire
ogni vantaggio de’ nemici adegua,
in guisa tal, che i dieci
cedono a’ cinque, ed hanno
ogni speme riposta
nella vicinitá del porto amico,
E giá l’un d’essi in mezzo agli altri, a fronte
della cittá nemica,
nostra preda rimane;
gli altri fidan lo scampo
ai lini fuggitivi.
Cresciuto il vento intanto
disperse in noi la speme
de la vittoria intera,
e la lor favorí timida fuga.
Allor quindi partendo,
le vincitrici antenne
volgemmo inver’ Boote;
né corse il Sol tre volte,
di lá dov’ha per cuna aurato il Gange
fin lá dove ha per tomba aurato il Tago,
ch’accostammo le prore
a quelle un tempo sí felici piagge,
che de la dea piú bella
furon delizia e cura.
Or soffrendo l’impero
di barbaro tiranno
sono piú che ad Amor soggette a Marte;
pur mostran ne l’aspetto
placida amenitá, ch’alletta il guardo
a rimirar colá fiorito un prato,

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qua verdeggiante un bosco,
quinci un’aprica collinetta e quindi
una riposta valle,
in cui serpeggia un fiumicel lascivo,
che ’n fra smeraldi teneri confonde
i susurranti suoi fugaci argenti,
che sembran dire: — Anco qui regna Amore. —
Qui Pafo, o pur di Pafo
si vider le vestigie e d’Amatunta;
qui Curio s’additò, qui Salamina.
     Drizzati poscia altrove i legni erranti,
fummo di Siria a quei beati lidi,
che di sante vestigie il re del cielo
impresse giá, mentre l’umane colpe
trasse seco a morir, fatto mortale.
Qui del Tabor, qui del Sion le cime,
qui del sacro Oliveto e del Carmelo
inchinai riverente, e fra me stesso
piansi di sdegno che per nostro scorno
calchi con piè profan barbara gente
quei lochi santi, e par che ciò non caglia
a quei che sovra il popolo fedele
tengon gli scettri, e poi ciascuno a gara
vuole con vano ambizïoso nome
dirsi re di Sion, dove non hanno
se non chi prende i loro fasti a scherno!
Nelle fenicie piagge
dapoi vidi Sidone e vidi Tiro,
che giá pescâr nel margine vicino
le pregiate conchiglie
onde il manto tingean gli antichi regi.
A le falde del Libano frondoso
Giulia felice e Tripoli si scorse,
indi Seleucia di Pieria, ed indi
Alessandria minore
entro l’issico seno;

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di dove poi prendendo
a tergo il Sol nascente
si scorse lungo la Cilizia e lungo
la Panfilia vicina;
e poi di Licia e poi di Caria i lidi
si costeggiar. Quivi si prese un legno
degl’infidi nemici,
di ricche merci onusto;
ed altri due pur dianzi,
vinti sol dal timore,
fatti eran nostra preda.
Quivi deserto un porto,
il quale un dí n’accolse,
alla vista n’offerse
d’Alicarnasso le ruine sparte,
e de la vasta mole
onde Artemisia volle
del marito onorar le nobil ossa.
Sono i marmi piú fini
troppo fragili basi
in cui si stabilisca il fasto umano:
quella superba machina, che valse
stancar cinque scarpelli
di Grecia i piú famosi,
or giace sí, ch’a pena
può dirsi: — Ella fu quivi; —
ché tra l’arena e l’erba
è lo stesso sepolcro ancor sepolto.
     Poscia Rodi si vide,
che giá fu nostra sede; or vi s’annida
il nemico ottomano,
non so con qual maggiore
scorno, o di noi ch’alla fatale e dura
necessitá cedemmo,
o pur di chi potea, di chi doveva
darci soccorso, e da sicura parte

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neghittoso mirava
de’ campioni di Cristo il gran periglio,
over commosso da privati sdegni
l’arme irritava ambizïose, ingiuste,
contro quei che la fede avean comune.
S’andò poscia a Carfati, ed indi a Creta,
Creta, patria di Giove,
per ben cento cittá superba un tempo;
di lá si venne ad Epla ed a Citera,
che Venere nascente
prima raccolse dall’ondose spume.
Malea rimase a destra
ed i tenari lidi
si videro in passando; e Sfragia apparse,
Corifagio e Metone
s’additaron vicini, e non lontani
i colli di Messenia, in verso il polo.
L’isola scorsa, che di Prima ha il nome,
n’accolsero le Strofade, che fûro
giá nido infame de l’immonde Arpie.
Indi Zacinto, ed indi
ne’ lidi cefaleni un ampio porto;
e perché Circio irato,
tiranneggiando d’Anfitrite il regno,
tutte commosse avea l’ondose moli,
qui ci fermammo il terzo sole e ’l quarto,
sin che ’l padre Nettuno,
sbandite le tempeste e le procelle,
col tridente appianò l’umide vie.
Traendo allor dall’arenoso fondo
l’áncora adunca per gli aperti campi
della salata Teti,
trascorremmo di novo
sin che riconoscemmo amico il suolo
ne le calabre spiagge; indi passando
il periglioso varco

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dove il roco latrato
s’ode di Scilla infame, e di Cariddi
s’aprono le voragini profonde,
entrammo ove a le falde di Peloro
de la bella Messana
con ampio giro si dilata il porto,
che da moli superbe intorno cinto
toglie all’antiche meraviglie il vanto.
Corsero obedïenti
e in ordin lungo s’adattâro i marmi
ai regi cenni tuoi, gran Filiberto,
della cui stirpe al nobil scettro antico
inchinan l’Alpi le superbe fronti.
     Dopo qualche dimora
di lá partendo, la felice piaggia
di Trinacria si scorse,
da quella parte che del Sol nascente
esposta giace al redivivo raggio.
Qui vidi Etna fumante
dal cavernoso seno
vomitar, esalar fiamme e facelle;
maraviglioso mostro in cui si scorge
l’ardor unito al gelo,
ché di mezzo alle nevi
sorgon gl’incendi e le solfuree vampe
lambendo van le gelide pruine.
Trascorso poi de’ catanesi il suolo
e di Megara, fummo
a questi un tempo sí felici lidi
di Siracusa, e poscia ove Pachino
frange i cerulei flutti;
e lasciatolo a tergo,
di Malta entrammo il sospirato porto,
mèta de’ lunghi e travagliosi errori.
     In cotal guisa errante peregrino
cerco fuggir dall’amorose cure;

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ma sotto ciel diverso
provo i medesimi influssi: ad or ad ora,
con dura rimembranza,
Nicea mi torna in mente,
e del suo nome impresso
d’Asia e di Libia infra i deserti lidi
piú d’un barbaro scoglio insuperbisce,
e vidi l’onda a gara
correre per baciar sí belle note.
Ma giá con rauco suono
le strepitose trombe
ne invitano al partir, l’aure seconde
chiaman le vele; anch’io
men vo co’ gli altri; addio!