Semiramide/Atto primo

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Atto primo

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Interlocutori Atto secondo

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ATTO PRIMO

SCENA I

Gran portico del palazzo reale corrispondente alle sponde dell’Eufrate. Trono da un lato, alla sinistra del quale un sedile piú basso per Tamiri. In faccia al suddetto trono tre altri sedili. Ara nel mezzo col simulacro di Belo, deitá de’ caldei. Gran ponte praticabile ornato di statue. Vista di tende e soldati sull’altra sponda.

Semiramide creduta Nino, con guardie; poi Sibari.

Semiramide. Olá! sappia Tamiri

che i principi son pronti,
che fuman l’are, che al solenne rito
di giá l’ora s’appressa,
che il re l’attende. (ricevuto l’ordine, parte una guardia: nel mentre che parla Semiramide, esce Sibari, guardandola con meraviglia)
Sibari.   (Io non m’inganno: è dessa!)
Lascia che a’ piedi tuoi... (s’inginocchia)
Semiramide.   Sibari! (Oh dèi!)
S’allontani ciascun. (le guardie si ritirano in lontano)
  (Che incontro!) Sorgi.
Dall’Egitto in Assiria
quale affar ti conduce?
Sibari.   È noto altrove
che la real Tamiri,
dell’impero de’ battri unica erede,
qui scegliendo lo sposo, oggi decide
l’ostinate contese,
che il volto suo, che il suo retaggio accese.

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Sperai fra queste mura

tutta l’Asia mirar; ma non sperai
in sembianza viril sul trono assiro
di ritrovar la sospirata e pianta
principessa d’Egitto
Semiramide.
Semiramide.   Ah! taci: in questo luogo
Nino ciascun mi crede, e il palesarmi
vita, regno ed onor potria costarmi.
Sibari. Che ascolto! È teco Idreno?
Che fa? dov’è?
Semiramide.   Di quell’ingrato il nome
non rammentarmi. Abbandonai con lui
la patria, il regno, il genitor, le nozze
del monarca numida;
e pur, nol crederai, l’istesso Idreno,
che m’indusse a fuggir, tentò svenarmi.
Sibari. Quando?
Semiramide.   La notte istessa
ch’io seco andai, del Nilo
dalla pendente riva
ei mi gettò ferita e semiviva.
Sibari. Ma la cagione?
Semiramide.   Oh Dio!
La cagione io non so.
Sibari.   (La so ben io.)
Come restasti in vita?
Semiramide.   Unica e lieve
fu la ferita; e la selvosa sponda
co’ pieghevoli salci
la caduta scemò, mi tolse a morte.
Sibari. Qual fu poi la tua sorte?
Semiramide.   In mille guise
spoglia e nome cangiai;
scorsi cittadi e selve;
fra tende e fra capanne

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il brando strinsi, pascolai gli armenti,

or felice, or meschina,
pastorella, guerriera e pellegrina;
finché il monarca assiro,
fosse merito o sorte,
del talamo real mi volle a parte.
Sibari. E all’estinto tuo sposo
non successe nel regno il picciol Nino?
Semiramide. Il crede ognun: la somiglianza inganna
del mio volto col suo.
Sibari.   Ma come il soffre?
Semiramide. Effeminato e molle
fu mia cura educarlo.
Sibari.   (E quando spero
miglior tempo a scoprirle i miei martíri?
Ardir!) Sappi...
Semiramide.   T’accheta: ecco Tamiri.
(vedendo venir Tamiri)

SCENA II

Tamiri con séguito, e detti.

Tamiri. Nino, deve al tuo zelo

oggi l’Asia il riposo, io degli affetti
la libertá.
Semiramide.   Ma Babilonia deve
alla bellezza tua l’aspetto illustre
de’ principi rivali.
(una guardia va sul ponte, e accenna che vengano i principi)
  Al fianco mio,
principessa, t’assidi,
e i merti di ciascun senti e decidi.

(Semiramide va sul trono; Tamiri a sinistra nel sedile; Sibari è in piedi a destra. Intanto, preceduti dal suono di stromenti barbari, passano il ponte Mirteo, Ircano e Scitalce col loro séguito: si fermano fuori del portico, e poi entrano l’un dopo l’altro, quando tocca loro a parlare)
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SCENA III

Mirteo, Ircano, poi Scitalce, e detti.

Mirteo. Al tuo cenno, gran re, deposte l'armi,

si presenta Mirteo.
L’Egitto...
Ircano.   Odi. La bella, (a Mirteo, interrompendolo)
che fra noi si contende, è quella?
Mirteo. (ad Ircano)  È quella.
L’Egitto è il regno mio... (a Semiramide)
Ircano. Del Caucaso natio (a Semiramide, interrompendo Mirteo)
vien dal giogo selvoso
l’arbitro degli sciti amante e sposo.
Mirteo. Ircano, a quel ch’io veggo,
tu d’Assiria i costumi ancor non sai.
Ircano. Perché?
Semiramide.   Tacer tu déi:
parli il prence d’Egitto.
Ircano. In Assiria il parlar dunque è delitto? (si ritira indietro)
Mirteo. L’Egitto è il regno mio; sospiri e pianti,
rispetto e fedeltá sono i miei vanti.
Semiramide. Siedi, principe, e spera: a lei, che adori,
non è il tuo merto ascoso. (Mirteo va a sedere)
Qual ti sembra Mirteo? (piano a Tamiri)
Tamiri. (piano a Semiramide)  Molle e noioso.
Semiramide. Or narra i pregi tuoi. (ad Ircano)
Ircano. Dunque, a vostro piacer...
Tamiri. (al medesimo)  Parla, se vuoi.
Ircano. Si parli. A farmi noto
basta affermar ch’io sono
l’opposto di colui. Sospiri e pianti
non son pregi fra noi. Pregio allo Scita
è l’indurar la vita
al caldo, al gel delle stagioni intere,
e domar, combattendo, uomini e fere.

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Tamiri. Si vede.

Semiramide.   Or siedi, Ircano. (Ircano va a sedere)
Qual ti sembra costui? (piano a Tamiri)
Tamiri. (piano a Semiramide)  Barbaro e strano.
Semiramide. Venga Scitalce.
Sibari.   (Oh stelle! io veggo Idreno!
Qual arrivo funesto!)
Semiramide. Sibari, oh Dio! questo è Scitalce?
  (piano a Sibari, vedendo Scitalce)
Sibari.   È questo.
Semiramide. Sará. (dopo averlo considerato)
Scitalce.   (Numi, che volto!) Il re novello,
Ircano, dimmi, è quel ch’io miro?
Ircano.   È quello.
Scitalce. Sará. (dopo aver considerata Semiramide)
Semiramide.   Prence, il tuo nome
dunque è Scitalce?
Scitalce.   Appunto.
Semiramide. (Qual voce!)
Scitalce.   (Qual richiesta!
io gelo.)
Semiramide.   (Io vengo meno.)
Scitalce. (Semiramide è questa.)
Semiramide.   (È questi Idreno.)
Fin dall’indico clima
ancor tu vieni alla real Tamiri
il tributo ad offrir de’ tuoi sospiri?
Scitalce. Io... (Che dirò?) Se venni...,
non sperai... Mi credea... Ma veggo... (Oh dèi!)
Semiramide. (Si confonde il crudel sugli occhi miei.)
Tamiri. Siedi, Scitalce. Il turbamento io credo
figlio d’amor; né a paragon d’ogni altro
picciol merito è questo.
Scitalce. Ubbidisco. (si ritira lentamente verso il sedile)
Semiramide.   (Infedel!)
Scitalce.   (Sogno o son desto?)

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Ma veramente è quegli

il successor della corona assira? (ad Ircano)
Ircano. Non tei dissi?
Scitalce.   Sará. (siede)
Ircano.   Questi delira.
Tamiri. Nino, perché non chiedi (piano a Semiramide)
qual mi sembri costui?
Semiramide. (piano a Tamiri)  Perché ravviso
in quel volto fallace
segni d’infedeltá.
Tamiri. (piano a Semiramide) Ma pur mi piace.
Semiramide. (Oh gelosia!)
Ircano.   Che piú s’attende? È tempo
che Tamiri decida.
Tamiri. Son pronta.
Semiramide.   (Aimè!) Ma prima
giurar si dee di tollerar con pace
la scelta d’un rivale. Al nume, all’ara,
principi, andate.
Mirteo.   Ogni tuo cenno è legge.
  (s’alza e va all’ara)
Scitalce. (Son fuor di me.) (fa lo stesso)
Semiramide.   (Spergiuro!)
Mirteo. Io l’approvo.
(Scitalce e Mirteo pongono la mano sull’ara, stando un per
parte)

Scitalce.   Io l’affermo.
Ircano. (s’alza, ma non parte dal suo luogo) Io l’assicuro.
Semiramide. Ircano, al nume, all’ara
non t’avvicini?
Ircano.   No; giurai, né voglio
seguir l’altrui costume.
Degli sciti ecco l’ara ed ecco il nume.
  (ponendosi la mano al petto ed accennando la spada)
Tamiri. Io l’ardire d’Ircano,
di Mirteo l’umiltá veggo ed ammiro;
ma un non so che...

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Semiramide.   Sospendi

la scelta, o principessa.
Tamiri. Abbastanza pensai.
Ircano.   Dunque favelli.
Semiramide. No, principi; v’attendo (s’alza, e seco tutti)
entro la reggia all’oscurar del giorno:
ivi a mensa festiva
sarem compagni, e spiegherá Tamiri
ivi il suo cor. Voi tollerate intanto
il breve indugio.
Mirteo.   Io non mi oppongo.
Ircano.   Ed io
mal soffro un re de’ miei contenti avaro.
Semiramide. Desiato piacer giunge piú caro.
          Non so se piú t’accendi (a Tamiri)
     a questa o a quella face;
     ma pensaci, ma intendi:
     forse chi piú ti piace,
     piú traditor sará.
          Avria lo stral d’Amore
     troppo soavi tempre,
     se la beltá del core
     corrispondesse sempre
     del volto alla beltá. (parte con Sibari)

SCENA IV

Tamiri, Mirteo, Ircano e Scitalce.

Scitalce. (Che vidi! che ascoltai!

Semiramide vive!
Ma non l’uccisi io stesso?
O sognavo in quel punto, o sogno adesso.)
Tamiri. Sí pensoso, o Scitalce? Ami o non ami?
Sprezzi o brami i miei lacci?
Da lunge avvampi e da vicino agghiacci?

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Scitalce. Perdonami, o Tamiri.

Se tu sapessi... Oh Dio!
Tamiri.   Parla.
Scitalce.   Se parlo,
piú confusa ti rendo.
Tamiri. O tutto mi palesa, o nulla intendo.
Scitalce.   Vorrei spiegar l’affanno,
     nasconderlo vorrei;
     e mentre i dubbi miei
     cosí crescendo vanno,
     tutto spiegar non oso,
     tutto non so tacer.
          Sollecito, dubbioso
     penso, rammento e vedo;
     e agli occhi miei non credo,
     non credo al mio pensier. (parte)


SCENA V

Tamiri, Mirteo ed Ircano.

Tamiri. Piú che ad ogni altro spiace

la dimora a Scitalce: ei pensa e tace.
Ircano. Non curar di quel folle:
godi di tua ventura,
che l’amor t’assicura oggi d’Ircano.
Non rispondi? Ne temi? Ecco la mano.
Mirteo. Che fai? Non ti rammenti
il comando reale?
Ircano.   E il re qual dritto
ha di frapporre a’ miei cortesi affetti
o limiti o dimore?
Tamiri. Che! Tu conosci amore? Il tuo piacere
è «domar, combattendo, uomini e fere».
Ircano. È ver; ma il tuo sembiante

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non mi spiace però: godo in mirarti,

e curioso il guardo
piú dell’usato intorno a te s’arresta.
Tamiri. Gran sorte inver del mio sembiante è questa!
          Che quel cor, quel ciglio altero
     senta amor, goda in mirarmi,
     non lo credo, non lo spero;
     tu vuoi farmi insuperbir:
          o pretendi, allor che torni
     ai selvaggi tuoi soggiorni,
     rammentar cosí per gioco
     l’amoroso mio martír. (parte)


SCENA VI

Ircano e Mirteo.

Ircano. La principessa udisti? Ella superba

va degli affetti miei. Misero amante!
Ti sento sospirar, ti veggo afflitto.
Cangia, cangia desio;
e per consiglio mio torna in Egitto.
Mirteo. Mi fai pietá. La tua fiducia insana,
il tuo rozzo parlar, con cui l’offendi,
ti rinfaccia Tamiri; e non l’intendi.
Ircano. Dunque in diversa guisa i loro affetti
qui trattano gli amanti? E quale è mai
questo vostro d’amor leggiadro stile?
Mirteo. Con lingua piú gentile
qui si parla d’amor; qui con rispetto
un bel volto si ammira;
si tace, si sospira,
si tollera, si pena,
l’amorosa catena
si soffre volentier, benché severa.

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Ircano. E poi si ottien mercede?

Mirteo.   E poi si spera.
Ircano. Miserabil mercé! No, d’involarti
il pregio di gentil non ho desio.
Ciascun siegua il suo stile; io sieguo il mio. (parte)


SCENA VII

Mirteo solo.

Felice te, se puoi

sopra gli affetti tuoi
regnar cosí! Ma non è ver: se un giorno
al par di me cadrai
in servitú d’una crudele e bella,
sarai men franco e cangerai favella.
          Bel piacer saria d’un core
     quel potere a suo talento,
     quando Amor gli dá tormento,
     ritornare in libertá.
          Ma non lice; e vuole Amore
     che a soffrir l’alma s’avvezzi,
     e che adori anche i disprezzi
     d’una barbara beltá. (parte)


SCENA VIII

Orti pensili.

Scitalce e Sibari.

Scitalce. Come! E tu non ravvisi

Semiramide in Nino? A me la scopre
il girar de’ suoi sguardi
placidi al moto, il favellar, la voce,

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la fronte, il labbro, e l’una e l’altra gota

facile ad arrossir; ma, piú d’ogni altro,
il cor, che al noto aspetto
subito torna a palpitarmi in petto.
Sibari. (Dèi! la conobbe.) Ah! no. Se fosse tale,
al germano Mirteo nota sarebbe.
Scitalce. No; ché bambino ei crebbe
nella reggia de’ battri.
Sibari.   In Asia ognuno
la crede estinta.
Scitalce.   Ah! piú d’ogni altro, amico,
io crederlo dovrei. Tutto fu vero
quanto svelasti a me. Nel luogo andai
destinato da lei; venne l’infida;
meco fuggí; ma poi
non lungi dalla reggia
l’insidie ritrovai. Cinto d’armati
v’era il rivale...
Sibari.   E il conoscesti? (con timore)
Scitalce.   Almeno
potrei sfogarmi in lui.
Sibari. (Torniamo a respirar: non sa ch’io fui).
Ma da tanti nemici
chi ti salvò?
Scitalce.   Fra l’ombre
del bosco e della notte
mi dileguai; ma prima
del Nilo in su la sponda
l’empia trafissi e la balzai nell’onda.
Sibari. Aimè!
Scitalce.   Da quel momento
pace non so trovar. Sempre ho sugli occhi,
sempre il tuo foglio, il mio schernito foco,
la sponda, il fiume, il tradimento, il loco.
Sibari. Il foglio mio! Forse lo serbi?
Scitalce.   Il serbo
per gloria tua, per mia difesa.

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Sibari.   Ah! pensa

alla mia sicurezza. È qui Mirteo:
potria per la germana
vendicarsi con me.
Scitalce.   Va’ pur sicuro:
a tutti il celerò. Ma corrisponda
alla mia la tua fé: non dir che Idreno
in Egitto mi finsi.
Sibari.   Io tel prometto.
Addio. (Torbido è il mare, il tempo è nero:
bisogna in tanto rischio un gran nocchiero.) (parte)


SCENA IX

Scitalce, Tamiri, indi Semiramide.

Scitalce. Chi sa? Forse il desio

ingannar mi potrebbe. Al re si vada;
si ritorni a veder... (in atto di partire)
Tamiri.   Dove, Scitalce?
Scitalce. Al monarca d’Assiria.
Tamiri.   Egli s’appressa:
férmati.
Scitalce.   (Oh Dio! Che dubitarne? È dessa.)
  (vedendo Semiramide)
Tamiri. Signor, brama Scitalce (a Semiramide)
teco parlar.
Semiramide.   (Vorrá scoprirsi.) Altrove
piacciati, o principessa,
portare il piè: tutta agli accenti suoi
lascia la libertá.
Tamiri.   Parto. (S’ei m’ami
scorgi... Chiedi...
Semiramide.   Va’ pur: so quel che brami.)
  (Tamiri parte)
(Siam soli; or parlerá.)

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Scitalce.   (Partí Tamiri;

or con me si palesa).
Semiramide. (Il rossor lo ritarda.)
Scitalce. (Teme quel cor fallace.)
Semiramide. (Tace e mi guarda!)
Scitalce.   (Ancor mi guarda e tace!)
Semiramide. Principe, tu non parli?
Impallidisci, avvampi e sei confuso?
Scitalce. Signor, nel tuo sembiante
una donna incostante,
che in Egitto adorai,
veder mi parve e mi turbò la mente:
quella crudel mi figurai presente.
Semiramide. Tanto simile a Nino
era dunque colei?
Scitalce.   Simile tanto,
che sotto un’altra spoglia
quell’infida direi che in te si annida.
Semiramide. Se fu simile a me, non era infida.
Scitalce. Ah! menzognera, ingrata... (alterato)
Semiramide.   Olá! Scitalce
cosí meco ragiona?
Scitalce. Io m’ingannai: perdona (si ricompone)
uno sfogo innocente;
quella crudel mi figurai presente.
Semiramide. Pur, se avessi presente
allo sguardo colei, come al pensiero,
forse, chi sa? non ti vedrei sí fiero.
Scitalce. (Quale audacia! Comprenda
alfin ch’io non la curo). Ah! se tu vuoi,
questo mio core oppresso
felice tornerá.
Semiramide.   (Si scopre adesso.)
Libero parla.
Scitalce.   Oh Dio!
troppo ardito sarei.

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Semiramide.   La téma è vana:

parla; di me ti puoi fidar.
Scitalce.   Vorrei
pietosa a’ miei martiri,
mercé del tuo favor, render Tamiri.
Semiramide. (Oh ingrato! oh disleale!)
Scitalce.   Ella è il mio foco;
adoro il suo sembiante...
Semiramide. Non piú. (Fingiam.) Ti compatisco amante.
A parlar con Tamiri,
ogni tua brama a secondar m’appresto.
Scitalce. Torna appunto Tamiri: il tempo è questo.
Semiramide. (Oh importuno ritorno!)
Scitalce.   Or dir le puoi
ch’è l’amor mio, ch’è il mio tormento estremo.
Semiramide. Allontánati e taci. (Io fingo e fremo.)
  (Scitalce si ritira indietro)


SCENA X

Tamiri e detti.

Tamiri. Signor, quali predici

venture all’amor mio?
Semiramide.   Poco felici.
Sudai finora invano
con Scitalce per te. Di lui ti scorda:
non è degno d’amor.
Tamiri.   Perché?
Semiramide.   Ti basti
saper che non si trova
il piú perfido core, il piú rubello.
Scitalce. Signor, parli di me? (avanzandosi)
Semiramide.   Di te favello.
Scitalce. (E pure impallidisce!) (ritirandosi indietro)
Tamiri.   E s’ei non m’ama,

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perché si fa rivale

d’Ircano e di Mirteo? Chiedasi...
Semiramide. (arrestandola)  Ah! ferma:
non gli parlar, se la tua pace brami.
Tamiri. Ma la cagion?
Semiramide.   Tu sei
innocente in amore, ed egli ha l’arte
d’affascinar chi sue lusinghe ascolta.
Scitalce. Nino... (appressandosi)
Semiramide.   Eh! taci una volta; (con impeto)
non turbarci così.
Scitalce.   Ma qui si tratta
del mio riposo, e compatir tu déi...
Tamiri. Ma, Scitalce, io vorrei
chiaro intendere alfin quai son gli affetti
che nascondi nel seno.
Scitalce.   In seno ascondo
un incendio per te; l’unico oggetto
sei tu di mia costanza,
il mio ben, l’idol mio, la mia speranza.
Semiramide. (Perfido!)
Tamiri.   Io non intendo
se siano i detti tuoi finti o veraci;
eccedi e quando parli e quando taci.
Scitalce.   Se intende sì poco
     che ho l’alma piagata,
     tu dille il mio foco, (a Semiramide)
     tu parla per me.
     (Sospira l’ingrata,
     contenta non è.)
          Sai pur che l’adoro, (alla stessa)
     che peno, che moro,
     che tutta si fida
     quest’alma di te.
     (Si turba l’infida,
     contenta non è.) (parte)

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SCENA XI

Semiramide e Tamiri.

Tamiri. Udisti il prence? Egli è diverso assai

da quel che lo figuri.
Semiramide.   Ah! tu non sai
quanto a fingere è avvezzo.
Tamiri. Pur non sembra cosí.
Semiramide.   Di quel crudele
non fidarti, o Tamiri: altro interesse
non ho che il tuo riposo.
Tamiri.   Io ben m’avvedo
del zelo tuo; ma sí crudel nol credo.
          Ei d’amor quasi delira,
     e il tuo labbro lo condanna?
     Ei mi guarda e poi sospira,
     e tu vuoi che sia crudel?
          Ma sia fido, ingrato sia:
     so che piace all’alma mia;
     e se piace allor che inganna,
     che sará quando è fedel? (parte)


SCENA XII

Semiramide, poi Ircano e Mirteo.

Semiramide. Sará dunque Scitalce

sposo a Tamiri? E soffrirò che, ad onta
del nostro affetto antico...
Principi, io vi predico
gran disastri in amor. Se pigri siete,
la destra di Tamiri
Scitalce usurperá. Correte a lei,
ditele i vostri affanni,

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pietá chiedete, e, se pietá bramate,

qualche stilla di pianto ancor versate.
Ircano. Non è sí vile Ircano.
Mirteo. A placar quell’ingrata il pianto è vano.
Semiramide.   Ah! non è vano il pianto
     l’altrui rigore a frangere:
     felice chi sa piangere
     in faccia al caro ben!
          Tutte nel sen le belle,
     tutte han pietoso il core;
     e presto sente amore
     chi ha la pietá nel sen. (parte)


SCENA XIII

Ircano e Mirteo.

Mirteo. Che pensi, Ircano?

Ircano.   Hai tu coraggio?
Mirteo.   Il brando
risponderá, quando tu voglia.
Ircano.   Andiamo
l’importuno rivale
uniti ad assalir. Pur che si vinca,
lode al par del valor merta l’ingegno.
Mirteo. Sol d’un tuo pari il bel pensiero è degno. (parte)


SCENA XIV

Ircano solo.

Quanti inventan costoro

incomodi riguardi! Eh! ch’io non venni
con essi a delirar. Tremi Scitalce;
la sua caduta è certa,
o frodi io tenti o violenza aperta.

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          Talor se il vento freme

     chiuso negli antri cupi,
     dalle radici estreme
     vedi ondeggiar le rupi,
     e le smarrite belve
     le selve abbandonar.
          Se poi della montagna
     esce dai varchi ignoti,
     o va per la campagna
     struggendo i campi interi,
     o dissipando i voti
     de’ pallidi nocchieri
     per l’agitato mar.