Scritti sulla storia della astronomia antica - Volume II/III. - Appendice - Rassegne bibliografiche, traduzioni/XVIII. - A proposito di una storia dei sistemi planetari da Talete a Keplero

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XVIII. - A proposito di una storia dei sistemi planetari da Talete a Keplero

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XVIII. - A proposito di una storia dei sistemi planetari da Talete a Keplero
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XVIII.

A PROPOSITO DI UNA STORIA

DEI SISTEMI PLANETARI DA TALETE A KEPLERO

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Dalla Rivista di Astronomia e Scienze Affini — Bollettino della Società Astronomica Italiana. Anno II, 1908. Torino. [p. 329 modifica]



Seguire nell’ordine dei secoli il progressivo svolgimento delle idee più o meno razionali, che prevalsero in vari tempi circa la struttura generale dell’universo; rendersi conto delle costruzioni ipotetiche, con cui si tentò di spiegare i grandi movimenti che in esso appaiono; descrivere insomma le vicende della cosmologia geometrica e meccanica fino al suo ultimo stadio, rappresentato dalla teoria della gravitazione, è un grande e bellissimo argomento, che sempre ha destato l’interesse così dei filosofi come degli astronomi. È una storia di venticinque secoli, che comincia con Talete e, per quanto riguarda il sistema nostro planetario, si può dire finita con Newton o coi continuatori di Newton.

Parlando di svolgimento storico, naturalmente non si tien conto di quella specie di cosmologia, che è una pura rappresentazione ingenua delle apparenze, combinata spesso con idee fantastiche e mitologiche; la quale sempre fu, ed ancora è, la cosmologia della immensa maggioranza degli nomini. Qui s’intende accennare alla cosmologia, che ha fatto parte delle speculazioni filosofiche e delle ricerche scientifiche positive; alla cosmologia razionale, che è una interpretazione dei fenomeni dedotta dall’osservazione prendendo per base certi principi fondamentali. Come tale essa ha percorso, nel suo svolgersi, tre principali periodi. Nel primo prevalsero speculazioni fisiche di natura più o meno arbitraria; nel secondo la struttura dell’universo fu trattata principalmente come un puro problema di geometria; nel terzo la combinazione dello studio geometrico con quello delle leggi fisiche ha condotto alla definitiva soluzione del problema, almeno in quanto concerne i movimenti di sistema planetario. [p. 330 modifica]

Il dott. Dreyer, Direttore dell’Osservatorio astronomico di Armagh (Irlanda) ha intrapreso di trattare questo seducente argomento, e ci da in questo suo volume1 la storia dei sistemi planetari da Talete fino a Keplero; cosa che forse prima di lui non era stata tentata da alcuno2. Il suo scopo principale è stato di rettificare molte leggende fantastiche ed erronee correnti ancora oggi sull’argomento, non solo in opere generali di storia scientifica, ma anche in libri aventi per oggetto speciale l’astronomia.

Dopo aver rapidamente indicato quel poco che si sa o si congettura intorno alle idee cosmografiche dei Babilonesi, degli Egiziani, degli Ebrei e dei Greci dell’età omerica, egli passa in rassegna le opinioni professate intorno alla struttura dell’universo dai più antichi filosofi greci. In queste opinioni all’interpretazione mitica già si trova surrogata una interpretazione fisica e meccanica; ed in alcuna di esse poi si manifesta chiaramente la tendenza a ridurre e coordinare i fenomeni più salienti del mondo fisico ad un unico principio. Tali sono le curiose costruzioni di Anassimandro, le quali (per quanto si può intendere dalle imperfette notizie che ne abbiamo) sembrano concepite nell’intento di ridurre il moto diurno e il moto annuo del Sole ad un unico meccanismo, e ad un altro meccanismo il moto diurno ed il moto mensile della Luna. Sembra che Anassimandro avesse qualche idea della convessità della Terra, ed è certo che fu il primo a considerarla come [p. 331 modifica]un corpo di dimensioni finite, isolato nello spazio da tutte le parti. Nella scuola di Pitagora a quest’idea si aggiunse quella di forma sferica, che Parmenide pare fosse il primo ad enunciare per iscritto. Questi due concetti, dell’isolamento della Terra nello spazio occupato dai corpi celesti e della sua forma rotondeggiante, sono da considerare come scoperte di primo ordine: soltanto col prenderli per base è stato possibile ai Greci di costruire un’astronomia teoretica, al che nessun altro popolo dell’antichità ha saputo arrivare. Gli stessi Babilonesi, che pure furono così diligenti osservatori e così abili calcolatori, non giunsero mai ad una vera teoria, ma sempre dovettero limitarsi a formular regole puramente empiriche per calcolare il moto apparente dei corpi celesti, senza mai aspirare a rendersi conto del loro moto reale. Perciò ai Greci e non ai Babilonesi dobbiamo ascrivere i primi tentativi di ordinare i moti celesti in un vero sistema planetario.

Nel secolo V prima di Cristo vediamo comparire due di tali sistemi, entrambi di origine Pitagorica. L’uno supponeva il principio motore dell’universo esser raccolto nel centro, ed è il sistema del fuoco centrale, di cui fu, se non autore, certo divulgatore Filolao. L’altro è il sistema puramente geocentrico, il quale era già noto a Timeo locrese, e fu poi da Platone posto come base della sua cosmologia; in esso l’anima del mondo ed il principio motore si supponeva distribuito in tutte le parti dell’universo. Il sistema di Filolao e le idee di Platone sono esposte molto bene dall’autore seguendo principalmente gli studi di Boeckh, il quale più di ogni altro ha contribuito ad illustrare questa materia, ed a darle quel grado di certezza storica, di cui essa è ancora suscettibile.

Viene in seguito una assai chiara esposizione delle sfere omocentriche di Eudosso, delle quali la vera costituzione non fu intesa dagli storici dell’astronomia che quando ad Ideler riuscì di mostrarne il principio fondamentale. A differenza dei precedenti, questo è un sistema puramente geometrico, destinato ad ottenere una rappresentazione approssimativa dei principali fenomeni del mondo planetario. È la prima volta che questo ingegnosissimo ed elegantissimo fra tutti i sistemi dei Greci viene esposto in un’opera storica di carattere generale, ed è la prima volta che ad esso si dà il debito luogo nell’astronomia dei Greci, rendendo ai meriti del suo autore la dovuta giustizia. Al sistema di Eudosso, perfezionato da [p. 332 modifica]Callippo, si appoggiano le idee cosmologiche di Aristotele; il quale ne modificò la struttura in guisa da adattarlo alla sua idea, che il principio motore dell’universo dovesse trovarsi sulla circonferenza di esso e non al centro.

Il capitolo VI, intitolato Eraclide ed Aristarco, spiega l’evoluzione d’idee cosmologiche avvenuta in Grecia nei cento anni che seguirono la morte di Platone (347 av. Cristo). Al cominciare di questo intervallo Eraclide Pontico proclama categoricamente l’immobilità del cielo stellato e la rotazione diurna della Terra; pone inoltre nel Sole il centro della rivoluzione di almeno due pianeti, Mercurio e Venere. Alla fine del medesimo intervallo Aristarco di Samo già è arrivato a ravvisare nel sistema eliocentrico (che noi chiamiamo Copernicano) il modo più semplice e più elegante di rappresentare tutti i fenomeni principali dei movimenti planetari. In questo intervallo cade ancora l’invenzione degli eccentri mobili e degli epicicli, dei quali Apollonio, poco dopo Aristarco, investigava le geometriche proprietà. Dalle speculazioni dei filosofi il problema del sistema cosmico era passato alle ricerche rigorose dei geometri; i quali presto giunsero a riconoscere, esser quello un problema di moti relativi, capace di diverse soluzioni. Al geometra l’ufficio di cercare e di proporre tali soluzioni: al fisico quella di scegliere fra esse la più conveniente alla natura delle cose.

Sebbene di tutto questo movimento d’idee non ci rimangano che poche ed imperfette notizie, tuttavia è ancora possibile rintracciare l’ordine logico, per cui date le posizioni di Eraclide Pontico, si potè giungere al concetto eliocentrico proclamato da Aristarco. Il punto di partenza fu l’aver rilevato che il sistema d’Eudosso era insufficiente a spiegare le grandi variazioni di splendore osservabili in Marte ed in Venere, e la necessità di rendersi conto di tali variazioni. L’idea dell’eccentro mobile, suggerita molto probabilmente dalle osservazioni di Marte, ha servito qui come ponte di passaggio. Il Dreyer attribuisce ad Aristarco tutto intiero il merito di questo passaggio; ed è certo che dagli antichi egli ne fu riconosciuto generalmente come primo ed unico autore. Tuttavia esistono testimonianze, le quali permettono di pensare che allo studio dei vari problemi connessi con questo argomento abbiano preso parte, non solo Eraclide stesso, ma anche i matematici Autolico ed Aristotero (fiorirono intorno al 300 prima di Cristo), i quali [p. 333 modifica]d’alcuno di tali problemi certamente si occuparono, ed in scritti speciali oggi perduti ne fecero pubblica discussione. Aristarco è da credere sia stato quegli, che trasse le ultime conclusioni, e fra le altre cose fece vedere come nel sistema eliocentrico si presenti la varietà dei giorni e delle notti, e la teoria delle stagioni. Egli rispose ancora alle obbiezioni dedotte dalla parallasse delle stelle fisse, alla quale del resto pare già avesse provveduto Eraclide, col supporre infinito il mondo.

In una breve rassegna è impossibile dar pieno conto di tutte queste particolarità così interessanti per la storia dell’ingegno umano, e seguire l’autore nella esposizione di ciò che diventarono le ipotesi geometriche sul sistema del mondo nelle mani di Apollonio, di Ipparco e di Tolomeo. Qui gli eccentri fissi e mobili e gli epicicli sono diventati strumenti d’uso corrente per rappresentare qualunque anomalia, press’a poco come oggi nell’Astronomia e nella Fisica si applicano dappertutto la serie di seni e coseni e le funzioni sferiche. In quel tempo cadono altresì i tentativi di determinare, oltre alla disposizione del sistema cosmico, anche le dimensioni delle sue diverse parti. Un discreto successo era stato raggiunto da Eratostene nella sua misura della Terra, e da Ipparco nella determinazione della distanza e grandezza della Luna. Ma della distanza del Sole non si cominciò ad aver un’adeguata idea che alla fine del secolo XVII.

Il dovere dello storico obbliga l’autore ad accompagnare le idee cosmologiche nel loro moto retrogrado attraverso i secoli del Medio Evo, durante i quali la luce della scienza, quasi del tutto estinta in Occidente, fu conservata più o meno fedelmente presso le grandi nazioni orientali, e principalmente presso gli Arabi. Questi ultimi nei loro calcoli generalmente si attennero alle teorie dell’Almagesto, modificando soltanto le costanti secondo le nuove osservazioni, senza introdurre del resto novità di molta importanza. Ma dopo che le teorie aristoteliche ebbero acquistato favore anche presso di loro, si nota una tendenza a ritornare verso le ipotesi omocentriche adottate come sue da quel gran filosofo. Interessanti sono le notizie che porge l’autore sulle innovazioni proposte nel secolo XII da Ibn Badja di Saragozza, il quale proponeva l’abolizione degli epicicli; e su quelle di Ibn Tofeil di Granata e del suo discepolo Alpetragio, i quali, aboliti anche gli eccentri, [p. 334 modifica]ritornarono a dottrina puramente omocentrica. Anche Averroè non era soddisfatto delle ipotesi tolemaiche. In Oriente Nassir-Eddin (secolo XIII) immaginò un suo proprio sistema composto di sfere centrate ed eccentriche in tanto numero e con movimenti così complicati, da non potersi certamente considerare come un progresso rispetto alle ipotesi dell’Almagesto. Nessuno però di questi elaborò completamente le proprie teorie, e le condusse al punto da derivarne un calcolo della posizione degli astri e da cimentarle colle osservazioni. Lo stesso dicesi dei sistemi omocentrici esposti dal Fracastoro e da G. B. Amici ancora nel secolo XVI, dei quali pure il nostro autore cerca di dare qualche idea. Tutti questi tentativi di riforma nulla hanno giovato a rettificar le idee, anzi devono considerarsi come inutili al progresso della scienza vera. Tutti caddero presto in dimenticanza, come frutti disseccati prima di giungere a maturazione.

I quattro ultimi capitoli dell’opera sono consacrati ad esporre ciò che giustamente fu chiamato la Riforma dell’Astronomia. Questa riforma fu opera di una serie di grandi uomini, i quali si succedettero sulla scena nell’ordine e nel tempo in cui il concorso di ciascuno era più necessario. Copernico aveva bensì dimostrato, che coll’ipotesi eliocentrica era possibile rappresentare i fenomeni con precisione uguale od anzi superiore a quella dell’Almagesto; ma per raggiungere questo intento non ebbe altri strumenti a sua disposizione, che gli eccentri e gli epicicli degli antichi. La maggior semplicità della sua costruzione non era quindi così evidente come apparve più tardi; onde fu detto giustamente che Copernico in realtà era assai più ricco di quanto egli stesso credesse. Era inoltre questa costruzione aggravata da varie complicazioni inutili, non ultima delle quali era l’introduzione di ipotesi speciali per spiegare il fenomeno affatto immaginario della trepidazione. Nè il grado di precisione delle tavole copernicane superava di molto quello delle tavole precedenti; ciò non tanto per vizio inerente alla teoria, quanto perchè fondate sopra osservazioni troppo scarse di numero e troppo manchevoli dal lato della precisione. Ma pochi anni dopo Copernico venne Tycho Brahe coi suoi grandi ed accurati istrumenti a preparare quel materiale di osservazioni copiose ed esatte, quale appunto il momento richiedeva; e fortuna volle, che questo materiale al mancar di Ticone fosse affidato alle mani di quel raro geometra [p. 335 modifica]e raro calcolatore, che fu Giovanni Keplero; il cui genio fu altrettanto fertile nel creare nuove ipotesi, quanto sagace ed imparziale nel farne l’esame critico e nel porle a cimento colle osservazioni. Egli fu, che dei moti planetari trovò finalmente la genuina espressione geometrica, quella che al suo tempo sola poteva considerarsi come conforme al vero. Alle leggi puramente geometriche di Keplero mancava ancora il principio fisico-meccanico. Allora venne Galileo a mostrare coll’esempio, in qual modo si deve procedere all’analisi del moto; egli stabilì i principi fondamentali della dinamica, partendo dai quali, pochi anni dopo Galileo, Newton coronò l’edifizio colla sua teoria della gravitazione, fondamento anche oggi ed in avvenire di tutta la scienza dei movimenti celesti. Tutto questo fu lavoro di un secolo e mezzo, trascorso dall’anno 1532, in cui Copernico compiva il suo libro De revolutionibus corporum coelestium, all’anno 1687, in cui Newton pubblicò la prima edizione dei Philosophiae naturalis Principia mathematica.

Le linee generali di questa stupenda epopea scientifica son conosciute, e sarebbe inutile farne qui una rassegna inevitabilmente troppo breve ed incompleta. Il lettore troverà nel libro di Dreyer, esposte con piena e sicura cognizione dei fatti e con equo giudizio, le vicende, i trionfi ed i contrasti, e l’ultima finale vittoria delle verità sostenute da quegli atleti del pensiero. A partir da quell’epoca la nostra conoscenza del sistema planetario, benchè non ancora completa in tutti i particolari, ha raggiunto tuttavia il più alto grado di certezza che nelle scienze fisiche è possibile desiderare; i suoi principi sono stabiliti in modo incontrastabile. Ma lo svolgimento di tali principi e la loro applicazione a tutte le parti del sistema continuò ad occupare i matematici dei secoli XVIII e XIX, e non si può dire che sia pienamente compiuta anche adesso. Dapprima furono arrolate sotto le bandiere della gravitazione anche le comete, e più tardi le stelle cadenti. Diversi fenomeni minori, dei quali prima di Newton nessuno avrebbe sospettato la causa, quali il moto dei nodi lunari, quello degli apsidi lunari e solari, le maggiori ineguaglianze del moto della Luna, la precessione degli equinozi, il flusso e riflusso del mare, si mostrarono quali pure e semplici conseguenze del principio della gravitazione. Questo principio fu poi la radice di una quantità d’altre scoperte di fatti grandissimi prima neppur sospettati, quali per esempio la figura sferoidale della Terra [p. 336 modifica]e dei corpi celesti, le perturbazioni periodiche e secolari dei pianeti e dei loro satelliti.

Non parlo delle scoperte di Urano, di Nettuno, dei piccoli pianeti, e di tanti satelliti nuovi; le quali hanno dato e daranno materia a calcoli laboriosi ed al perfezionamento degli sviluppi matematici della teoria, ma nulla aggiungeranno ai fatti fondamentali che ne sono la base.

Con Newton lo studio del sistema planetario ha cambiato natura; la storia dei suoi ulteriori svolgimenti richiede altro genere di esposizione. L’autore quindi con buona ragione ha fissato alla scoperta della gravitazione il termine del suo racconto3. Il quale del resto procede dovunque con quella perspicua sobrietà e con quella nobile semplicità che si addice ad un tale argomento. Concludo la mia recensione coll’esprimere il desiderio, che di questo libro, tanto eccellente per la sostanza e per la forma, si faccia presto una traduzione italiana.



Note

  1. History of the Planetary Systems from Thales to Kepler by J. L. E. Dreyer. Cambridge: University Press, 1906, XII-432 pagine in 8° con figure.
  2. Ad onor del vero sia detto, che una parte della stessa materia era stata trattata da Apelt, professore di filosofia e di matematica in Jena, nel suo bel libro Die Reformation der Sternkunde, pubblicato nel 1852. Le epoche dell’antichità classica erano pure state investigate da H. Martin in numerose memorie speciali. A queste medesime epoche si riferiscono i profondi lavori di L. Ideler, A. Hoeckh, P. Tannery, F. Hultsch e di altri, delle cui investigazioni il Dreyer ha naturalmente esposto e discusse i risultati colla maggior cura. Per l’epoca moderna dopo Copernico, egli ha profittato dei recenti lavori su Copernico, su Ticone, su Keplero, su Galileo. La storia della gran scoperta di Newton, e dei perfezionamenti posteriormente introdotti nella nostra cognizione del sistema solare è materia troppo diversa dall’altra e da trattarsi con altro metodo e con altro stile: perciò opportunamente l’autore non ha condotto la sua narrazione oltre ai tempi di Keplero e di Galileo.
  3. La storia della gravitazione universale da Newton in poi si trova esposta da Laplace nei libri XI-XVI della sua Meccanica Celeste per l’intervallo che comprende i lavori di Newton e dei suoi successori del secolo XVIII, compresi Lagrange e Laplace. Grant, nella sua History of the Physical Astronomy, trattato tutto l’intervallo di quasi 200 anni, che comincia con Newton e si chiude coi lavori di Leverrier.