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Rime e ritmi/Cadore

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Cadore

../Nicola Pisano ../Carlo Goldoni IncludiIntestazione 1 febbraio 2012 100% Da definire

Nicola Pisano Carlo Goldoni
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CADORE1


I.


Sei grande. Eterno co ’l sole l’iride
de’ tuoi colori consola gli uomini,
sorride natura a l’idea
4giovin perpetüa ne le tue

forme. Al baleno di quei fantasimi
roseo passante su ’l torvo secolo
posava il tumulto del ferro,
8ne l’alto guardavano le genti;

e quei che Roma corse e l’Italia,
struggitor freddo, fiammingo cesare,
sé stesso obliava, i pennelli
12chino a raccogliere dal tuo piede.

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Di’: sotto il peso de’ marmi austriaci,
in quel de’ Frari grigio silenzio,
antico tu dormi? o diffusa
16anima erri tra i paterni monti,

qui dove il cielo te, fronte olimpia
cui d’alma vita ghirlandò un secolo,
il ciel tra le candide nubi
20limpido cerulo bacia e ride?

Sei grande. E pure là da quel povero
marmo piú forte mi chiama e i cantici
antichi mi chiede quel baldo
24viso di giovine disfidante.

Che è che sfidi, divino giovane?
la pugna, il fato, l’irrompente impeto
dei mille contr’ uno disfidi,
28anima eroica, Pietro Calvi.

Deh, fin che Piave pe’ verdi baratri
ne la perenne fuga de’ secoli
divalli a percuotere l’Adria
32co’ ruderi de le nere selve,

che pini al vecchio San Marco diedero
turriti in guerra giú tra l’Echinadi,
e il sole calante le aguglie
36tinga a le pallide dolomiti

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sí che di rosa nel cheto vespero
le Marmarole care al Vecellio
rifulgan, palagio di sogni,
40eliso di spiriti e di fate,

sempre, deh, sempre suoni terribile
ne i desideri da le memorie,
o Calvi, il tuo nome; e balzando
44pallidi i giovini cerchin l’arme.


II.


Non te, Cadore, io canto su l’arcade avena che segua
          de l’aure e l’acque il murmure:
te con l’eroico verso che segua il tuon de’ fucili
          48giú per le valli io celebro.

Oh due di maggio, quando, saltato su ’l limite de la
          strada al confine austriaco,
il capitano Calvi — fischiavan le palle d’intorno —
          52biondo, diritto, immobile,

leva in punta a la spada, pur fiso al nemico mirando,
          il foglio e ’l patto d’Udine,
e un fazzoletto rosso, segnale di guerra e sterminio,
          56con la sinistra sventola!

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Pelmo a l’atto e Antelao da’ bianchi nuvoli il capo
          grigio ne l’aere sciolgono,
come vecchi giganti che l’elmo chiomato scotendo
          60a la battaglia guardano.

Come scudi d’eroi che splendon nel canto de’ vati
          a lo stupor de i secoli,
raggianti nel candore, di contro al sol che pe ’l cielo
          64sale, i ghiacciai scintillano.

Sol de le antiche glorie, con quanto ardore tu abbracci
          l’alpi ed i fiumi e gli uomini!
tu fra le zolle sotto le nere boscaglie d’abeti
          68visiti i morti e susciti.

— Nati su l’ossa nostre, ferite, figliuoli, ferite
          sopra l’eterno barbaro:
da’ nevai che di sangue tingemmo crosciate, macigni,
          72valanghe, stritolatelo — .

Tale da monte a monte rimbomba la voce de’ morti
          che a Rusecco pugnarono;
e via di villa in villa con fremito ogn’ora crescente
          76i venti la diffondono.

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Afferran l’armi e a festa i giovani tizïaneschi
          scendon cantando Italia:
stanno le donne a’ neri veroni di legno fioriti
          80di geranio e garofani.

Pieve che allegra siede tra’ colli arridenti e del Piave
          ode basso lo strepito,
Auronzo bella al piano stendentesi lunga tra l’acque
          84sotto la fósca Ajàrnola,

e Lorenzago aprica tra i campi declivi che d’alto
          la valle in mezzo domina,
e di borgate sparso nascose tra i pini e gli abeti
          88tutto il verde Comelico,

ed altre ville ed altre fra pascoli e selve ridenti
          i figli e i padri mandano:
fucili impugnan, lance brandiscono e roncole: i corni
          92de i pastori rintronano.

Di tra gli altari viene l’antica bandiera che a Valle
          vide altra fuga austriaca,
e accoglìe i prodi: al nuovo sol rugge e a’ pericoli novi
          96il vecchio leon veneto.

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Udite. Un suon lontano discende, approssima, sale,
          corre, cresce, propagasi;
un suon che piange e chiama, che grida, che prega, che infuria,
          100insistente, terribile.
Che è? chiede il nemico venendo a l’abboccamento,
          e pur con gli occhi interroga.
— Le campane del popol d’Italïa sono: a la morte
          104vostra o a la nostra suonano — .
Ahi, Pietro Calvi, al piano te poi fra sett’anni la morte
          da le fosse di Mantova
rapirà. Tu venisti cercandola, come a la sposa
          108celatamente un esule.
Quale già d’Austria l’armi, tal d’Austria la forca or ei guarda
          sereno ed impassibile,
grato a l’ostil giudicio che milite il mandi a la sacra
          112legïon de gli spiriti.
Non mai piú nobil alma, non mai sprigionando lanciasti
          a l’avvenir d’Italia,
Belfiore, oscura fossa d’austriache forche, fulgente,
          116Belfiore, ara di màrtiri.

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Oh a chi d’Italia nato mai caggia dal core il tuo nome
          frutti il talamo adultero
tal che il ributti a calci da i lari aviti nel fango
          120vecchio querulo ignobile!

e a chi la patria nega, nel cuor, nel cervello, nel sangue
          sozza una forza brulichi
di suicidio, e da la bocca laida bestemmiatrice
          124un rospo verde palpiti!


III.


A te ritorna, sí come l’aquila
nel reluttante dragon sbramatasi
poggiando su l’ali pacate
128a l’aereo nido torna e al sole,

a te ritorna, Cadore, il cantico
sacro a la patria. Lento nel pallido
candor de la giovine luna
132stendesi il murmure de gli abeti

da te, carezza lunga su ’l magico
sonno de l’acque. Di biondi parvoli
fioriscono a te le contrade,
136e da le pendenti rupi il fieno

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falcian cantando le fiere vergini
attorte in nere bende la fulvida
chioma; sfavillan di lampi
140ceruli rapidi gli occhi: mentre

il carrettiere per le precipiti
vie tre cavalli regge ad un carico
di pino da lungi odorante,
144e al cidolo ferve Perarolo,

e tra le nebbie fumanti a’ vertici
tuona la caccia: cade il comoscio
a’ colpi sicuri, e il nemino,
148quando la patria chiama, cade.

Io vo’ rapirti, Cadore, l’anima
di Pietro Calvi; per la penisola
io voglio su l’ali del canto
152aralda mandarla. — Ahi mal ridesta,

ahi non son l’Alpi guancial propizio
a sonni e sogni perfidi, adulteri!
lèvati, finí la gazzarra:
156lèvati, il marzïo gallo canta! —

Quando su l’Alpi risalga Mario
e guardi al doppio mare Duilio
placato, verremo, o Cadore,
160l’anima a chiederti del Vecellio.

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Nel Campidoglio di spoglie fulgido,
nel Campidoglio di leggi splendido,
ei pinga il trionfo d’Italia,
164assunta novella tra le genti.


In piazza di Pieve del Cadore
e sul lago di Misurina
sett. 1892.






Note

  1. [p. 1056 modifica]Per gratitudine mia, se non per cenno ad altri, ricordo alcuni libri che discorrono dei combattimenti del 1848 in Cadore e d’altre piú cose cadorine. E prima: del prof. Ant. Ronzon, Calvi e i Cadorini (Tai del Cadore, 1875) e Rindemera, Scene del Cadore nel 48 (Lodi, 1881); e del [p. 1057 modifica]sig. Venanzio Donà, Guida del Cadore (Venezia, 1888); questi o videro o udirono dai presenti. Poi il sig. Ottone Brentari raccolse e rinnovò abbondante nella sua Guida storico-alpina del Cadore (Bassano 1886). A questi ultimi giorni il colonnello Gennaro Moreno ha raccontato, con intendimenti e dottrina militare, Calvi e la difesa del Cadore (Roma, Biblioteca minima popolare militare). Per dichiarazione al vocabolo cidolo e al v. 8 della pag. 983 ecco un passo dalla Storia del popolo cadorino compilata da Giuseppe Ciani (Padova, Sicca, 1856) parte prima libro primo, pp. 11-13. Detto delle travi d’alberi lavorate e acconciate e nel maggio spinte nel Piave che li trasporta a Perarolo; séguita — “Ma non vi giungono sí presto: altre dall’impeto dell’onda gittate in sulle sabbie, altre dagli spessi e saldi massi, che sporgonsi dall’alveo, contenute. Il che or qua or là quasi sempre interviene, e la prima, che dando di cozzo ne’ massi si ferma, tronca il corso alle succedentisi; onde s’aggruppano, s’incavallano, s’ammonticellano, sí, che per lungo tratto tu non iscorgi sul fiume che un’incomposta tettoia. I paesani appellano serre questi inviluppi: a districarli accorronvi uomini in questa fatta di opere esercitati; ché non tanto il fiume, che solo vi basti. Questi uomini si chiamano Menadàs: cure loro le stesse che dei Dendrofori presso a’ Romani. Dipendenti da un capo, muniti di lunghe aste ferrate di uncini aguzzi e rampiconi, calano fra greppo e greppo, ove le serre e le sbandate in sulle sabbie: ricaccian queste nel fiume; uncinano, aggrappano disviticchiano le rammassate, né si stanno che assembratele nel Cidolo. Un edifizio codesto a cavalliere del Piave presso a Perarolo: piantato su d’ambedue le ripe, l’estremità sí da un lato che l’altro torcendosi, addentransi alquanto nel fiume; grosse travi le congiungono quivi insieme; congegnate a foggia di cancello, se all’acque, non concedono l’uscita alle taglie. Gli stessi che addusserle, da quella chiudenda l’estraggono; conoscitori delle marche onde s’improntano, avvianle [p. 1058 modifica]a’ segatoi eretti lunghesso il fiume, conforme è loro ordinato: quivi ammonticchianle a che s’asciughino: asciutte son date alle seghe; ridotte in tavole, sulle zattere traduconle pel fiume a Venezia, o lascianle per via ove i magazzini de’ proprietari„.