Saggio di racconti/XI/IX

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Cecchin Salviati
ossia l’Adolescenza d’un Artista nel secolo XVI
La peste

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Cecchin Salviati
ossia l’Adolescenza d’un Artista nel secolo XVI
La peste
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LA PESTE

I pericoli e i danni dell’infelice Italia ogni di più s’accrescevano; gl’imperiali proseguivano a guastarne le campagne, a saccheggiare le città, a contaminarne con stragi e con atti nefandi ogni parte. Il papa s’era collegato con essi a’ danni di Firenze; e pareva che l’ultimo sforzo di tante nimistà, di tanti odii, di tante armi, si dovesse tutto rovesciare su lei. Vero è che un popolo animato dall’amor dell’indipendenza, ripiglia vigore dall’estremo dei guai; e fu mirabile l’intrepidezza dei Fiorentini, che soli, in mezzo a tanti rischi osarono dichiarare apertamente di non voler più i Medici, e d’esser preparati a morire per la libertà. Laonde venuta il 12 Maggio 1527 la notizia dell’orribile sacco dato a Roma il 6 dalle genti del Borbone e dai così detti Lanzi, e che il papa Clemente era a mal partito e [p. 128 modifica]assediato in Castel s. Angiolo dagli imperiali, i Medici, cioè il cardinale Passerini, e Ippolito e Alessandro, il 17 dello stesso mese, accompagnati dal conte Piero Noferi e da molti altri, si partirono di Firenze (sebbene non mancò chi dicesse, mentre se ne andavano per la via larga, la quale era calcata di gente, che un dì, d’avergli lasciati partire, indarno si pentirebbero); e usciti per s. Gallo si condussero pieni di paura al Poggio a Cajano, indi a Pistoia ed a Lucca1.

Così la Repubblica era tornata libera; ma per sostenersi, le conveniva stare tutta unita, combattere da sè con forze troppo diseguali contro un infinito numero di nemici italiani e stranieri; e quasi fosse ormai condannata a irreparabile rovina, i generosi suoi sforzi dovevano riescire inutili pel tradimento del capitano2. Non le mancarono giovani di valore3, uomini di senno per governare4, prodi capitani per la guerra5, abili artisti per alzar bastioni e fortezze6, ardimento di popolo, esempi di magnanimi sacrifizj; ma i suoi mali erano senza rimedio, e vi si aggiunse ancora quello della pestilenza, la quale se non fu delle più micidiali, sbigottì la gente col timore di peggio. Quindi tra il Luglio [p. 129 modifica]e l’Agosto del 1527 arrivò a tale, che morirono fino a 150 persone per giorno.

Francesco e l’Anna, inesperti e dubbiosi del fine al quale sarebbero ridotti da tante calamità unite insieme, stavano in gran pensiero, e si vedevano abbandonati dagli amici e dai parenti, quali per fuggire la morìa, quali per esserne già periti. Lo stesso Giorgio, con gran dolore del tenero amico, aveva dovuto tornare ad Arezzo per volere del padre suo; e Francesco frequentando ora la bottega di un pittore, ora quella di un altro, invano si studiava di trovare nell’arte una distrazione ai suoi gravi timori.

Un dì suo padre tornò a casa col viso coperto di livide macchie, e con l’animo alquanto turbato, sebbene facesse ogni sforzo per nascondere l’interno travaglio. Si provò a mangiare in compagnia dei figliuoli che lo guardavano con incerto sbigottimento, ma non gli riescì; e talora si faceva tutto pallido, un po’ dopo appariva acceso, infuocato, e qualche volta era preso dalle vertigini. L’Anna lo interrogò se si fosse sentito male, se avesse avuto bisogno d’alcuna cosa; ma egli o non le rispondeva o si studiava di dissiparne i timori; indi con accortezza faceva in modo che i figliuoli non avessero occasione di accostarsegli. Alla fine s’alzo risoluto da sedere, e non potendo nascondere il suo turbamento, con parole tronche ordinò loro di non si muovere, e con passi un po’ vacillanti si ridusse in camera sua. Quivi si trattenne pochi minuti, ripose le sue carte in un [p. 130 modifica]armadio, chiuse la stanza, e andò a collocarsi ad una finestra come chi aspetta di veder passare un amico. L’Anna e Francesco smettendo di mangiare erano rimasti muti e sbigottiti a guardarsi l’un l’altro, e non osavano comunicarsi un sospetto nato nel loro animo, tanto egli era doloroso e terribile. Ma non potendo più sopportare quella crudele incertezza, erano per alzarsi e per andare intorno al padre, quand’egli, fatto un cenno della mano fuori della finestra, e rivoltosi tosto a’ figliuoli: «Non vi movete, disse loro, finchè io non abbia sceso le scale. Poi chiudete la casa, e andate a stare da Niccolò Parenti, capoccia del traffico. Aspettatemi in casa sua, chè spero ci rivedremo tra pochi giorni.» E in ciò dire, quantunque volesse parer sereno, gli cadevano le lacrime, e gli si contraevano in modo strano i lineamenti del volto. «Addio!» I figliuoli erano in atto di lanciarsi disperatamente al suo collo; ma egli, preso un tuono autorevole: «Fermatevi! esclamò, e corse al capo scala, e di lì volgendosi aggiunse: «Obbedite a vostro padre!» E ripresa l’usata dolcezza: «Così salvando voi, salverete forse anche me.» Con atto involontario protese le mani verso di loro, come per invitarli al suo seno; ma ritirandole tosto si coperse la faccia, e in un baleno scese le scale. I figliuoli mandando un grido di dolore corsero alla finestra. Nella strada v’era un cataletto; e il padre vinto dal dolore, appena ebbe fiato di giungervi; i fratelli della Misericordia lo distesero su di esso, e lo trasportarono allo spedale. I figliuoli [p. 131 modifica]alla finestra piangendo lo richiamavano, ed egli accennava loro di obbedirlo e di ritirarsi7. Chi potè vedere ed intendere n’ebbe per lungo tempo l’anima addolorata. Quando il misero padre fu più lontano, l’Anna gettandosi nelle braccia del fratello esclamò: «E dobbiamo lasciarlo?» — «No! disse Francesco; piuttosto moriremo con lui.» E usciti insieme correndo forsennatamente raggiunsero il cataletto quand’era per entrare in S. Maria Nuova. Il cataletto passò; ma a loro fu negato l’andar più oltre; ed essi cominciarono allora a piangere sì fattamente, che i portinai i mossi a pietà, e visto che nulla caleva a que’ giovinetti della propria vita purchè potessero rivedere ed assistere il padre, gli lasciarono entrare.

L’aspetto lacrimevole dei malati e dei [p. 132 modifica]moribondi, il pericolo di rimanere a ogni passo colpiti dalla pestilenza, le esortazioni, le minacce stesse degli assistenti, non valsero a fargli esitare un istante; e risoluti si trassero infino al letto del padre. Quand’esso gli vide, cominciò subito a scongiurarli di tornar via perchè non rimanessero infetti dal male, a rimproverarli d’averlo disobbedito; ma nel tempo stesso il povero padre che aveva potuto pigliare quella eroica risoluzione, e che avrebbe saputo sostenere di non più rivederli purchè fossero salvi, non potè reggere alla consolazione di ritrovarsi in mezzo a loro e alla tenerezza che gli svegliavano dandogli così gran prova d’affetto filiate. Lasciare a un tratto la propria casa, e, prevedendo una morte inevitabile, trovarsi separato dai suoi figliuoli, era stato un dolore troppo acuto; quindi la malattia aveva anche indebolito il suo animo, e alla fine il cuore doveva dominare la riflessione; laonde concesse loro di rimanere, purchè non gli si accostassero; e pianse con essi. I figliuoli, che erano desolati all’estremo, avrebbero dato la loro vita per salvargli la sua, ma non potevano neanche assisterlo come il cuore voleva, poichè ormai era inutile. Si rassegnarono a tenergli compagnia l’uno da una parte, l’una dall’altra del letto; e non pensando nè a cibo nè a sonno, parevano determinati a seguirlo nel sepolcro. In poco tempo fu perduta ogni speranza di guarigione, e avvicinandosi l’agonia, i medici non consentirono che gli amorosi figliuoli restassero lì fino all’ultimo. [p. 133 modifica]Riceverono genuflessi la benedizione paterna, e quando il moribondo ebbe perduta la cognizione, furon trasportati via semivivi.

Prese le necessarie precauzioni per la loro sanità e per quella degli altri, uscirono da quel luogo funesto, maravigliati essi stessi di poter sopravvivere a tanta perdita ed al pericolo al quale s’erano esposti. Allora si ridussero a vivere in una piccola casa verso la porta alla Croce, lasciando la cura del rimanente al capoccia del traffico, secondo il volere che il padre aveva manifestato prima di morire.

Note

  1. Varchi Lib. III.
  2. Malatesta Baglioni.
  3. Dante da Castiglione.
  4. Niccolò Machiavelli
  5. Francesco Ferrucci.
  6. Michelangiolo Buonarroti.
  7. «Di un’eroica benchè povera donna da Latera in val di Sieve presso a Barberin di Mugello, moglie e madre di venticinque anni, si racconta una scena lacrimevole dal Rondinelli nella sua Relazione del contagio stato in Firenze dal 1630 al 1633.» La qual contadina, per nome Elisabetta, essendo stata attaccata dalla peste dei Gavoccioli (V. Boccaccio descrizione della Peste del 1348) ebbe il coraggio di abbandonare semiviva la casa del marito ed i suoi teneri figli per timore di comunicar loro il contagioso morbo; sicchè strascinatasi così malata all’abitazione del becchino della parrocchia, lo scongiurò, per tema di non impestare gli oggetti del suo amore, a volerla seppellire così moribonda come era. Questi sorpreso da sì straordinario affetto che la induceva a far ciò, procurò invano consolarla, sicchè adagiatasi in una stanza presso la tomba, poche ore dopo spirò laddove fu seppellita.» Repetti, nel suo pregevolissimo Dizionario Geogr. Fisico Storico della Toscana, V. II, pag. 657.