Sotto il velame/Le rovine e il gran veglio/IX

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Le rovine e il gran veglio - IX

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Le rovine e il gran veglio - IX
Le rovine e il gran veglio - VIII Le rovine e il gran veglio - X
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IX.


Dante e Virgilio entrano in Dite “senza alcuna guerra„. La guerra c’era stata e l’ira c’era voluta, e un’alta ira animatrice d’una eroica fortezza: la fortezza di lui che già nella Eneide presentava la spada nuda alle ombre e ai mostri dell’Averno; di lui pio, le cui parole sono sante.1 Ora sono, al medesimo piano, presso a poco, della palude stigia, lungo gli spaldi della città roggia, in un cimitero.2 I coperchi delle arche sono alzati: nessuno fa guardia. È il fatto, per una parte, degl’ignavi del vestibolo, che non escono sebbene la porta sia aperta. E per l’altra è il fatto del limbo, anzi del nobile castello; che qui sono grandi e sapienti, e nessun male di loro si può raccontare, salvo che uno: mala luce.3 In verità sono eresiarche; e sono di loro i seguaci d’Epicuro4

               che l’anima col corpo morta fanno.

Quelli del limbo ebbero il lume che è tenebra. Peccarono per l’ignoranza originale. Questi ebbero mala [p. 249 modifica]luce. Dio splende a loro sin laggiù. Si direbbe ch’essi il lume che vien dal sereno, l’avessero avuto; che fossero redenti, insomma: in vero Farinata nomina il secondo Federico e il Cardinale, e si vede il Cavalcanti, e su un grande avello è il nome d’un papa; e la parola eresiarche porta a pensare a cristiani dissidenti, e non a pagani.

Pur v’è Epicuro.5 Dante forse lo considera come un eresiarca di quelle scuole filosofiche, che pur avanti il Cristianesimo, pur non potendo vedere l’alto Sole, avevano qualche lume, dirò, riflesso da Dio: quel lume che è simboleggiato nel fuoco e nella luce del nobile castello. Gli eresiarche, con quel barlume da Dio che splende loro anche nell’inferno, vedono ciò che è lontano e ciò che s’appressa o “è„, non vedono. Nella vita era il medesimo; e così in loro si osserva il contrappasso. Vedevano ciò che è lontano: erano in vero prudenti e savi imperatori, papi, uomini di parte e di guerra, dotti: ciò che è tanto vicino a noi che è in noi, non vedevano. In che differiscono dai sospesi nel limbo? In questo che essendo dentro Dite è punita in loro la malizia, di cui ingiuria è il fine; e non v’è fine senza volontà. Quella mala luce implica dunque l’inordinazione della volontà. Ma anche il difetto degli spiriti magni è volontario. Sì, ma quasi, ma in un certo modo, ma nel primo parente. In questi è del tutto e assolutamente e personalmente volontario, e si tratta del medesimo lume che è tenebra: ossia d’ignoranza. Ignoranza dunque volontaria. Però senza ingiuria. Gli eresiarche se avessero commesso ingiuria, [p. 250 modifica]sarebbero, per esempio, tra quelli che fecero forza nella Deitade6 o tra gli autori di scismi o anche tra i traditori. Il loro fu peccato omninamente speculativo.

Di loro non si ragiona nella partizione che fa Virgilio dei peccati e delle pene. E così non si ragiona, in quella, degl’ignavi del vestibolo e dei sospesi del limbo. D’un dei peccatori si dice che fu di quelli “che a ben far poser gli ingegni„, e che fu sì degno.7 A questo Dante desidera parlare, e da tempo, e gli mostra riverenza e ammirazione e anche pietà.8 Tutto ciò e con proprie parole e sopra tutto col fare dell’Uberti il più sublime e del Cavalcanti il più affettuoso de’ peccatori infernali; col persuadere a noi la riverenza e l’ammirazione e la pietà per loro. Inoltre lo sdegnoso è chiamato “magnanimo„9 cioè forte. Ed ecco che Farinata e gli altri sono il proprio contrario dei non forti che schiamazzano e gorgogliano alle falde della città; come Virgilio, pur magnanimo,10 e gli altri spiriti magni sono il proprio contrario degli sciaurati che corrono e gridano oltre il fiume. In verità gli sciaurati e i sospesi sono al loro posto, per la difficultas o infermità originate i primi, per l’ignoranza pur originale i secondi; e qui i fangosi sono fuor di Dite per l’infermità attuale, che li rese inetti alla giustizia, e i sepolti sono dentro Dite per ignoranza attuale o volontaria o mala, non ostante la loro giustizia.

Nel limbo Dante vede “la scuola di quel signor dell’altissimo canto„; ha dai grandi poeti, dopo che essi hanno un po’ ragionato con Virgilio, un [p. 251 modifica]salutevol cenno; è fatto della loro schiera, parla con loro di cose11

                                      che il tacere è bello
               sì com’era il parlar colà dov’era.

Avanti la tomba di Farinata egli apprende il proprio esilio,12 e la vanità del tentativo di ritorno. Gloria e dolore, connessi insieme, connettono il nobile castello e il cimitero. E del resto anche qui si parla di altezza d’ingegno.13 E come là si ragiona di fede, qui si parla di Beatrice:14

               La mente tua conservi quel ch’udito
               hai contra te: mi comandò quel saggio:
               ed ora attendi qui! E drizzò il dito.
               
               Quando sarai dinanzi al dolce raggio
               di quella, il cui bell’occhio tutto vede,
               da lei saprai di tua vita il viaggio.

A me basti osservare che qui come nel primo cerchio, si ricorda una sapienza massima; e che quel cerchio è il luogo tristo di tenebre, e che queste arche hanno un barlume che si ha a spegnere nel giorno dell’ira. E qui Virgilio dà al discepolo un consiglio di prudenza: ricordarsi ciò che ha udito quivi ma aspettar lume da Beatrice. E qui Virgilio prudentemente fa sostar Dante15

               sì che s’ausi prima un poco il senso
               al tristo fiato;

e qui l’ammaestra intorno ai peccati e alle pene, e [p. 252 modifica]gli ricorda i suoi studi, la sua Etica, la sua Fisica, e lo rimprovera dolcemente delle sue dimenticanze. C’è per i dannati, in questo cerchio, l’ignoranza, e per Dante la prudenza.

E si scende nel cerchietto dai tre gironi, dove è punita la malizia con forza o violenza. Nel primo girone, contro gli uomini; nel secondo, contro sè e contro le cose sue; nel terzo, contro Dio, la natura e l’arte. Per scendere c’è una rovina guardata da un’“ira bestiale„. Virgilio dice di averla spenta.16 Come la spense? Il savio grida ver lui, lo chiama bestia, gli ricorda la sua morte sotto la mazza di Teseo, gli ricorda lo scorno della sua sorella, gli ricorda le sue e altrui pene. Egli come toro ferito e non finito, non sa più gire; saltella qua e là, sì che mentre è in furia, Dante può scendere. L’ira quando è portata al sommo grado, rende impotente l’uomo.

Si direbbe che il Minotauro potrebbe rappresentare il vizio di Filippo Argenti, che volge i denti contro sè medesimo. Potrebbe; se Dante non avesse saputo di che cibo si pasceva quella bestia uccisa dal duca di Atene. Il Minotauro sta a rappresentare un altro effetto della passione ira: una cieca cupidigia e ira folle; diciamo, una “violenza„ per la quale alcuno “noccia„.17 Diciamo in fine, la passione dell’ira che genera la “matta bestialità„. Chè questo è altro nome di quella che si chiama malizia con forza e violenza. Così omettendo il cerchio sesto degli eresiarche, il quale per tante ragioni dette e da dirsi, sta a parte, Enea, il nobilissimo ha, per la sua temperanza disceso i cerchi della concupiscenza, [p. 253 modifica]per la fortezza ha passato a piedi asciutti la palude dei due vizi contrari a fortezza; per la giustizia ha disserrata la porta dell’ingiustizia; per la virtù eroica ha dischiuso il cammino a ciò che della virtù eroica è l’opposto: alla bestialità.

Ma la violenza è proprio bestialità? Invero nell’Etica Nicomachea il concetto di bestialità sembra differire da quello di Dante, se Dante chiama bestialità la violenza. Pure anche lì,18 con i cannibali e altri depravati, sono messi quelli che violano la natura ne’ loro piaceri; e tra altri dementi e morbosi è ricordato Falari, il cui bue Dante conosceva. Or nel primo girone sono i tiranni e nel terzo i sodomiti. Ma con un’altra opera Aristotele può aver suggerito al Poeta non solo che violenza, ossia la prima specie della malizia o ingiustizia, è bestialità; ma che la bestialità tipica è quella appunto dei tiranni, che primi Dante vede nella riviera di sangue. E troviamo in quel passo il leone, che può benissimo essere il nesso che nel pensiero di Dante collegò la vis Ciceroniana con la bestialità Aristotelica. A proposito di questa il filosofo osserva: “chi ha fatto più mali, tra un leone e Dionisio o Falari e Clearco e simili malvagi uomini?„19 Dove è da osservare che dopo Alessandro, nell’enumerazione che fa il Poeta, dei tiranni, è Dionisio fero: fero, cioè bestiale; chè feritas trovava egli per bestialità a ogni tratto.20 Or quando si pensi che la violenza è la prima specie dell’ingiustizia, si troverà che certamente egli la chiama ancora bestialità, da chi [p. 254 modifica]consideri queste parole: “Il nome di sevizia e ferità si intende dalla somiglianza delle fiere che si dicono ancora saevae. Chè siffatti animali nocciono agli uomini, per pascersi de’ loro corpi, non per alcuna causa di giustizia, la cui considerazione pertiene alla ragion sola. E perciò, a parlar propriamente, ferità o sevizia si dice secondo che alcuno, nel punire, non considera la colpa di colui che è punito, ma solamente questo, ch’e’ si diletta nel tormentare gli uomini. E così è palese che è una specie di bestialità; chè tale diletto non è umano, ma bestiale„21 E s’aggiunge, che questa ferità o sevizia non si oppone a clemenza, ma a quella sopraeccellente virtù che il filosofo chiama eroica e divina. Bestialità è dunque la prima specie d’ingiustizia; e perciò i tiranni e i masnadieri che scannarono e taglieggiarono non solo sono i primi che si vedano, ma sono in Flegetonte. Questo è il fiume che corrisponde alla rovina guardato dalla “ira bestiale„. Or negli altri due fiumi del peccato attuale, sono puniti i rei della sorta più rea della disposizione. Lo Stige nel suo fango invischia gl’incontinenti d’irascibile, il Cocito nel suo ghiaccio serra i fraudolenti in chi si fida. Abbiamo visto che degl’incontinenti i peggio trattati sono appunto quelli del pantano; vedremo quelli di Cocito. Ora perchè il Flegetonte non bolle nel suo sangue i più rei, sì i meno? Certo Dante trovò più appropriate il bollor dell’onda rossa a quelli che dieder di piglio nel sangue; forse Dante era ispirato dalla fossa piena di sangue cui Annibale disse bello spettacolo;22 sì che trovò giusto fare che le anime non [p. 255 modifica]possano svellersi più dalla vista che al loro “ciglio„ fu sì gradita.23 Vero o probabile che ciò sia, Dante mostra per chiari indizi che egli diverge dalla sua norma, qui; poichè avendo stabilito che il fiume sia d’una pena e d’un peccato l’un estremo come la rovina è l’altro, qui finge che esso riconosca Flegetonte solo all’ultimo, quando egli è nell’ultimo girone che punisce la colpa più grave, ossia la violenza contro Dio, mentre la riviera rossa e’ l’ha veduta nel primo.24

                              Maestro, ove si trova
               Flegetonte?

Ma egli attese, oltre che a tutto il resto, anche a dichiarare che la violenza o malizia con forza o bestialità era un peccato contro la giustizia; e ciò non poteva meglio dimostrare che immergendo nel bollor vermiglio quelli dei violenti che in esercitar la giustizia non avevano servato ordine. La giustizia; o la vendetta, che sono sovente la stessa cosa e hanno, sì presso Dante e sì presso i dottori, lo stesso nome. Ora noi dobbiamo ricordare che avendo il Poeta accolto (come ormai ha da essere poco dubbio) la teorica delle quattro ferite, qui sarebbe la ferita a cui è contraria la giustizia: la ferita della malizia in genere. Ed esso pur dovendo, per gli altri suoi concetti morali e poetici, qui collocare un peccato in cui non è intelletto e c’è solo, di ciò che è peculiare agli uomini, la volontà; sa pure seguire l’altra norma [p. 256 modifica]facendo della violenza o bestialità l’ingiustizia tipica. E ciò non solo, ponendo così in vista, a bella prima, i tiranni e i loro imitatori, ma con altre chiare parole. Pier della Vigna riassume e dichiara la sua colpa così:25

               l’animo...
               ingiusto fece me contro me giusto.

Lo fece dunque peccar d’ingiustizia contro sè. Ed ecco la sanzione eterna:26

               chè non è giusto aver ciò ch’uom si toglie.

Un altro di quei peccatori esclama:27

               Io fei giubbetto a me delle mie case:

il che è quanto dire (giubbetto è gibet) feci di me una giustizia ingiusta. Quando il Poeta è per trattare del terzo girone, dice subito:28

                                        dove
               si vede di giustizia orribil arte;

e di lì a poco grida:29

               O vendetta di Dio, quanto tu dei
               esser temuta da ciascun che legge
               ciò che fu manifesto agli occhi miei!

Nè è senza perchè la menzione della “diversa legge„ posta a questi infelici, rei di peccato contro la [p. 257 modifica]giustizia. E c’è di essi uno che la giusta pena non pare che senta; e invece Virgilio dichiara che nella sua contumacia è la sua pena maggiore:30

               O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
               la tua superbia, se’ tu più punito.

E qui, in questo girone, Virgilio spiega l’uffizio dei fiumi infernali, ministri dell’eterna giustizia, che vengono da Creta dove con Saturno regnò la giustizia e donde l’inferno ha il suo giudice: dove è il gran veglio che con la sua posizione da oriente a occidente mostra qual sarebbe per la natura umana lo stato di giustizia, e col piede di terra cotta, lo stato d’ingiustizia o malizia presente. E non si deve dimenticare il discorso di Brunetto, in cui la parola “malizia„ sembra riassumere quei tre peccati della gente fiorentina che è “avara, invidiosa e superba„;31 e non si deve dimenticare la risposta di Dante alle tre ombre:32

               La gente nuova e i subiti guadagni
               orgoglio e dismisura han generata:

chè orgoglio e dismisura, ponendo che siano il peccato punito nello Stige, o i due puniti l’un nello Stige e l’altro nel quarto cerchio, sono il fomite dell’ingiustizia; poichè l’avarizia è da sè un po’ ingiusta e dà origine al peggio, e l’orgoglio con la timidità è al piede dell’ingiustizia della città roggia. Infine gli usurieri, finitimi, per così dire, alla frode, e [p. 258 modifica]assomigliati per non essere quasi conoscibili e nominabili, e perchè con loro i ragionamenti hanno a essere corti, gli avari,33 per l’una e per l’altra ragione sono ben dichiarati ingiusti.

Il concetto di giustizia domina dunque in tutto questo cerchietto; sì che le parole di Virgilio con le quali dice d’avere spento34 l’ira bestiale del Minotauro, hanno nella nostra mente un’eco, e a un tratto, distinta. Quelle parole significano un ammonimento per ciò che il Poeta dice altrove:35 “Quanto all’abito, la giustizia ha contrasto alcuna volta nel velle; chè, quando il volere non è sincero da ogni cupidigia, sebbene la giustizia ci sia, non tuttavolta c’è nel fulgore della sua purezza; come quella che ha in qualche modo una pur menoma resistenza nel suo subbietto; per il che bene sono respinti quelli che tentano passionare il giudice„. L’ira bestiale non raffigura certo un minimo, sì un massimo di cupidigia che appassiona i giudici, siano essi d’altrui, siano di sè e di Dio; è la passione chiamata di lì a poco “cieca cupidigia e ira folle„; la quale deve essere spenta in ogni nostro giudicare.

È una passione e ha sede, perchè tale, nell’animo o nell’appetito; in quell’animo che fece ingiusto Pier della Vigna; in quel core che ha tanta parte nel peccato di Capaneo;36 in quell’appetito sensitivo dove stagna la tristizia di chi37

               piange là dove esser dee giocondo.

E perciò questa violenza, che è pur l’ingiustizia [p. 259 modifica]tipica, è una cotale incontinenza; è media tra l’incontinenza e la malizia. E in ciò si ha la riprova ch’ella sia dal Poeta chiamata ancora bestialità; chè la bestialità è per Aristotele38 “un’incontinenza per metafora e non assolutamente„. Il che ci dà finalmente l’ultima ragione dell’aver Dante in questo cerchietto posto una rovina, difficile bensì a scendersi e per le mobili pietre e per la guardia bestiale, ma tale che Dante ne scende, come per la prima dell’incontinenza, e non vi risale, come per l’ultima della malizia.

E vediamo ora la pietà. Nel regno proprio dell’incontinenza, Dante mostra pietà più o meno viva, ma viva, per i peccatori vinti dall’appetito; e più o meno morta per quelli ch’ebbero un principio di ingiustizia. Comincia col lagrimare e finisce col disprezzare quelli che non ebbero la giustizia originale; ha il cuore quasi compunto nel vedere la ridda degli avari e poi si appaga del non poterne conoscere alcuno; disprezza e respinge il loro pianto e si diletta a vedere attuffare quelli dello Stige che non ebbero la fortezza necessaria alla giustizia. Nel primo cerchietto dell’ingiustizia tipica, ma che tale è per un’incontinenza d’ira bestiale, mostra pietà più o meno viva per quelli in cui l’incontinenza predominò; più o meno severità per quelli in cui predominò l’ingiustizia. Nessun cenno di pietà per gli omicide e predoni: essi sono i rei più significativi di mala giustizia e d’inordinata vendetta. Grande pietà per il suicida fatto ingiusto dall’animo. Carità, ma del natio loco più che di lui stesso, per colui [p. 260 modifica]che fe’ giubbetto a sè delle sue case. Nel terzo girone Capaneo è aspramente rimbrottato, gli usurieri sono pienamente spregiati. Ma riverenza, pietà, amore mostra il Poeta della rettitudine per quelli che sono tra Capaneo e gli usurieri; sebbene lerci d’un brutto peccato. Dunque nel peccato di Brunetto e delle tre ombre vede predominare l’incontinenza, in quello degli altri l’ingiustizia.

Ma come? Due volte, nell’esporre il peccato dei violenti contro Dio, Virgilio dice “col core„, cioè con l’appetito.39 Egli dice “col core„: dunque, per incontinenza, vuol dire. E dunque l’incontinenza deve in questo peccato predominare e meritargli pietà. Sì; ma questo peccato è pur detto di malizia, di malizia con forza, cioè d’ingiustizia violenta. Dunque l’aggiunta “col core„ non significa un attenuamento d’esso rispetto ai peccati d’incontinenza, la quale men Dio offende che la malizia; sì un attenuamento rispetto al genere a cui appartiene; attenuamento dichiarato ancora con ciò che la forza non è, come la frode, dell’uom proprio male. È ingiustizia, sì, dice Virgilio, ma è col core solo, non con l’intelletto. Or come nel concetto d’ingiustizia è implicita la volontà, Virgilio dice: col core e con la volontà, non con l’intelletto. Non c’è nel Poema sacro cosa più certa. Dunque la violenza offende più Dio che l’incontinenza; ed è più lieve che la frode, perchè solo col core è consumata. Ma perchè dire “col core, col core„ solo di questa violenza contro Dio, che è la più grave delle tre? O chi non vede ch’esso è un ammonimento a non scambiare questo peccato che è [p. 261 modifica]pur contro Dio, col massimo dei peccati, che è quello che a Dio direttamente si oppone? col peccato di Lucifero? Peccato contro Dio: dice Virgilio; ma bada, discepol mio: col core! Non è quello pessimo, sebbene, per quest’essere contro Dio, assomigli. Ma non è. E tuttavia Virgilio poi a Capaneo rimprovera appunto quello, di peccati: la superbia. E Dante la superbia ravvisa in quel ladro, che cerca di darsi per un Capaneo anch’esso.40 Come? come? Mi basti qui osservare che a capo della disposizione di violenza è quella cupidigia che è anche ira: passioni: la qual cupidigia è in cima come la superbia in fondo41; e che, in questo senso, come nè cupidigia, così non superbia è peccato speciale; ma principio di peccato, ma peccato generale. Dunque la superbia reale di Capaneo e apparente di Vanni Fucci, è quel non volersi sottomettere a Dio,42 che si trova certo nel peccato di Lucifero, ma non è quel peccato e tutto quel peccato. Se io dicessi che codesta superbia di Capaneo si chiama aversio? che è precipua in tutti i peccati di malizia? che è l’altro aspetto, il rovescio, della cupidità, alla quale perciò equivale; come una moneta è la stessa, tanto se è veduta dalla lettera, quanto se dalla testa? e che questo nome di superbia è data all'aversio o alla cupidigia o all’ira [p. 262 modifica]bestiale, solo a proposito di questi peccatori, perchè questi sono più manifestamente aversi? ma che di essi il peccato non è la superbia di Lucifero, perchè nella superbia peccato di Lucifero è sì la superbia passione; ma c’è altro che nel peccato di cotestoro non c’è? che la superbia di Lucifero è così poco bestiale e così poco simile a quella di Capaneo e di Vanni Fucci bestia; che Lucifero è pura intelligenza e non ha l’appetito o animo, o core, se non metaphorice?

Se Dante non mostra pietà per Capaneo, è segno che nel suo peccato predomina l’ingiustizia. L’incontinenza c’è, e in buon dato, ma non riesce ad attenuare il peccato che è di malizia con forza contro Dio stesso; che è tanto grave da somigliare al gravissimo. E quello di Brunetto e delle tre ombre? Quello è tale in cui l’incontinenza vi potè più che l’ingiustizia. La quale consisteva in ciò che nella loro reità era proposito d’impedire la generazione. E l’incontinenza era d’irascibile o di concupiscibile? Vediamo che i sodomiti nel purgatorio sono nella cornice della lussuria. Dunque l’incontinenza di Brunetto e degli altri era di concupiscibile. Ma come mai il loro peccato, che è di violenza contro una cosa di Dio, ha pure a capo quell’ira bestiale o cupidigia cieca o aversio o superbia, se dir si vuole; che non appartiene al concupiscibile, sì all’irascibile, anzi è l’irascibile stesso, l’ira stessa? La risposta è facile per chi consideri il verso:43

               e piange là dov’esser dee giocondo.

Con questo verso si dice che nei violenti contro sè [p. 263 modifica]e la sua facultade è quella tristizia dello Stige, che è come l’avanzo della concupiscenza, al modo che lo Stige è lo scolaticcio del fiume che non visto se non all’ultimo, passa per i cerchi dell’incontinenza carnale; al modo che la dolce sirena è nel tempo stesso la femmina balba; al modo che contro la lonza leggiera e presta molto è dato come rimedio l’aer dolce che è rimedio ai tristi. Ebbene, se in altri mai, quella tristizia aveva a essere nei violenti contro natura. Dalla concupiscenza passarono alla tristizia, dalla tristizia all’ira bestiale, dall’ira bestiale alla violenza contro Dio. Jacopo Rusticucci afferma:44

                                                  e certo
               la fiera moglie più ch’altro mi nuoce.

Parole non ci appulcro.

E concludo, che avanti l’arche, nel cimitero di color che hanno mala luce, Dante ha esercitato la virtù di quel lume che si chiama la prudenza; e che nel cerchietto della prima specie d’ingiustizia, ha esercitato la virtù di giustizia; e che là fu riverente e pio sebbene non senza alcuno sdegno, mentre qua si mostra combattuto dalla pietà dove l’incontinenza predomina, e tratto a sdegno dove predomina l’ingiustizia. Di che darò la riprova nel capitolo seguente. E infine ripeto che in questo cerchietto s’è spenta l’ira, l’ira bestiale, che è tanto nemica alla giustizia, quanto le è amica e propugnatrice l’ira di zelo, che disserrò le porte dell’ingiustizia, dopo aver varcata senza scorta i cerchi della concupiscenza e passata [p. 264 modifica]a piedi asciutti la palude della non fortezza o dismisura nell’irascibile.

Note

  1. Inf. IX 105 seg.
  2. Inf. X 13.
  3. ib. 100.
  4. ib. 15.
  5. Inf. X 14.
  6. Inf. XI 46.
  7. Inf. VI 79 segg.
  8. Inf. X 18, 43, 94, 109.
  9. ib. 73.
  10. Inf. II 44.
  11. Inf. IV 94 segg.
  12. Inf. X 79 segg.
  13. ib. 59.
  14. ib. 127 segg.
  15. Inf. XII 32 seg.
  16. Inf. XII 46 seg.
  17. ib. 48.
  18. Eth. VII, 5, 3 e 7.
  19. Magn. Mor. II 7, 33.
  20. Per es. Summa 2a 2ae 159, 2. E vedremo in Seneca.
  21. Summa 2a 2ae 159, 2.
  22. Seneca, de ira II 5: dove è haec non est ira, feritas est, e l’altro esempio di Voleso che, passeggiando tra i cadaveri de’ suoi giustiziati, esclamò: o rem regiam!
  23. Inf. XII 103.
  24. Inf. XIV 130 seg.
  25. Inf. XIII 70 segg.
  26. ib. 105.
  27. ib. 151.
  28. Inf. XIV 5 seg.
  29. ib. 16 segg.
  30. Inf. XIV 63 segg.
  31. Inf. XV 78, 68.
  32. Inf. XVI 73 seg.
  33. Inf. XVII 40.
  34. Inf. XII 33.
  35. De Mon I 13.
  36. Inf. XI 47, 51.
  37. ib. 45.
  38. Eth. VII, 6, 9.
  39. Vedi in «La selva oscura» p. 26. Inf. XI 47, 51.
  40. Inf. XIV 64, XXV 14.
  41. Vedi a pag. 160.
  42. Vedi per es. Summa 1a 2ae 84, 1: donde si raccoglie che superbia si dice in tre modi; peccato speciale, cioè amore inordinato della propria eccellenza; peccato generale, cioè attuale disprezzo di Dio in quanto uno non si sommette al suo precetto; inclinazione a questo disprezzo per la umana colpa. E il dottore osserva che la superbia è inizio d’ogni peccato, in quanto è peccato non solo generale, ma speciale.
  43. Inf. XI 45.
  44. Inf. XVI 44 seg.