Storia della vita e del pontificato di Pio VII/Libro II - Sommario VIII

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LIBRO VIII





SOMMARIO



Entra Gioacchino negli stati della chiesa: Pio VII lascia Roma, si dirigge a Viterbo, indi a Firenze d'onde, accompagnato dal granduca, va a Livorno. A Lerici s'imbarca per Genova, ove è accolto amorevolmente dal re sabaudo. Riceve lettera da Murat, che gli rimprovera la fuga e gli dichiara, che se non riprende la via di Roma farà occuparla dalle sue truppe. Lascia Napoleone l’isola dell’Elba e rientra in Francia. Universale terrore. Luigi XVIII si ripara in Olanda. L'imperatore, risalito sul trono, scrive agli alleati ed al papa. Si collega l'Europa a danno di un solo, la cui fortuna precipita nella battaglia di Waterloo. Al disastro napoleonico siegue il murattiano. Eventi di Francia e d'Italia: Roma governata dalla giunta di stato. Il cardinal Maury è tradotto in castel sant’angelo. Suoi torti verso la santa sede. Consalvi, tornato da Vienna, lo restituisce alla libertà e agli onori. Pio VII corona con pompa solenne la Madonna in Savona. Riceve in Genova immense dimostrazioni di affetto: muove per Torino, per Modena, recasi a Firenze; tratta col granduca degli affari della chiesa e riprende la via dei suoi stati. Torna in Roma Consalvi che assume le redini del governo: Pio si occupa delle chiese della Francia, della Germania, dell'Inghilterra: seconda i desideri del principe di Beauharnais: dispone

Giucci. Vita di Pio VII — II
[p. S8 modifica]di un suo palazzo in Venezia a vantaggio di un pio istituto: invia Canova a Parigi a reclamare gli oggetti d'arte tolti a Roma. Questi, dopo penose cure, l'ottiene. Fa diverse e numerose promozioni cardinalizie: fonda l'ospizio dei poveri alle Terme Diocleziane. Tratta degli affari di Napoli: stabilisce convenzioni colle corti cattoliche dell'Europa: protegge l'istituto fondato in Lione per la propagazione della fede. È visitato da Ferdinando di Napoli: sostiene, a fronte di mille amarezze, i congiunti di Bonaparte e reca a termine gli affari religiosi della Francia. L'imperatore d'Austria Francesco I visita Roma, ov'è nobilmente festeggiato ed accolto. Va declinando sensibilmente la salute del santo padre. [p. 131 modifica]


LIBRO VIII.


F
ra l'ansie del presente e le incertezze dell'avvenire intrepido si mostrava Pio VII. Il pro-segretario di stato proponevagli di allontanarsi da Roma e porsi in sicuro all'estero o in qualche città dello stato da un colpo di mano: alla partenza lo consigliavano i cardinali. Avvalorato da personale coraggio, oppose resistenza il papa agli altrui suggerimenti finchè, divenuto manifesto il pericolo, prevalse il consiglio di alcuni membri del sacro collegio e si stabili la partenza. Pacca proponeva Genova, città forte e marittima, che, frequentata dalle navi di ogni nazione, offriva sicurezza al capo visibile della chiesa: alcuni cardinali preferivano Milano, desiderosi di avvicinarlo a Vienna, ove i più grandi sovrani occupavansi dell'equilibrio europeo. A far prevalere l'opinione di Pacca giunsero opportune dal Piemonte le preghiere di re Vittorio Amedeo che, per mezzo del suo ministro marchese di san Saturnino, offriva al santo padre un asilo in Genova, non ha guari per gli accordi del congresso di Vienna venuta in podestà dei sabaudi. Accettò Pio di buon grado l'offerta cortese del piissimo re; consigliò per segreto messaggio Carlo IV di Spagna, dimorante in Roma, a provvedere alla propria sicurezza, mentre tutto [p. 132 modifica]andavasi disponendo segretamente nel palazzo apostolico per la vicina partenza. Il cavalier Vargas, ambasciatore spagnolo ed alcuni prelati palatini, ammessi al segreto, consigliavano Pacca ad affrettarne il momento, ma questi, in tutte le grandi risoluzioni prudente al pari che saggio, volle differito il viaggio sino al punto in cui lo avessero autorizzato a questo passo eventi minacciosi, indeclinabile necessità. Gravi potevano esser le conseguenze di una precipitosa partenza. In Roma, tutto che lieta del ritorno di Pio, notavasi ancora quel certo fremito in cui è il mare dopo un'immensa procella: non mancavano elementi di discordia, dappoichè non fu mai penuria di coloro che le pubbliche calamità volgono a proprio profitto. Quelli che, dichiarati nemici al governo papale, avevano perduti grossi stipendi ed erano tenuti in sospetto: quelli che, poste le mani su i beni della chiesa, si vedeano mal sicuri, profittando degli eventi inaspettati, secondando le mire ambiziose del re di Napoli, poteano facilmente turbare la tranquillità cittadina, creare inciampi al governo. Potea finalmente Gioacchino, per non urtare di fronte il papa venerato da tutti, cambiar pensiero, scegliere la via del Tronto, rispettare le provincie di Marittima e Campagna, render nulle ed offensive le misure e le precauzioni adottate. L'inaspettata partenza, suggerita dal timore, avrebbe autorizzati i rimproveri di Murat e fatto perdere al papa la opinione. di coraggio e di fermezza che avea resistito a Napoleone e destata la meraviglia del mondo cattolico. Con mistero impenetrabile preparavasi la notificazione da pubblicarsi uscito appena da Roma, allestivansi le carrozze, creavasi una giunta di stato, della quale presidente Della Somaglia cardinale, membri Giustiniani pro-governatore, Sanseverino presiderite delle armi, Ercolani tesoriere, Riganti segretario di consulta, Falsacappa del buon governo, Rivarola segretario con voto: al cardinal di Pietro, col titolo di delegato apostolico, confidavasi la. cura gelosa degli ecclesiastici affari. Furono queste le misure di previdenza saviamente adottate per allontanare i pericoli e salvar [p. 133 modifica]Roma e lo stato dalla tempesta che tornava a minacciare l'Italia. Così disposte le bisogna e provveduto alle urgenze a condurie ad effetto ed evitare i rimproveri d'intempestivo timore, guardavasi verso Terracina e Subiaco per vedere se l’esercito napolitano varcava i confini.

II. Suonò l'ora temuta: il pensiero di Gioacchino fu manifesto: due legioni della guardia il ventidue marzo, mercoldì santo, si aprirono il passaggio negli stati della chiesa. Avvisato il pro-segretario di stato ne parlava a Pio: concertavasi fra loro il modo e l'ora della partenza. Solito il papa a trasferirsi dalla sua residenza del quirinale al vaticano per le funzioni della settimana maggiore, dovea passar la mattina a san Pietro, assistere all'ufficio, che chiamano delle tenebre e senza farne motto ad alcuno, nelle prime dre della sera, uscire con una sola carrozza e prender la via di Viterbo. A rassicurare l'animo dei romani dovea la mattina seguente il cardinale fare affiggere per Roma la notificazione già preparata, partecipare ai cardinali e al corpo diplomatico la notizia della partenza e raggiungerlo. Piacque al pontefice affrettare il viaggio e anzi che attender lore della notte, uscito da porta angelica in pieno giorno, senza seguito, con una carrozza a due cavalli, accompagnato da Mauri e Soglia prelati, si diresse a Viterbo: Entrati i cardinali all’ora consueta nella cappella sistina per assistere agli uffici divini, seppero della fuga del papa. Un improvviso cicaleggio si destò fra i molti stranieri accorsi in Roma e raccolti nella cappella per ammirare, dopo le mestizie della settimana santa, le solenni ceremonie di pasqua: si sgomentarono i cardinali e: più quelli che non erano a parte del segreto; si affrettò Pacca a dar corso alla notificazione e partecipare ai colleghi e agli ambasciatori la prudente risoluzione di Pio. Non s'interruppero le ceremonie di chiesa, come serive un istorico contemporaneo, ma la paura fece tremare i cuori più saldi che credevano rinnovellate le lugubri scene, delle quali vivissima in tutti era la ricordanza. Leggo la notificazione sottoscritta da Pacca e tale non mi sembra da rassicurare gli spiriti. [p. 134 modifica]Diceasi in essa, che il papa nulla temeva e nulla aveva a temere, ma intanto i romani lo vedevano fuggitivo. Parlava di negato passaggio alle truppe, di guerra imminente in Europa, delle triste conseguenze che potevano derivare da un passaggio concesso, per cui l’ accortezza romana doppiamente paventava gli effetti di un passaggio violento: dichiaravasi finalmente che il papa recavasi in una città dello stato ma, per le disposizioni date al sacro collegio e agli ambasciatori, sapeasi che tutti lo avrebbero raggiunto o a Firenze o a Genova. Ad onta però di tutto questo Roma si mantenne tranquilla e l'ordine pubblico non venne turbato. Grandi erano i dubbi, ma a confortare gli animi e a ribadire nei cuori la sicurezza sorgeva in tutti spontaneo il riflesso che non abbandona Iddio la sua chiesa, che il cuore di Pio era di forti tempre, che l'uragano, in presenza dei principi collegati in un patto, quello di pacificare l'Europa, non poteva esser lungo e pericoloso. A coloro per altro che o meritevoli o no domandavano onorificenze cd impieghi, che non ottennero, parve opportuno il momento di vendicarsi di chi stavasi al timone dello stato. A creare imbarazzi scrissero a Consalvi, che in Vienna sedea nel consiglio europeo, Roma in preda ai disordini, detestato il governo, grande il malcontento dei popoli tornati all’obbedienza del papa: è ben facile, conchiudevano, ad essi il seguir le parti di Gioacchino promettente un'Italia unita, larga costituzione, esteso commercio, uniformità di leggi e tutte le dolcezze, di cui i napoleonidi erano facili promettitori. Affliggevasi Consalvi incontro a tante minacce che credeva fondate e stimolava il collega a porre immediato riparo a tanta colluvie di mali. Freddamente rispondevagli il pro-segretario di stato: attendesse l'esito degli avvenimenti, vedrebbe mal fondati i sospetti, indubia la fede dei sudditi, sicura la tranquillità pubblica, lontani i pericoli. Gli eventi confermarono le asserzioni.

III. Non era giunto a Viterbo il pontefice quando a chiarire la mente del re venne opportuna una lettera da un generale napolitano diretta ad un ministro del regno. [p. 135 modifica]Nello stato del papa, leggeasi nel foglio intercettato, noi non abbiamo che un piccolo partito e questo è tenuto a freno non tanto dalle autorità quanto dalla massa del popolo che non è per noi. Pacca partito da Roma seppe in Viterbo che il papa, dopo breve sosta, avea proseguito il viaggio per la Toscana. Sperò raggiungerlo ad Acquapendente, ma in quest'ultima città dello stato intese che avea varcato il confine. Un corriere portò ad esso lettera rispettosa del cardinale, che temendo volesse altri indurlo a riparare in terre lombarde, faceasi a pregarlo volesse attender l’arrivo dei cardinali. Rispondea Pio VII da Siena al suo ministro che lo avrebbe aspettato a Firenze. Se temeva la corte pontificia, la casa di Lorena non viveva in incertezze minori. La sera istessa in cui entrava nel palazzo Pitti il cardinal Pacca, dicevasi per Firenze che l'armata napolitana avea toccati i confini toscani. A prevenire l'ire ingiuste di un ospite inopportuno, il papa e il gran duca lasciavano la capitale, dirigendosi a Livorno ove giungevano sull'albeggiare del dì ventinove. Corsi gli avvisi, in Empoli non solo in Pontedera e Pisa, ma per l'istesse campagne di quel paese incantevole videsi inusitato e commovente spettacolo. Come per incanto accorreva il popolo dalle terre circonvicine: uomini, donne, fanciulli, accompagnando il pontefice, aveano in mano fiaccole e lumi per rischiarare l'oscurità della notte; circondavano la carrozza, salutavano il gran duca, domandavano ad alta voce la benedizione del santo padre che, visibilmente commosso, benediceva al popolo. Così giungevano nella energica Livorno gli augusti viaggiatori. Ivi, inteso che era in rada un vascello inglese, spedì Pacca una lancia per dire al capitano che desiderava parlargli. Venne questi ed inteso che il papa per trasferirsi a Genova, lo pregava di accettarlo a bordo, si disse fortunato di rendere a Pio VII questo lieve servigio: pregavalo solo di breve sosta, perchè ad obbedire agli ordini del suo governo, dovea scortare al porto di Genova i bastimenti mercantili della sua nazione, che in Livorno caricavano le merci inglesi. Aggiungevagli il cardinale: e se in questo tempo si avanza l'esercito napolitano? [p. 136 modifica]Può, rispondeva l'inglese, in tale evento, il santo padre recarsi a bordo e porsi al sicuro. Soddisfatto della risposta e lieto di dare al mondo una prova di più della confidenza in cui aveasi la ospitalità brittanna e di mostrare agl'inglesi un pontefice che con aria umile e modesta, ma dignitosa, col sorriso quasi continuo sul labbro, con la naturale affabilità dei modi lasciava tanto soavi impressioni nell'animo, legava i cuori più resti in modo da imporre anche ai protestanti venerazione e rispetto. Riferita al papa la determinazione del cardinal ministro, tenne contrario parere: comandò di troncare gl'indugi, lasciar Livorno, prender la via di Sarzana, per evitare l' asprezza dei monti, imbarcarsi a Lerici e toccar Genova. Agitato per i pericoli che poteano affrontarsi, ma obbediente ai coraggiosi desideri sovrani, il cardinal Pacca, che ben vedea quale immensa responsabilità pesava su lui, allontanavasi con Pio da Livorno nelle ore pomeridiane del giorno trentuno marzo e giungea la sera all'episcopio pisano, accolto splendidamente dal prelato Alliata, che tenea quella sede. Il sole di aprile irradiava appena le colline pisane quando l’augusto pellegrino mosse per Sarzana, tenendo la via di Viareggio e di Massa e vi giungea sul declinare del giorno. Fuori della città, circondato dal popolo, attendeva il suo arrivo, per comando del piissimo re di Sardegna, il marchese di san Saturnino ministro di quella corte presso la santa sede, che dopo avere a nome del sovrano presentati al papa gli omaggi, rivolto al popolo che circondava la carrozza, disse ad alta voce « Il re mi comanda di dire a voi, che ora dovete obbedire a questi » e indicava Pio « che è il primo dei sovrani, il capo visibile della chiesa ». Lo disse appena e uno stuolo di giovani facendosi più vicini alla carrozza del papa, ne staccarono i cavalli e a forza di braccia lo condussero alla cattedrale, quindi al palazzo del vescovo, scortato dai soldati brittannici che guardavano quella città. Si diresse sul mattino a Lerici, ove le feluche, pavesate a festa per cura delle autorità governative, aspettavano l’augusto viaggiatore che moveva dal lido alla volta di Genova. Non spirava un'aura di [p. 137 modifica]vento, il cielo era sereno, tranquillissimo il mare, per cui si navigò lentamente a forza di remi. La doppia riviera di Genova che, incantevole per le sue prospettive, si presenta a modo di anfiteatro offre un sorprendente spettacolo a chi la scorre a breve distanza dal lido. Al primo apparire delle feluche, la cima delle colline prossime al mare, la spiaggia ridente, i tetti dei villaggi situati lungo le sponde si coprivano di gente, che, facendo suonar l’aria di grida festose, agitando i fazzoletti, chiedevano di esser benedetti dal papa. Quelle voci unite al fremito dei mortai, al suono delle campane ripercosse dall’eco dei monti, venivano a consolare il cuore di Pio. Muovevano dal lido varie barchette per appressarsi alla nave, che tranquilla solcava le onde in mezzo a tante proteste di venerazione e di amore: una ne apparve governata da donne che cantando e remigando si appressò alla feluca, ov'era il papa. Curvava le ginocchia quella schiera feminea, riceveva con trasporto di affetto la benedizione del papa quindi, remigando e cantando, ritornava alla spiaggia. E già le ombre della notte si distendevano sulla superficie del golfo quando si decise di prender terra a Rapallo. I palischermi vi giungevano improvvisi per cui.tutti, e il papa istesso, vidersi costretti a prender terra sulle braccia dei marinai. Preparavasi il dì appresso un gran tavolato perchè Pio passasse comodamente dalla sponda del mare alla feluca, che dovea condurlo in Genova. Fu spettacolo commovente il vedere gettarsi in mare la gente, immergersi nell’acqua sino alla gola per fiancheggiare quella zattera e baciare i piedi al pontefice che dovea transitarvi: tanta nell'animo dei liguri è la fede, tale la devozione e il rispetto verso il vicario di Cristo! Narravasi che su i luoghi, rallegrati dalla presenza del papa, irrompea il popolo per baciare in ginocchio non che le stanze, le strade che avea percorse.

IV. Scorgevasi appena sul mare ligustico la feluca, che portava a Genova il santo padre quando le navi spagnuole ancorate nel porto e molti battelli genovesi mossero incontro al pontefice e disposti in doppia fila ne fiancheggiavano la nave. Ansioso il popolo ne attendeva [p. 138 modifica]l'arrivo, le bandiere di varie nazioni sventolavano su i bastimenti, traevano a festa le artiglierie dei forti, vedeasi un numero sterminato di bettelletti fendere il mare e accrescer pompa all'ingresso trionfale del vicario di Cristo. Può dirsi, che tutti gli abitanti della vasta città o lo attendevano nel porto o eransi ridotti sulle mura, sulle finestre, su i tetti. Il cardinale arcivescovo, i capitoli, i parrochi, il clero uniti alla giunta di governo e allo stato maggiore delle armi inglesi, ne attendevano l’arrivo e gli prestavano omaggi. Salito in lettiga, preceduto da una parte del reggimento Asti, circondato dalle guardie nobili del re sabaudo, seguito dai reali carabinieri procedea verso la metropolitana di san Lorenzo. Il cardinale arcivescovo in porpora stava al fianco della lettiga, precedevano il sacro convoglio col clero ligure, i capitoli, i parrochi, i prelati. Due linee di soldati piemontesi e brittanni facevano ala sulle vie, sulle piazze coperte di tappeti e di fiori. All'ingresso del tempio lo attendevano i cardinali Mattei, Oppizzoni, Galeffi, che prevennero l'arrivo del santo padre in Liguria. Accolto nel palazzo Durazzo, guardato e custodito dai soldati e dai dragoni inglesi, che lo scortavano ogni qualvolta usciva a diporto, trattato a spese della corte, visitato dai grandi, festeggiato dal popolo, per tre sere in segno di esultanza la città e le circostanti colline furono illuminate splendidamente: bellissima su tutti distinguevasi quella di Albato. Rallegravasi l’animo del santo padre nel vedersi d'intorno la maggior parte del sacro collegio e nell'animo dei genovesi ispirava meraviglia e pietà il vedere cardinali vecchi ed infermi, che non avevano dubitato di lasciar Roma ed intraprendere un lungo viaggio per trovarsi al fianco di Pio1. Due chierici regolari Barnabiti, famosi per altezza d’ingegno e per costanti prove di devozione date [p. 139 modifica]alla santa sede, furono chiamati a Genova per essere utilmente consultati nei gravi affari della chiesa: Fontana e Lambruschini, ambo promossi all’onore della porpora, ambo benemeriti per saviezza di consiglio, per profondità di dottrina, per grandi cariche esercitate. Il papa che, anche nella cattività e nell’esilio non avea mai cessato dal vegliare al bene della religione e dei sudditi, si occupò alacremente dei suoi doveri apostolici: lungi dallo spaventarsi dall’essere il ducato di Genova tanto prossimo alle frontiere francesi, mostravasi indifferente ad una lettera con la quale il re Murat gli rimproverava la fuga da Roma e lo esortava al ritorno per non esporsi al pericolo di vedere occupati dalle armi napolitane i domini soggetti alla santa sede. La rapidità degli avvenimenti resero vane le minacce, inutile la risposta. I deputati di Savona vennero in Genova ad ossequiare il pontefice, di cui tanto da vicino conoscevano le virtù: lo supplicarono ad onorar nuovamente la città loro, lo pregarono in fine a voler lasciare a Savona ricordo perenne di sua augusta presenza, coronando l'immagine prodigiosa della Vergine sotto il titolo della misericordia venerata nella valle di san Bernardo quattro miglia distante dalla città. Rivide con compiacenza Pio VII i savonesi, dei quali ricordava le amorevoli prove di tenerezza date in tristissimi tempi, e se immediatamerte non accolse i loro voti fu solo perchè non aveva ancora esplorati i voleri del re.

V. Tremavano su i loro troni i principi italiani, che stavano ansiosamente spiando i fatti di Francia: i ministri delle otto principali potenze adunate in Vienna dichiaravano come avendo Bonaparte rotta la convenzione, che lo stabiliva all'isola dell’Elba, avea distrutto i titoli legali, ai quali stringevasi la sua esistenza. Il suo ritorno in Francia manifestare all’Europa che mai più poteva esser pace con esso: che, chiarito perturbatore e nemico del riposo del mondo, era abbandonato alla pubblica vendetta: Luigi XVIII lo dicea traditore, ne ordinava l'arresto, volea tradurlo innanzi ad un consiglio di guerra, giudicarlo col rigore delle leggi: il duca di Angouleme, che tutto tranquillo [p. 140 modifica]solennizzava l'anniversario del suo ingresso in quella città, impugnava le armi per sostenere nella Francia meridionale le parti del re: solo Pio VII, in mezzo a tanta concitazione di mali, vivea tranquillo e animando quelli che gli stavano intorno, li assicurava che la procella non avrebbe durato tre mesi. Intanto Napoleone da Antibo passava in Provenza, da questa entrava in Cannes, giungeva acclamato a Digne, capitale delle basse alpi, spargendo proclami, promettendo felicità, invitando i soldati a raccogliersi sotto l'aquile imperiali. Le truppe, spedite da Parigi a combatterlo, abbassavano le insegne, salutavano l’imperatore, che giungeva senza ostacoli a Lione, marciava sopra Parigi e portato dal favore dei popoli e dalla fortuna, risaliva i gradini del trono. Luigi XVIII riparava in Olanda, rimanea prigioniero il fratello duca di Angouleme del generale Gouchy. Ad attenuare gli effetti e a temperare gli sdegni del manifesto viennese, rispondeva Napoleone: ricusare la Francia obbedienza ad un re imposto dalle armi straniere: altri e non esso violatore dei trattati: negargli il borbone l'appannaggio promesso, minacciare di togliere a Maria Luigia imperatrice il ducato di Parma e Piacenza, manifestarsi fra i monarchi il desiderio di confinarlo in un'isola dell'oceano: aggiungea in fine, averlo la Francia accolto come liberatore, ed esso nulla più voler che la Francia. Queste dichiarazioni facea pubblicare dal consiglio di stato ed egli scrivendo a tutti i sovrani di Europa affrettavasi a dichiarare, essere il suo ritorno in Francia opera di una potenza irresistibile, della volontà unanime di una gran nazione che conosceva i propri doveri, e non rinunciava ai propri diritti. Assicurava del resto, che la Francia, gelosa della sua indipendenza, rispettava quella delle altre nazioni, prometteva in fine che la giustizia, assisa sulle frontiere degli stati, ne avrebbe garantiti i confini. Queste le pratiche usate verso le potenze di Europa, diverso il metodo tenuto col papa e col suo ministro. Scrivea al cardinal Pacca il duca di Vicenza signor di Caulaincourt e diceagli come Napoleone, che impose a se stesso il più grande dei sacrifici quando, abdicando [p. 141 modifica]alla sovranità, si allontanò da Parigi, avea dovuto convincersi che le sue e le speranze della nazione erano state tradite. Portato dalle braccia dei popoli, avea traversato come in trionfo la Francia; che finalmente ristabilito sul trono imperiale, volea che il rispetto di tutti i diritti dei re e della chiesa e la pace fosse per l'avvenire il più caro e il più fervido dei suoi voti. Eguali sentimenti espresse direttamente Napoleone al papa con una lettera, che non giunse al destino, ma si lesse nei giornali francesi 2. [p. 142 modifica]A danno di Napoleone e a difesa delle monarchie compromesse stavansi in Vienna i potenti: tentava l'imperatore avvicinarsi all’Austria e alla Russia, ma invano 3. Senza parlare della guerra, che disperse le speranze napoleoniche, dirò che tutto il mondo, collegato a danno di un solo, vide oscillare su i campi di Waterloo la bilancia dei destini d’Europa. Decisi gli affari di Francia, quelli di Gioacchino in Italia precipitarono. Il mondo era stanco di una lotta, che durava da tanti anni; era nel voto dei monarchi e dei popoli la pace e questa si volle a costo d'immensi sacrifici. Svanito per decreto di provvidenza il disegno, di condurre ostaggio in Gaeta il papa ch'eragli fuggito di mano, circondato dall’oste austriaca, contradetto al congresso di Vienna, contrariato da Ferdinando, che preparava una spedizione sul continente e già moveva dalla Sicilia, per pubblici bandi promettendo piena e perfetta amnistia, conservazione ai militari dei soldi, dei gradi e degli onori, di cui godevano, sgomberò Gioacchino dalla Toscana e rotto su i campi di Tolentino, riparò a stento nel regno, ove l'attendevano nuovi dolori. Nell'interesse della storia, lasciando Pio VII in Liguria venerato dal re, amato dal popolo, rispettato dagli uomini, protetto da Dio, riassumo in brevi parole le ultime fasi del regno napoleanico e murattiano, per quindi procedere direttamente alla meta.

VI. Vollero fausti eventi, che i due cognati mal s'

[p. 143 modifica]intendessero fra loro. Era in Napoleone più abilità che fortuna, in Gioacchino più ambizione che senno. Per messaggi spediti all'imperatore, diceagli il sire di Napoli, avrebbe attaccati gli austriaci e se la vittoria rispondeva ai suoi voti, si vedrebbe raggiunto da esercito formidabile: intanto, a riammorbidire la collera imperiale, aggiungea: essere omai giunto il momento di riparare ai suoi torti e mostrargli la sua devozione. Dai campi di Auxerre rispondeagli nel marzo Napoleone: aspettasse, preparando le armi: l'ora del mostrarsi in campo avrebbela intesa da lui. Era tardi: l'impazienza murattiana, rotti gl’indugi, avea varcati i confini del regno. Con questo atto, con i suoi proclami dettati per commovere lo spirito degl'italiani, disgustò i sovrani, che poco riposavano sulla sua fede, e compromise per sempre la sua e le speranze dei figli4. La regina lasciata al governo di Napoli, donna di animo forte e superbo, minacciata dall’inglese Campbell che imponea duri patti, scese agli accordi. Pietosa ai suoi, in tanta concitazione di animi, inviava i quattro piccoli figli a Gaeta e apprestava l'imbarco alla madre Letizia, alla sorella Paolina, allo zio cardinal Fesch che, ambasciatore di [p. 144 modifica]Napoleone al papa, doveva in Roma dichiarare a Pio VII, non aver l'imperatore alcuna pretenzione sul dominio temporale della chiesa; tutti venuti in Napoli, mentre la guerra rumoreggiava in Italia. Affranto dalle sventure, dolente dei tradimenti, delle diserzioni, delle viltà, dopo aver affidato il comando dell'esercito al general Carascosa, venne Gioacchino privatamente in Napoli. Riconosciuto, salutato re l'ultima volta dal popolo, entrò nella reggia, vide la consorte, dispose seco lei la partenza, quindi seguito da pochi si diresse a Pozzuoli: di là su piccola barca passò ad Ischia, d'onde su nave più grande ripreso il mare, andò in balìa della sorte, in cerca di un porto di Francia. Lacrimevoli avvenimenti contristarono la sua vita nomade e incerta, ma non giunsero a domarne il coraggio: Rigettato da Napoleone, a cui offriva il suo braccio, disprezzato dai sovrani, perseguitato da quelli istessi che aveva beneficati, ora nascosto in Tolone, ora bersaglio delle tempeste, trovò mal sicuro asilo in Corsica, d'onde usciva per la temeraria impresa, che dovea costargli la vita. In un angolo della Calabria vide il mondo come si confondono insieme gli estremi di felicità e di sventura. Carolina deposta la reggenza, assunto il nome di contessa di Lipona, e ricevuta a bordo di un vascello inglese ancorato nel porto di Napoli, intese a maggior dileggio le grida del popolo, che salutavano Leopoldo Borbone inviato dal padre a pregustare le delizie del regno, e sotto la protezione austriaca riunita ai figli, che stavano a riparo in Gaeta, parti per Trieste. Napoleone dopo i disastri di guerra, uscito da Parigi stavasi nell’isoletta di Aix vagheggiando il pensiero di riparare negli stati uniti di America. A salvarlo dagli attacchi inglesi il governo provvisorio di Francia implorò invano da Wellington un passaporto. Minacciava la flotta inglese, che stavasi innanzi a Rochefort: era il fuggirla impossibile, l’indugiare pericoloso. Come Temistocle a Serse, desideroso di assidersi ai focolari del popolo brittannico, domandava un asilo al più costante, al più generoso dei suoi nemici e davasi liberamente al capitano del Bellerofonte Maitland. Condotto sulle [p. 145 modifica]coste dell’Inghilterra, decideva il governo di allontanare dall’Europa nemico tanto formidabile e lo relegava a sant'Elena. Tanti e si strepitosi avvenimenti affrettarono la fine del congresso viennese, composero le vertenze europee, assicurarono a Pio l'intero possesso dei suoi dominî, il libero esercizio della sua apostolica autorità. Così ai tumulti di guerra seguiva la pace, ai nuovi succedeano gli antichi re.

VII. Gran parte di questi avvenimenti compivansi, mentre vegliava energicamente in Vienna Consalvi al vantaggio della chiesa e di Pio: il pontefice stavasi sicuro in Liguria: Roma era governata dalla giunta dî stato che corrispose alla fiducia sovrana, e s'ebbe dovute lodi dai sudditi. Era ai buoni oggetto di compiacenza il vedere come i romani, in mezzo a tante seduzioni e in nuovo governo, serbavano un contegno tranquillo. Un uomo solo osava alzar la voce, censurare il governo, mostrarsi apertamente contrario al papa, a Roma, alla giunta di stato, quando intese rotta la guerra in Italia, Napoleone risalito sul trono imperiale di Francia. Era questi Maury cardinale, dal borbone alontanato dalla Francia, da Pio VII privato del suo vescovado di Monte Fiascone, escluso dalle cappelle, dalle congregazioni alle quali apparteneva. Seppe la giunta, che questi disponevasi a rientrare in Francia: seppe che millantava di far pesare la sua collera sul governo e pensò impedirne la partenza, impadronirsi del porporato, che senza dubbio avrebbe a Parigi recato gravi danni alla chiesa e allo stato. Un dispaccio diretto da Roma a Genova ne portò al cardinal Pacca la domanda. Informato il papa, autorizzò la reclusione di Maury in castel sant’angelo: aggiunse solo che, ove fosse possibile il custodirlo ia altro luogo con egual sicurezza, si evitasse il cicaleggio che poteva attendersi da tanto rigore. Roma si mostrò indifferente a questa reclusione della quale si meravigliarono gli esteri così, che Consalvi ne fu dolente. Grandi veramente innanzi al pontefice e a Roma erano i torti del cardinale francese, che per lusingare Napoleone non dubitò di amareggiare in cento modi il magnanimo cuore di Pio. Come

Giucci. Vita di Pio VII [p. 146 modifica]tornano a sua gloria le ragioni per le quali meritò la porpora così parleranno sempre a suo danno i disgusti supremi, con i quali contristò i buoni, offese la dignità del pontefice e la maestà del sovrano. Discorro brevemente i suoi fatti. Deputato ecclesiastico agli stati generali dell’ottantanove, membro dell’assemblea nazionale, con un coraggio che sfidava il furore popolare, sostenne i diritti dell'altare e del trono. Chiamato in Roma da Pio VI fu inviato nunzio straordinario alla dieta elettorale di Francfort, indi promosso alla porpora. Sostenitore un tempo dei principi borbonici balestrati dalla rivoluzione , declamò contro la repubblica, censurò aspramente il concordato fra la santa sede e il primo console, ma quando vide dichiarato Napoleone imperatore dei francesi e tale riconosciuto dalle potenze, lasciò la episcopale sua sede e andò a Parigi a mendicare i favori del nuovo principe, che il vide sempre ligio non che ai suoi comandi, ai desideri senza scrupolo e senza ritegno. L'ambizione lo sedusse, lo compromise l'amicizia ond'era stretto ai filosofi, che prepararono e compirono la rivoluzione francese. Quando si pretese sopprimere alcune sedi vescovili negli stati del papa per riunirle alle diocesi conservate, ad onta dei pontifici divieti venuti da Savona, assunse il governo di quelle che erano vicine alla sua diocesi: quando Fesck in obbedienza ai canoni ricusò l'arcivescovato di Parigi andò Maury a governar quella chiesa e nominato vicario capitolare tenne l’archidiocesi: quando per imperiale comando i vescovi di Francia e d'Italia adunaronsi a Parigi in un concilio nazionale condannato dalle leggi canoniche, disapprovato dal supremo gerarca della chiesa, egli mostravasi ardente fautore delle imperiali pretensioni così che i vescovi non solo ma i cortigiani istessi l'ebbero a sdegno. Sel vide Pio VII irriverente d'innanzi quando venne in Fontainebleau per persuaderlo a mantenere gli articoli di un concordato, che costò al pontefice tante lacrime: giunse a tal grado la temerità e l'impudenza di Maury, che il mansuetissimo pontefice debole, infermo com'era, alzatosi dalla sua sedia e, presolo per un braccio, lo accompagnò [p. 147 modifica]fuori della sua stanza e ne chiuse la porta. Mi affretto a dire, che dopo il ritorno del papa in Roma, opinavasi dai prelati d'istituire un regolare processo. Raccoglievansi all'oggetto i documenti è le prove: sotto geloso segreto creavasi una commissione di cardinali, si stabilivano i giudici processanti e già davasi mano all’opera quando l'arrivo di Ercole Consalvi che in Roma godea la fiducia di Pio, che in Vienna erasi innalzato al pari dei più vecchi e sperimentati ministri e ne avea guadagnato l'affetto, e ne conosceva le intenzioni, fece prevalere la sua idea, sconcertò quel disegno e il Maury, liberato dal forte, videsi poco dopo riammesso alle funzioni di chiesa, ai concistori, alle congregazioni e ad ogni altra rappresentanza cardinalizia.

VIII. Avvicinavasi il momento, in cui dovea il papa rientrare nei suoi stati. Pio VII e Vittorio Emmanuele, chiamato per l’abdicazione spontanea di suo fratello al trono, si prodigavano segni di riverenza e di affetto. Recavasi Pacca in Alessandria per inchinarsi al pio monarca, che faceagli onorata e lieta accoglienza. Domandavagli il cardinale se era grato al re, che il santo padre cedesse alle preghiere dei savonesi, desiderosi di veder coronata di sua mano la statua prodigiosa di Maria Vergine e se nelle attuali condizioni d'Italia quel viaggio e quella ceremonia poteasi compiere tranquillamente. Questi lo assicurava consentire volentieri al desiderio del papa: avrebbe la coronazione di Maria edificato il popolo, vi assisterebbe egli stesso. Poco dopo il ritorno del cardinale recavansi a Genova Vittorio Emmanuele, sua figlia Maria Beatrice duchessa di Modena, il duca di Carignano a dare testimonianze di ossequio all’ospite augusto, che amorevolmente lo accolse. Andò il papa il dì seguente a render la visita al re, che sceso coi suoi alla porta del palazzo, lo attendeva in ginocchio, circondato dalla sua corte, veduto da un numero immenso di cittadini accorsi al ricevimento. Recandosi per diporto a Sestri, ove lo attendeva sulla porta della chiesa il cardinale arcivescovo, ammirò in Cornigliano il museo di storia naturale dei signori Durazzo. [p. 148 modifica]Restituì la visita alla regina di Etruria e alla principessa di Galles. L’accolse la prima con tenerezza di figlia, l'altra con rispettosi riguardi. Attendeano i ciamberlani il santo padre all'ingresso della villa Durazzo: alla alla porta del casino: lo accompagnò per le scale, si trattennero insieme, parlando delle cortesia ricevute dagl'inglesi e nell'atto in cui congedavasi dall’augusta principessa, pregato da lei, ammise al bacio del piede la sua nobile comitiva. Non permise Pio VII all’augusta signora di discender le scale, ma quella, profittando di un andito diverso, trovossi alla porta della villa per render nuove grazie al pontefice, che l'avea visitata. Vedeano i cittadini con opera assidua ergersi le tribune per i sovrani e gli ambasciatori, prepararsi le panche pei cardinali, prolungarsi il presbiterio, decorare di lumi, di velluti, di serici drappi il vasto tempio dell'Annunziata di Genova. Il papa avea promesso di celebrare in esso la cappella della pentecoste: un editto del cardinale arcivescovo ne dava avviso al popolo; la marchesa Nicoletta Durazzo offriva in dono al papa due magnifici flabelli: la corte, la civica rappresentanza, il capitolo genovese con gara devota concorrevano a render nobile e decorosa la ceremonia, che chiamò meglio che quaranta mila persone nella chiesa, nella piazza e nei circostanti palagi. Compiuta la ceremonia e deposti gli abiti pontificali, fu dal nobile marchese Negroti Cambiaso offerto lauto rifresco al papa, al re, alle reali persone, che da una loggia del palazzo aveano assistito alla benedizione compartita ai fedeli. Dopo avere il pontefice prestata assistenza alla messa solenne, preceduto dai canonici della chiesa metropolitana, dai cantori, dai prelati, dai vescovi, dal sacro collegio, in sedia gestatoria, sostenuta dai caravana vestiti in damasco rosso, diretti dal commendatore Altieri cameriere segreto del papa, traversò la piazza e dalla loggia del palazzo Negroti Cambiaso, che è di fronte alla chiesa, comparti all'immenso popolo ivi raccolto la benedizione papale: grandioso spettacolo, in cui tutti gli sguardi sono rivolti, come ad un punto, al padre dei credenti che prega su i figli il favore del cielo: scena magnifica e [p. 149 modifica]commovente, che torna sempre nuova e sorprendente a chi si fa ad ammirarla nella vasta piazza o fra le ampie braccia del colonnato elittico del vaticano. Genova ne fu edificata e ne serba ancor la memoria. Giungeva frattanto il giorno desiderato dai savonesi, nel quale doveano ricevere Pio VII, e salutar da vicino l’eroe pacifico, di cui aveano ammirate le sublimi virtù. Con pompa veramente sovrana mosse questi il di otto dalla capitale della Liguria. Affollavasi il popolo e copriva, nel rigore della parola, lo spazio delle trenta miglia, che separa Savona da Genova: le finestre dei villaggi che si traversano in quella corsa, erano riccamente adobbate ed occupate da innumerevoli spettatori. Incontravansi lungo la via archi di trionfo, alberi ivi trasportati dai colli vicini a render più belle quelle contrade per se stesse deliziose. L'irrompere della folla crescente, gli applausi, le grida del popolo chiedente la benedizione: del papa immense, assordanti, continue, tali insomma da superare lo strepito dei mortai, il suono delle campane, l'armonia dei musicali concerti. Entrò finalmente nella città illustre per grandi memorie, di cui ogni italiano deve dirsi superbo. Savona fu patria a Giulio II e a Cristoforo Colombo. La mente del primo si chiuse sul finire del secolo XV al concetto di un tempio che non ebbe e non avrà eguale nel mondo e col vasto disegno diede impulso efficace al risorgimento delle arti in Italia; scoprì l’altro nuovo continente che alla religione dischiuse immensi campi, sterminate contrade e all'avidità del vecchio mondo insegnò la strada a nuove conquiste. Ingrata l'Europa, e più di quella ingiusta l’ Italia, la quale soffrì che Giovanni de' Medici, quindi Leone X, desse il nome al suo secolo e Americo Vespucci al nuovo emisfero! La guardia nobile, uscita incontro a Pio VII per oltre a dieci miglia, lo scortava sino alla porta dell’episcopio. La discesa, che chiamano di santa Maria Maddalena, era decorata da vasi di agrumi collocati sovra altrettanti pilastri: le strade, guardate da doppia linea dei soldati di Vittorio Emmanuele, erano coperte di verdura e di fiori, i davanzali delle finestre di bandiere e di drappi: una moltitudine immensa, [p. 150 modifica]venuta dalle due riviere di Genova, animando quel trionfo, davagli un carattere tutto nuovo e solenne. Ricevuto, corteggiato dalle autorità municipali, governative e dal popolo ebro di gioia, abitò il palazzo del vescovo, ove lunghi mesi visse prigioniero e guardato severamente dai soldati di Francia. Avea il dì seguente celebrato appena nella cattedrale il divino sacrificio, assistito dai cardinali, ed erasi restituito nelle sue stanze, quando s'intese un rimbombo di artiglierie. Nè domandò la ragione e gli si disse, che salutavano il re giunto allora a Savona. Decise il papa di fargli una grata sorpresa e il re nel punto istesso decise di correre ai piedi del papa. Muovendo ambedue nel momento medesimo dai loro respettivi palazzi, volle il caso che s'incontrassero in mezzo alla piazza. Vittorio Emmanuele di Sardegna, Maria Beatrice di Modena e il principe di Carignano, seguendo gl’impulsi del loro cuore, giunti appena al cospetto del vicario di Cristo, curvarono riverenti a terra il ginocchio per baciare i piedi del santo padre: affaticavasi questi a rialzarli dall'umile posizione quando il popolo, nuovo a tale spettacolo, sollevò un grido unanime, prolungato e quel grido esprimeva la meraviglia, la tenerezza e il rispetto. Volle la provvidenza che Pio VII ricevesse sovrani onori nel luogo istesso, ove i gendarmi aveano aspramente impedito ai fedeli di avvicinarsi al comun padre e pastore. Dopo poche ore giungeva in Savona con i suoi figli la regina d'Etruria: tutto era disposto per l’augusta ceremonia la quale dovea eseguirsi nel dì seguente con apparato solenne alla presenza del re, della figlia, di Maria Luisa Borbone, dell’infante don Ludovico, della sorella e del principe di Carignano. Preceduto dal cardinal Pacca, di buon mattino il pontefice mosse pel santuario, scortato dalla cavalleria di linea e dalle guardie di onore. Avea nella carrozza i cardinali Mattei e Spina. Lungo la strada erano archi di trionfo: il fremito dei cannoni piemontesi, le grida giulive del popolo, il suo affollarsi lunghesso la via dava un aspetto leggiadro e [p. 151 modifica]imponente a quella deliziosa riviera5. Erano dieci cardinali e vari prelati di camera innanzi al piccolo tempio dedicato a Maria in mezzo ad una campagna remota e selvaggia. Accompagnarono essi il santo padre sino all’altare: discese questi nella cappella sotterranea, ove furono ammessi soltanto i sovrani e i loro augusti congiunti, i cardinali e pochi prelati: stavano le dame e i cavalieri di corte per le scale della cappella: tanto era angusto quel luogo. Intuonò prima l'antifona Regina coeli, quindi salito per varî gradi sull'altare, cinse capo a Maria con la corona d'oro inviata dal capitolo vaticano e dalla pietà religiosa dei liguri arricchita di gemme. Recitate le preci e tornato di sopra, intuonò il papa l'inno ambrogiano: il vescovo di Porfirio Menochio celebrò la messa ascoltata dal papa e dai personaggi, ivi raccolti, quindi, avanzandosi verso la porta del santuario, compartì all'immenso popolo che copriva quel vastissimo spazio, la benedizione apostolica. La mitezza della stagione, il concorso dei savonesi, la presenza di augusti personaggi, tutto insomma contribuì a rendere maestoso insieme e devoto quel sacro rito6.

IX. Avvicinavasi il momento in cui dovea il papa ritornare nei suoi stati. Rischiaravasi l'orizzonte politico; lo sollecitava da Vienna Consalvi, lo desiderava Roma, lo domandavano i cardinali. A misura che abbreviavasi îl tempo, si aumentava il rispetto e la venerazione per esso. Univasi al corpo diplomatico, che da Roma lo aveva seguito in Liguria, l'inviato dell’ imperatore delle Russie generale [p. 152 modifica]barone di Thuvlì, che presentavagli affettuosa lettera di Alessandro I: monarchi e principi lo visitarono; nobili e negozianti fecero a gara per tributare ossequio al gerarca della chiesa, per offrire ai cardinali, ai prelati ospitalità generosa, il popolo per applaudirlo7. Ricevute le visite di congedo, ossequiato dallo stato maggiore di piazza, dal commissario del re, domandò il papa la nota delle guardie nobili, dalle quali ebbe luminose prove di ossequio, per inviare ad esse da Roma un pegno dell'amor suo. Sino dal dì che precedeva la sua partenza il portico dell episcopio, il cortile, le scale, la vasta sala, la stessa anticamera si videro assediate da una moltitudine di persone, le quali, benchè respinte dalle guardie, non fu possibile rimovere da quei luoghi durante la notte: tutti volevano vedere il santo padre, baciargli i piedi, attestargli la loro devozione profonda. Avvicinatasi l'ora della partenza, crescea la folla, l’aria era assordata da grida chiedenti di vedere il papa. Volle Pio secondare il desiderio dei cittadini e, affacciato alla loggia dell’episcopio, diede alla città la benedizione apostolica. Commosso dall’imponente spettacolo di un popolo immenso che agitavasi nella piazza, sollevando al cielo le mani, con voce altissima gridò: Dio proteggerà i genovesi: tenero voto che risuonò dolcemente nel cuore dei cittadini e non potrà essere dimenticato. Quindi scese le scale dell'episcopio, ove nel cortile stavano tre carrozze a sei cavalli e lasciò Genova la mattina del diciotto maggio. Uscito appena dalla città, fu salutato dalle batterie del molo vecchio: giunto al piano di san Pier d'arena, vide le vie sparse di fiori, adorne di tappeti e di arazzi: in Campo Marone, ove dovea riposarsi nel palazzo [p. 153 modifica]Baldi, era incontrato dal marchese Zapparelli d’Azeglio, che spedito dal re, lo pregava a non volere abbandonar la Liguria, senza aver prima visitata la capitale del regno. Secondò Pio VII i desideri del monarca sabaudo, e quantunque desideroso di affrettare il viaggio per evitare i calori dell’estate sempre ad esso dannosi, si diresse ad Alessandria e lasciò la via di Voghera8. Giungeva a Torino la notte del venti: trovò a breve distanza dalla capitale Vittorio Emmanuele che ne attendeva l'arrivo. Fu commovente l'incentro: invitato, entrò il re nella carrozza del papa e in compagnia dell’ospite augusto proseguì il viaggio lungo una strada vagamente illuminata con lampioni appesi agli alberi, che la fiancheggiavano. Nuovo spettacolo preparavasi nella città. Le piazze, le vie splendidamente illuminate, rigurgitavano di curiosi: la cavalleria, la fanteria che guardava la piazza e le simetriche strade, presentando le armi, rendeano gli onori militari al vicario di Cristo accolto nella corte di un principe che sulla sommità delle alpi veglia alla tutela e alla sicurezza d’Italia. Il suono delle campane, lo strepito delle artiglierie, l'affollarsi del popolo nelle ore di una notte rischiarata da tante faci resero commovente il ricevimento del papa nella capitale piemontese. Questo giubilo diffondevasi, procedea, giungeva sino al reale palagio, ove Carlo Alberto principe di Carignano, attendeva sull'atrio gli augusti personaggi per aprire lo sportello della carrozza e far discender da quella il pontefice e il re. Tutti gli ordini dello stato, nelle splendide loro uniformi, aggiravansi per gli appartamenti reali a corteggio del santo padre: eranvi i grandi della corona, [p. 154 modifica]la camera, i decurioni della città, i magistrati, i professori universitari. Dimorò tre giorni in Torino: nel secondo aprì la custodia che serba la sacra sindone la quale, esposta alla venerazione dei fedeli, venne il dì seguente rinchiusa nell’urna, a cui si apposero i pontifici e reali sugelli. Benedetto con essa dalla loggia del reale palazzo il popolo torinese, venne con processione devota collocata di nuovo nella reale cappella. Dopo scambievoli dimostrazioni di affetto fra i due sovrani, riprese il papa il viaggio alla volta di Roma. Giunse in Modena la vigilia del corpus Domini, ricevuto nel palazzo ducale. Accompagnato il di seguente da due cardinali, seguì a piedi la processione solenne, avendo al fianco il duca, la duchessa, la corte. Una lettera del cardinale pro-segretario di stato preveniva il gran duca di Toscana che il santo padre per la via di Firenze sarebbe rientrato nei supi domini. Ferdinando Riccardi, Leopoldo Ricasoli, nobili fiorentini, furono da Ferdinando II inviati alla frontiera per ricevere e corteggiare il pontefice. Si trattenne la notte a Pistoia nel palazzo del vescovo: mosse il dì seguente per Prato, giunse alle nove della sera a Firenze. Lo attendeva alla porta della città con le mute di corte il consigliere di stato Amerigo Antinori: dragoni, granatieri, cacciatori stavano sotto le armi: agli sportelli della carrozza erano il general Bava, il colonnello d'Etavet: un numero immenso di cittadini con torce accese precedevano, seguivano la carrozza del papa: era la città illuminata, i cittadini esultanti. Gli arcivescovi e vescovi della Toscana, invitati dal gran duca, lo attendevano all'ingresso del tempio di santa Maria novella, ove il papa pregò innanzi al sacramento, compartì al popolo la benedizione, si diresse al palazzo Pitti. Celebrò il dì seguente la messa nella chiesa della Maddalena, quindi visitò i conservatorî di Ripoli e di sant'Agata; intervenne alla processione solenne dell'ottava del corpus Domini e fu riaccompagnato alla reggia dal plauso dei cittadini, che con torce accese, di nuovo circondarono la sua carrozza. Profittando della circostanza, parlarono insieme Pio VII e Ferdinandò II della disciplina ecclesiastica o negletta o [p. 155 modifica]variata in Toscana: dissero dei tristi effetti prodotti dalle innovazioni e dei peggiori che poteano prevedersi, se immediato non si apponeva un riparo; prudentemente se ne avvisarono i modi e più tardi se ne conobbero i risultati. Nel percorrere tanta parte d'Italia, vide il papa ancora intatto nel cuore di tutti il sacro deposito della fede, ancor vivo nei popoli l'ossequio profondo, verso la chiesa. Il trionfo del santo padre non mancò di produrre effetti salutari sull’animo dei vescovi, sacerdoti, capitoli, che vinti dal terrore, sedotti dai consigli, ingannati dalle arti dei tristi, aderirono al governo napoleonico, scandalizzarono i popoli, amareggiarono il cuore dell’oltraggiato pontefice. Spontaneamente costoro a voce e in iscritto o dichiararono che i loro indirizzi vennero mutilati dall'altrui prepotenza, mentre ad essi non era dato sollevare la voce e questi molti; o con cristiano coraggio confessarono l'errore e questi furono pochi, ma più accetti9. Proseguendo il viaggio, benedì Siena che lietamente l’accolse: passò a Radicofani, ove rivide la stanza in cui lo tenne chiuso Radet, dopo averlo con violenza rapito al pacifico governo della chiesa, ai bisogni del mondo cattolico e all’amore di Roma10. Varcati il giorno cinque giugno i confini che la Toscana dividono dallo stato della chiesa, dopo poche ore, incontrato dal popolo, entrò in Viterbo, che a festeggiare il desiderato ritorno di Pio, portò attorno alla città la grandiosa macchina sulla quale è collocata la statua di santa Rosa, patrona di quell'illustre [p. 156 modifica]capitale del patrimonio di san Pietro e nei fasti della santa sede per grandi avvenimenti famosa.

X. Unito al cardinal Pacca suo compagno nelle persecuzioni e spettatore fortunato dei suoi trionfi, entrò in Roma il dì sette giugno. Dirò poco delle accoglienze, nulla delle feste con cui si vide nel suo ritorno acclamato Pio VII. Lo attendea nella villa Cini, ove prese breve riposo, la giunta di stato; il municipio lo ricevea alla porta della città. Il suo ritorno fece dimenticare a Roma le angosce sostenute nella lontananza di circa tre mesi. Prese la via del corso, volse al clementino e per tordinona e castel sant'Angelo si diresse alla basilica vaticana. Dopo aver pregato innanzi alla tomba degli apostoli, intuonato l'inno ambrosiano, compartì al popolo la benedizione eucaristica. Il congresso di Vienna avea intanto compiuto il grande atto di giustizia, che restituiva il papa ai dominio dei suoi stati11: avea di più assicurato Consalvi ai nunzi apostolici presso le varie corti di Europa la precedenza e l'altissimo onore di portare la parola in tutte le diplomatiche rappresentanze12. Roma esultava di così liete novelle, quando [p. 157 modifica]giungea da Vienna Mazio segretario delle lettere latine, latore dei dispacci del cardinal Consalvi, che indi a pochi dì lo seguiva. Fu lieto il papa nel rivedere il porporato che con arte meravigliosa secondò le sue speranze, conquistando la stima di tutte le corti europee. La provvidenza avea creati due uomini che, incontratisi nel sentiero della vita, s'intesero, si valutarono, si soccorsero a vicenda fra loro. Pio VII, educato in un chiostro, ignaro dei grandi usi del mondo, ma nelle mire sincero, ingenuo nelle parole, negli atti mansueto, umile e pio: Ercole Consalvi, uscito da un piccolo seminario di provincia, divenuto gran maestro nell’arte di governare, d'irresistibile potenza d'ingegno, di gran fede, di rara celerità nel misurare gli ostacoli per evitarli, nel conoscere le circostanze per afferrarle: fenomeni che l’Italia vide tante volte rinnovellarsi. Egli pel desiderio manifestato dai monarchi recava da Vienna opinioni miti e concilianti: aboliva la tortura, vituperio della età che a Roma trovava ancora fautori: restituiva a libertà i prigionieri politici, rassicurava i latitanti, conservava il sistema ipotecario, regolava le contribuzioni, manteneva l’abolizione dei fideicommissi e a questo inteso bisogno promettea leggi opportune: quindi istituiva una congregazione, che dissero economica, composta di cardinali e prelati, la quale, sulla proposizione del segretario di stato, desse voto consultivo negli affari di legislazione, amministrazione e finanze. Assicurata in tal modo, per quanto lo consentivano i tempi, la prosperità dello stato e provveduto agli urgenti bisogni, volle il papa il di quattro settembre ai cardinali, adunati in concistoro, manifestare quanto erasi operato e quanto proponevasi di eseguire. Rese pubbliche grazie ai monarchi alleati, che seguendo i dettami della giustizia aveano restituito la santa sede al legittimo possesso dei suoi dominî: parlò dei favori ricevuti dall'Inghilterra, della solerzia addimostrata dal cardinal Consalvi, delle sue note, delle sue proteste, delle presenti condizioni, delle future speranze.

XI. Lo stato in cui erano gli affari della chiesa cattolica in Germania angustiava altamente il cuore di Pio. [p. 158 modifica]Avea incaricato il suo rappresentante in Vienna di domandare al congresso riparazione ai danni che la medesima avea sofferti presso quella nazione e in modo sensibile nella dieta di Ratisbona del mille ottocento tre e questi, obbediente ai voleri sovrani, dichiarò al principe di Metternich, presidente della commissione destinata agli affari della Germania e ai magnati nelle cui mani era confidata la pace del mondo, che il capo visibile della chiesa non poteva essere indifferente ai reclami che riceveva, ai danni che sopportavano i cattolici di quelle vaste regioni, ove i beni delle chiese, dei vescovati, delle badie, dei monisteri e delle pie istituzioni della Germania erano stati distratti: innovazioni pericolose, atti arbitrari per i quali le proprietà ecclesiastiche vennero occupate da principi cattolici e protestanti con manifesto danno della chiesa, arbitrariamente spogliata del suo legittimo patrimonio: lamentavasi in fine del non vedere ristabilito il romano impero a buon diritto riguardato come centro di unità politica, consacrata dal principio religioso. I giusti voti del papa e gli sforzi del suo ministro se non raggiunsero l’effetto desiderato, restò ad ambedue il conforto supremo di averlo energicamente tentato. L'animosa protesta inserita nei protocolli di quel congresso rimarrà sempre luminosa prova delle sollecitudini del pontefice e dirà alla posterità che esso e i suoi antecessori non si rifiutarono mai dal tutelare gl'interessi spirituali e temporali di quell'inclita nazione13. Sconfortanti correvano le cose di Germania, fredde quelle di Francia, più liete giungevano le notizie dell'Inghilterra. Per la prima attendevasi consiglio dal tempo: sentivasi per l'altra la necessità di spedire un nunzio apostolico in Parigi, speravasi per l'ultima di veder [p. 159 modifica]migliorate le condizioni dei cattolici nell'Irlanda. Il vicario apostolico di Londra Pointer vescovo di Hallia nella Macedonia scrivea a Consalvi aver l’allocuzione del papa prodotte compiacenze in quella corte, in quella città grata sensazione, così che gli odi antichi doveano dirsi in gran parte sopiti. La bontà naturale di Pio, la prudenza del suo primo ministro agevolmente composero le differenze: le buone disposizioni del reggente verso la santa sede si confermarono per nuovi atti di compiacenza usati verso gl'inglesi che visitavano Roma. Seguendo gl’impulsi del cuore, Pio VII destinò ad uso pio, per consiglio del nobile vene: o Lorenzo Giustiniani, il palazzo Corner con la galleria e la mobilia ereditato dal papa per disposizione testamentaria di quel gentil uomo e ne presero possesso i sacerdoti Anton Angelo e Marcantonio Cavanis, benemeriti istitutori in Venezia della congregazione delle scuole di carità14. Intorno a quest epoca, con reciproca soddisfazione del papa e del principe Eugenio, si composero in pace definitiva le vertenze insorte nello stabilire la dotazione assicurata dal congresso viennese al vice re d'Italia. Appoggiavano la domanda del principe, Lebzeltern per l’Austria, Hoeffelin per la Baviera, Hitroff per la Russia. Pio VII, che non avea dimenticata l'ossequiosa deferenza e la simpatia mostratagli da Beauharnais quando dalla Francia tornava in Roma, con questa convenzione assicurò in un punto solo l’interesse del principe e la dignità della santa sede.

XII. La forza prepotente delle armi francesi avea costretta la pacifica Roma ad inviare a Parigi i capolavori, dei quali andò sempre giustamente superba. Spogliati i templi, i musei, le gallerie dei loro migliori ornamenti, deplorava amaramente l'Italia la perdita delle più belle opere di scultura e di quasi tutti gli archetipi dei divini pennelli del cinquecento: compenso a tanto strazio [p. 160 modifica]rimaneangli soltanto i monumenti, che la mano dell’uomo non potea togliere a Roma. Sentivasi il bisogno di un abile negoziatore e parve che solo a Canova potea confidarsi incarico di tanta importanza. Andate, diceagli piacevolmente Consalvi, a compiere il dovere di principe perpetuo dell’accademia di san Luca: Roma colloca nelle vostre mani le sue speranze: e il grande artista partiva per Parigi latore di una lettera dei papa per Luigi XVIII e di un'altra diretta a Talleyrand da Consalvi. Canova portava i voti dell'accademia che spinta dell'amor suo per le arti all’acclamato presidente perpetuo consegnava un'istanza da presentarsi alle potenze alleate, nella quale facendosi interpetre dei voti e dei bisogni di Roma implorava la restituzione degli oggetti involati. Grandi ostacoli e impreveduti trovò egli a Parigi: velato pretesto al rifiuto diceasi il trattato di Tolentino15: causa vera il dolore dei francesi di dover perdere tanta dovizia di opere d'arti meravigliose. Era però difficile il resistere alla nativa piacevolezza Veneziana, alla modesta natura, all’evidenza degli argomenti dell’inviato di Roma. Dicevasi in una nota diretta alle potenze alleate, che avendo le armi loro restituito alla Francia il re, il pontefice a Roma, anch'esse le belle arti, sacre alla religione, utili alla società, costituenti un ramo a cui non è estranea la politica di ogni stato, meritavano il loro favore. Roma sola, scrivea Canova è la metropoli, che può offrire ad esse un albergo degno di loro: in Roma la terra, il cielo, il clima, lo stile degli edifici, i costumi soro posti in tale armonia con l'antica grandezza da sollevare gli spiriti a nobili e sublimi concetti. Dividerli dai [p. 161 modifica]monumenti è distruggere, perturbare quella unità di scuola, che recò tanti vantaggi in Europa. E assurdo, aggiungeva, tenere aperte in Roma accademie e scuole di disegno, e privarla dei monumenti, delle opere raccolte dalla munificenza dei pontefici che educarono alla Francia i Claudi, i Poussini, i David, i Vernet. Carlo V, Francesco I, Carlo VIII non osarono spogliarla dei suoi tesori: non operò diversamente Federico II, due volte divenuto padrone di Dresda: i russi, gli austriaci entrati in Berlino rispettarono gli oggetti d'arte raccolti nei reali musei. L’incivilimento, l'esperienza del secolo sono ben lontane dall’approvare un atto veramente vandalico. Queste ragioni, i buoni uffici, le cure di Canova produssero l'effetto desiderato: il conseguito trionfo è interamente dovuto al valore, all’ingegno, alla perseveranza e più al nome del grande artista. A convalidare gli argomenti, a rinfrancare le preghiere dell’inviato del papa si aggiunse la pubblica opinione e il favore delle potenze straniere. Guglielmo Hamilton vice segretario al consiglio di stato brittanico pregò lord Castelreagh a riguardare come affare della nazione la domanda di Pio: tanto in meglio variavano i tempi: un opuscolo inglese diffuso a Londra e a Parigi prese a deplorare con aspre parole la resistenza francese: più severa suonò l’energica nota, inviata alla corte delle Tuileries dal ministro della Gran Brettagna. Wellington che sostenea i diritti dei belgi, i quali domandavano i loro quadri, favoreggiava i romani. La Francia che tutto devea agli alleati trovavasi a fronte di grandi competitori16. Reclamava Metternich tutto quello che apparteneva agli stati italiani venuti sotto l'impero, e quello che possedea Modena e Parma: i prussiani strappavano con la forza quanto era [p. 162 modifica]stato ad essi involato. Sotto il peso di una opinione così vivamente manifestata finalmente si rassegnava la Francia al grave sacrificio. Non dimenticò per altro Canova gli ordini ricevuti e lasciò ai musei nazionali pregevolissime opere, spontaneo dono del papa: primeggiavano fra queste il Tebro statua colossale, la Melpomene, la Pallade. Tanto però spiacque ai parigini la perdita, da rendere impossibile il trovare i mezzi di trasporto per inviare a Roma le casse contenenti gli oggettì d'arte ricuperati. Il reggente d'Inghilterra, che affidò al Fidia dei tempi una lettera per Pio VI e colmò l'artista romano di splendidi doni, assunse l'impegno di trasportare a Roma a spese dello stato le opere ricuperate per dare al pontefice una nuova prova di riverenza e di affetto. Il re di Francia, che non avea potuto conservare tante ricchezze artistiche a Parigi, commosso dalla munificenza del papa, per mezzo di un suo ministro ringraziava Canova17. Consalvi confermando a nome del papa quei doni, diceagli: « Il vostro arbitrio ha indovinata la volontà del pontefice. » Roma però fu sottoposta a gravissime perdite e irreparabili. Conservò Parigi pregevoli quadri, belle sculture, preziose medaglie della collezione vaticana e diverse pergamene spettanti ad alcuni antichi monisteri. La università di Heidelberg domandò per mezzo dei suoi deputati i codici palatini da Massimiliano di Baviera donati a Gregorio XV. Il re di Prussia sostenne questa domanda e la santa sede per mostrar [p. 163 modifica]deferenza a quel re tanto benemerito della lega, oltre i trentanove codici greci e latini trasportati a Parigi, spedì più tardi alla università tedesca circa ottocento scritti in lingua teutonica, tolti dai nostri archivi. Questi furono i doveri imposti a Roma, questi i sacrifici, ch'essa sostenne per mostrarsi riconoscente alle potenze alleate. Il ritorno di tante opere, delle quali si deplorava la perdita, destò vivo entusiasmo nel cuore dei romani. L'accademia di san Luca, altamente interessata di tutto quello che torna a gloria delle arti nostre, decretò d'innalzare un busto all’illustre Canova, propose ai soci di festeggiare l'avvenimento e di andare in forma pubblica incontro agli oggetti per accompagnarli dalla porta del popolo, al vaticano. Siffatte dimostrazioni di gioia al segretario di stato e al camerlengo, Consalvi e Pacca, parvero o intempestive o soverchie: contramandate, per riguardi politici verso la Francia, solo rimase all'accademia la gloria di averle proposte. Queste misure di prudenza non impedirono ai romani di correre in folla a molte miglia dalla città per incontrare i convogli, che riportavano a noi tanta dovizia di arti. Ammesso Canova alla presenza del papa, fu salutato marchese d'Ischia: all'onorevole titolo era unita un annua pensione di scudi tremila, dal generoso artista destinati a beneficio delle tre: insigni accademie romane di belle arti, di archeologia e dei lincei. Tanto disinteresse rese più caro ai romani il suo nome.

XII. Uomini insigni, per profonda dottrina e per virtù generose benemeriti della chiesa e di Roma, avevano diritto ad un premio. Altri a fianco del travagliato pontefice, altri relegati nei forti, tutti perseguitati ed oppressi, aveano con gli scritti, con le parole, con l'opere sostenuto il principio religioso, difesa la santa sede, avvalorata con i consigli la costanza di Pio. Volle la provvidenza, che due fra i ventuno personaggi, decorati della porpora nel concistoro del dì otto maggio, fossero quindi chiamati al governo universale della chiesa: ne ricordo i nomi onorati. Annibale della Genga arcivescovo di Tiro, che sublimato al soglio di Pietro, assunse il nome di Leone XII e regnò [p. 164 modifica]cinque anni. 18 Pietro Gravina arcivescovo di Nicea nunzio apostolico in Ispagna. 19 Domenico Spinucci arcivescovo Beneventano. 20 Lorenzo Caleppi nunzio apostolico in Lisbona 21 Antonio Gabriele Severoli vescovo di Viterbo. 22 Giuseppe Morozzo segretario dei vescovi e regolari. 23 Tommaso d’Arezzo arcivescovo di Seleucia. 24Francesco Saverio Castiglioni vescovo di Montalto che, eletto pontefice, prese il nome di Pio VIII e governò poco più di un anno la chiesa. 25 Carlo Andrea Pelagallo uditore generale della camera, vescovo d'Osimo e Cingoli 26 Benedetto Nar, maggiordomo dei palazzi apostolici. 27 Francesco Saverio Gardoqui uditore della rota romana per la corte di Spagna. 28 Dionisio Bardaxy anch'esso per a Spagna uditore di quel tribunale.29 Antonio [p. 165 modifica]Rusconi. 30 Emmanuele di Gregorio segretario della congregazione del concilio. 31 Giovanni Battista Zauli segretario della congregazione della immunità ecclesiastica 32 Niccola Riganti segretario della Consulta. 33 Alessandro Malvasia assessore della romana e universale inquisizione. 34 Francesco Fontana generale dei padri barnabiti. 35 Ascrisse all'ordine dei diaconi Giovanni Cacciapiatti uditore generale della camera apostolica: 36 Alessandro Lante tesoriere 37 e Pietro Vidoni. 38 Plause Roma ed il mondo cattolico a questa numerosa promozione, che riparava alle gravi perdite fatte dal sacro collegio di tanti illustri porporati vittime degli anni e delle sventure. In quel concistoro dichiarava il pontefice di avere in petto altri dieci destinati alla porpora.

XIV. Fra le molte provvidenze adottate da Pio per assicurare la pubblica quiete è a ricordarsi quella che salvò la capitale dalle noiose insistenze dei poveri che, o per vero o per simulato bisogno, ingombravano le strade, penetravano nei negozi, assediavano le case, turbavano a tranquillità delle chiese. Senza allontanarsi dalle leggi imposte dalla carità cristiana, con lo sborso di cinquanta mila scudi gettò le fondamenta di una casa di ricovero, creò apposite congregazioni pel buon andamento dell’istituto, eccitò la pietà dei facoltosi romani a concorrere [p. 166 modifica]all'altissimo scopo, che provvedendo agli altrui bisogni, salvava Roma da una piaga che la povertà delle provincie, la tristezza dei tempi e la mancanza delle risorse avevano creata. Sorse in tal modo il grandioso stabilimento di santa Maria degli angeli alle terme diocleziane, ove oltre i vecchi che trovano in esso stanza e alimento s'istruisce un numero ingente di giovanetti d’ambo i sessi, ch'ivi ricevono cristiana educazione e si addestrano alle arti e mestieri. Dall’odio che ispiravano in Roma le istituzioni napoleoniche si sottrasse per espresso comando del papa i corpo dei vigili, guardie del fuoco, che dalle macchine adoperate per estinguere gl'incendi, dicono pompieri. Molti furono i vantaggi recati da questa schiera di artigiani, che retta da un colonnello, conservò lungo tempo gli andamenti, l'uniforme, l'amministrazione francese. La sbirraglia odiosa al basso popolo per recenti e antiche memorie di atroci fatti, d'intollerabili abusi, per volontà sovrana disparve. La civiltà dei tempi si compiacque nel veder tolte le attribuzioni di polizia ad un'orda di uomini rozzi, spesso delittuosi, per lo più usciti dalle carceri e dalle galere, che senza uniforme, minacciosi, pettoruti, non temati se incogniti, odiati se conosciuti, erano più disposti a promovere che ad acchetare le risse! A questi successero i carabinieri, milizia regolarmente ordinata, sottoposta al governatore di Roma. I progressi segnati dalle scienze mediche consigliarono il papa ad istituire due cattedre di clinica medica in santo Spirito in Sassia; chirurgica in san Giacomo in Augusta. 39 Così si riordinavano gli andamenti dello stato, mentre ogni giorno andavansi escogitando nuovi miglioramenti. Il gabinetto francese riavvicinavasi alla santa sede; il re domandava un legato a latere e nel chiederlo, aggiungeva: in autorità, pari a quello che trattò con l'usurpatore. Richiamato de Pressigny [p. 167 modifica]vescovo di san Malò, affidavasi l'ambasciata al conte di Blacas, al quale il duca di Richelieu, nel ministero degli esteri sostituito a Talleyrand, imponea di non far menzione del concordato: doversi, dicea quel ministro, trattare la santa sede con ogni riguardo: desiderarsi salvo il regno dai mali che minacciavano la chiesa di Francia. L'ambasciatore straordinario giungeva in Roma il dì trentuno maggio e l'antico vescovo di san Malò, d’indole franca e sincera più che a diplomatico si concede, poco amato da Consalvi, ma caro al pontefice, colmato di doni tornò a Parigi. In mezzo a tanta operosità e alle gravi cure di stato, per ostinata disuria, cadde infermo Pio VII. Annoiato dalle cure mediche, vedendo aumentarsi i dolori, volle provvedere da se stesso alla propria salute. S'impose un severo regime di vita tanto nel vitto quanto nelle vesti: n'ebbe ottimi risultati. Ristabilitosi appena tornò agli ardui affari della chiesa e del principato. Era dell’interesse della santa sede comporre le vertenze con la corte di Ferdinando re delle due Sicilie e non mancò Pio VII dall'occuparsene. 40Scrisse al re benevola lettera, ma la risposta si disse smarrita. Replicati gli uffici, giungea da Napoli curialesco riscontro, foggiato sulle confutate «dottrine di Giannone e di Filangieri. Rifiutavasi re Ferdinando dal pagamento: dicea invariabile il domma, perchè rivelato da Dio, variabilissimo il temporale, perchè dipendente dall'andamento del secolo e dalle condizioni dei tempi: quindi a fare le negative più dure, parlavasi [p. 168 modifica]di promessa fatta a Giuseppe del riconoscerlo re, se garantiva gli stati di santa chiesa e tacevasi di Gioacchino che per la investitura del regno promettea consueto tributo: poi, quasi avessero quelle dicerie trionfato delle giuste esigenze di Roma, chiedea la libera cessione di Benevento e Pontecorvo, proponendo di assumere non so quanto debito avea lo stato col monte Napoleone di Milano per compensi accordati al principe Eugenio. Dissero che il papa si dolse delle espressioni usate in quella lettera: avvisatone Ferdinando, si mostrò dolente dell'avere amareggiato un venerando pontefice, le cui virtù aveano fatto meravigliare l'Europa. Vedute le resistenze, fu prudenza desistere dalle trattative. Roma sperò nella pietà del re, Napoli nelle variate condizioni dei tempi.

XV. Molti e onorevoli per la santa sede furono intorno a quest'epoca i trattati dalle varie corti di Europa conchiusi col papa. Vollero molti giovarsi del raro ingegno e della straordinaria attitudine di Consalvi nel trattare gli affari e appianare le differenze e andavano fiduciose proponendo convenzioni e trattati, che vidersi in varî tempi conchiusi: solo per gli affari ecclesiastici della Germania, che agitavano l'animo di Pio, o si andava a rilento o non si adottarono provvidenze. Domandò l' imperatore il privilegio di nominare alle sedi vescovili del Veneto e della Dalmazia, e l'ottenne per se e suoi successori: desiderò regolare la navigazione del Po e piacque al papa di secondarlo. Si stabilirono in perfetta armonia le convenzioni con la Baviera, per le quali vennero saviamente le cose ecclesiastiche riordinate, provveduto alle sedi episcopali, assicurata la dotazione delle mense e dei capitoli, dei quali agli ordinari lasciavasi la libera amministrazione: stabilivansi le norme per la istituzione dei seminari, promettevasi conveniente dotazione agli ordini monastici d'ambo i sessi destinati ad educazione dei giovani nella religione e nelle scienze: autorizzavasi in fine il re alla nomina delle sedi vacanti, promettevasi libero l’esercizio dell’autorità episcopale, procedevasi in tutto giusta le leggi canoniche e il concilio di Trento. Sottoscrivevano quest'atto Ercole [p. 169 modifica]Consalvi e Casimiro Haeffelin vescovo di Chersoneso. Accordò al re di Spagna una bolla con la quale per sei anni lo autorizzava ad imporre su i beni ecclesiastici annua somma di sei milioni di reali. Profittando delle buone disposizioni del gabinetto inglese verso la santa sede e fatto sicuro per graziosa lettera inviatagli dal principe reggente i tre regni, promove i vantaggi degl’irlandesi, con singolare prudenza s'interessa della emancipazione dei cattolici d'Inghilterra: sottoscrive Consalvi una convenzione col pio re del Piemonte: stabilisce un concordato con l'imperatore delle Russie per il regno di Polonia, sottoscritto dal conte d'Italinski per il quale, diminuite le tasse di dateria per la spedizione delle bolle apostoliche, stabilivasi di reciproco accordo che avrebbe Varsavia un arcivescovo ed otto vescovi il regno. Anche i sovrani protestanti dei grandi e dei piccoli regni e ducati della Germania mostravansi desiderosi di sistemare i loro affari con Roma. Due inviati presentarono al papa la dichiarazione emessa dalla confederazione. Rispose il pontefice: si discussero, si stabilirono i patti con l’opera assidua e solerte del Consalvi e del cavalier Koelle incaricato del regno di Wurtemberg. In mezzo a tanta operosità del papa e del suo primo ministro, solo due angosciosi pensieri agitavano l'animo di Pio VII: gli accordi col re di Francia, che ogni giorno si rendevano più difficili, le convenzioni con la corte delle due Sicilie aspra per fatti, per parole ossequiosa e devota. Correvano tre anni dal ritorno del papa in Roma quando l'ambasciatore francese conte di Blacas conchiuse con la santa sede il trattato che rese nulli gli articoli del concordato segnato sul cominciare del secolo. Venne quell'atto rattificato dal re, annunciato in concistoro dall’allocuzione del papa. Riordinate in tal modo le chiese di Francia, rassicurata Roma dai mali che potevano temersi dai lunghi indugî, creava Pio VII tre cardinali francesi che avevano ben meritato dell’altare e del trono. 41 A superare gli [p. 170 modifica]ostacoli presentati dall'ordinamento degli affari ecclesiastici in Francia bastò un'amorevole lettera di Pio a Luigi XVIII e una nota di gravami inviata all’ambasciatore francese: a vincere le resistenze napolitane valse la saviezza di Consalvi, che proponeva al cavalier De Medici recarsi a Terracina per dissipare con verbali conferenze i dissidi e conchiudere il concordato. Posti a fronte i due ministri, prevalse la virtù di Consalvi e la pietà religiosa del vecchio Ferdinando, omai dolente delle antiche dispute con il papa. Si discussero e si approvarono trentacinque articoli, dei quali molti degni di menzione. Riconosciute valide le vendite delle proprietà ecclesiastiche sotto i due re francesi; restituiti i beni invenduti; ristabiliti gli ordini monastici; quelli dei mendicanti accresciuti; data alla chiesa facoltà di acquistare; accordato il foro ecclesiastico per le cause da trattarsi giusta le norme del concilio di Trento; l'appello da esso devoluto alla santa sede; libero ai vescovi comunicare col popolo; libero il corrispondere col papa. Spiacque ad alcuni la formola del giuramento imposto ai vescovi, altri per esso si tennero mal sicuri. 42 Questi i pubblici, i patti segreti rinnovavano la convenzione del mille settecento quarantuno, per la quale promettea il re dare col regio erequatur immediata esecuzione alle bolle, ai brevi, alle spedizioni della curia romana. Lieto il re dell’avere con quest’alto spezzate le speranze di quanti anelavano sottrarsi alle discipline della chiesa, inviò ricchissimo dono al Consalvi, fortunato negoziatore

[p. 171 modifica]degli accordi fra Napoli e Roma. Come ebbe provveduto per le narrate convenzioni alla pace universale della chiesa, promosse in Francia la istituzione della propagazione della fede fondata in Lione, protesse in Roma quella del prezioso sangue: una destinata a portare la parola di verità in regioni lontane, l’altra occupata dalle missioni nei diversi paesi d'Italia. Sotto la invocazione dell'apostolo delle Gallie san Dionigi e con l'intervento dell’ambasciatore e di varî vescovi francesi, ristabili quel monistero nazionale affidato alle dame di san Luigi, dette di san Cyr, occupate della cristiana educazione delle giovinette che ivi stanno a convitto ed approvò la congregazione delle sorelle della carità dette le figlie di san Vincenzo di Paoli.

XVI. Il Nestore dei re, Ferdinando delle due Sicilie, accompagnato dalla donna che avea presa in moglie, la principessa de Partanna, cori poco seguito e senza pompa venne ad inchinare il pontefice. S'ebbe liete accoglienze dal papa, dalla corte, dalle famiglie magnatizie di Roma, dall'ambasciatore di Francia conte di Blacas, che diede al Borbone di Napoli due splendide feste di ballo nella villa Medici sul colle pinciano. In Roma si rividero i due re figli del magnanimo Carlo II; l'uno che stretto dalle circostanze abdicò a Ferdinando VII la corona di Spagna: l'altro, re avventurato che nelle universali sciagure tenne asilo sicuro e autorità reale in Sicilia. Volle Ferdinando che lo seguisse in Napoli, ove poco dopo cessando di vivere, guadagnavasi rinomanza di egregio fratello, di ottimo amico, di ospite generoso. Avea egli lasciata in Roma la reale consorte Maria Luisa che, assalita da malattia polmonare, lo precedeva al sepolcro. Ebbe questa il supremo conforto di vedersi assistita dalla figlia, duchessa di Lucca e dal duca di Calabria don Francesco principe ereditario delle due Sicilie: mancò a quello la consolazione invocata di vedersi al fianco il fratello. Solenne funere ordinò il papa alla regina delle Spagne e dell’Indie, le cui spoglie mortali con regia pompa vennero trasportate nella basilica liberiana. Dopo la visita del re di Napoli, ricevea il papa quella deì gran duca di Russia Michele, che venne [p. 172 modifica]accolto in Roma con la cordialità, la tenerezza e i riguardi dovuti al fratello del potente imperatore Alessandro: munifico principe che, ad onta della giovinezza e della diversa professione di fede, gl’interessi della santa sede validamente avea propugnati. Eragli Mentore il colonnello Lattarpe. Gli rese grazie Pio VII e lo interessò a pregare lo czar a visitare le meraviglie di Roma, come aveagli fatto sperare Italinski. Le avversità sopportate dall'Europa aveano data ai tempi un'indole tutta nuova e i superati cimenti aveano ispirato un panico timore a tutte le corti sovrane che stavano sugli avvisi e non dei reali pericoli soltanto, ma temevano delle ombre. Un rischio corso da Luciano Bonaparte di cadere in mano ai briganti che ne speravano grosso riscatto, gli fece concepire l’idea che più tranquillo vivrebbe in Bologna e disponevasi a lasciar Roma quando si oppose il signor di Kaunitz, ambasciatore di Cesare presso la santa sede. La protezione del papa, l'affetto del suo primo ministro verso il fratello di Napoleone, non giunsero a dissipare le apprensioni del gabinetto austriaco e il principe di Canino rimase in Roma. Più tardi presentavasi il cardinal Fesch al segretario di stato per implorare dal papa, a nome dell’esule di sant'Elena, l'invio di un sacerdote cattolico. A conseguir questo scopo, con paterna sollecitudine Pio ordinava a Consalvi d'interessarne la corte brittanica. Secondò quel gabinetto le sante intenzioni del pontefice, i desiderî del prigioniero e il prete corso Bonavita, oramai ottuagenario, benedetto dal papa, encomiato da tutti, coraggioso si accinse a traversare l'oceano. 43 Così le paterne sollecitudini del santo padre raggiunsero lo scopo e tornarono utili al grand'uomo che, abbandonato da tutti, trovò benevolo Pio che, ad onta delle sofferte sciagure, nutrì sempre per esso sentimenti [p. 173 modifica]di benevolenza e di simpatia: sicuro indizio di animo generoso. La cortese ospitalità accordata alla famiglia dei Bonaparte, l'amicizia costante mostrata al principe Luciano costò al papa e più al suo ministro continui reclami e non lievi amarezze, ma si mantenne salda e fedele. I rappresentanti delle potenze alleate che esercitavano sulla famiglia proscritta una sorveglianza severa, allarmaronsi quando il principe di Canino desiderò accompagnare in America suo figlio Carlo Luciano, da Pio VII creato in tenera età colonnello onorario delle sue milizie e inviarono nota per la quale dicevansi mal sicuri delle misure adottate dal governo del papa per la custodia del principe temuto e avvisavano Consalvi poter questi, evitando i porti di mare ove lo avrebbero riconosciuto, procacciarsi facile imbarco sulle spiagge adriatiche o mediterranee: vano timore, dappoichè era noto all'Europa che Luciano, sdegnoso degli andamenti napoleonici, antepose vita privata, ma libera al fastoso titolo di re, soggetto alla troppa signoria del fratello. Dimenticò l'Inghilterra che Luciano, caduto in mare suo prigioniero, mentre cercava in America scampo all'ire napoleoniche, visse tranquillo in Malta, tranquillo nelle campagne di Worcester, ove l'ira inglese lo avea confinato. Non mancò Consalvi dall'assicurare i ministri esteri, che si confessavano incapaci di vegliario, vivessero tranquilli sulla sua fede e sulle provvidenze adottate dalla polizia romana nelle risoluzioni spedita, nelle ricerche severa. L'ospitalità, che dissero gli antichi opera nobilissima, diviene eroica se concessa a fronte di pericoli costanti, di manifeste opposizioni.

XVII. Le cure dell’apostolico ministero e più le sostenute amarezze aveano in modo sensibile alterata la salute del papa. Divenuto debole, cadde per deplorabile negligenza dei palatini in Castel Gandolfo, mentre era solo nelle sue stanze, ma quella caduta, che parea sulle prime accompagnata da sintomi inquietanti, non ebbe conseguenze sinistre. L'andamento preso dalle cose religiose in Parigi lo teneano agitato: vedea egli con dolore che il concordato conchiuso, per differenze insorte nelle camere [p. 174 modifica]parigine, non ottenea la rattifica. Il papa in un momento d’impazienza disse al conte di Portalis « gli affari di Francia, sono stati i più penosi del nostro pontificato » e ispirato dalla bontà del suo carattere avea fatto diriggere ai ministri di Luigi XVIII una nota, in cui diceasi che il santo padre, vicino a presentarsi al giudice supremo, non verrebbe trattenuto da ulteriori riguardi, se le proposizioni che dovevano farglisi tali non fossero da esser con favore accettate. Altre cose e più serie portavano le proteste del cardinale, che infaticabile, assiduo, dopo aver tentate tutte le vie, discusse quante erano le questioni, manifestato il fermo volere del papa ne scrisse al duca di Richelieu, che trovavasi in Aquisgrana, e avvisò a tutti i modi di render benevoli verso la santa sede i rappresentanti delle potenze straniere. Le risposte del ministro del re confortarono il cardinale e temprarono in parte le amarezze del magnanimo Pio. Diceagli quel principe che ragioni indipendenti dalla volontà del sovrano opponevansi al compimento dei voti comuni: che le difficoltà si sarebbero appianate, superati gli ostacoli: che il pontefice poteva esser tranquillo sulle istruzioni date ai conti Blacas, e Portalis: che ulteriori indugî avrebbero portato immensi danni alla religione, grandi disastri allo stato: lo assicurava in fine che nessuna delle quattro grandi potenze era nemica alla santa sede. In Roma speravasi nella pietà del re, nella moderazione dei suoi ministri, nel sentimento unanime del popolo, emineniemente cattolico: temporeggiavasi a Parigi per aspettare il ritorno del duca di Richelieu. Si permise ai vescovi francesi di diriggersi al papa e il fecero animati da uno spirito religioso insieme e monarchico e abbandonandosi al giudizio del pontefice, lo invocarono arbitro e mediatore fra essi e il re. Il marchese Dessoles, chiamato a succedere a Richelieu, scrivea all’ambasciatore esser la Francia verso Roma se non in uno stato di resistenza, almeno di non perfetta sommissione. Accolto favorevolmente dalla massima parte dell'episcopato francese il breve di Pio e approvato dal re, ebbero termine le differenze. I plenipoténziari vennero ringraziati dello zelo e della [p. 175 modifica]intelligenza spiegata nel condurre a termine le difficili trattative: al cardinal Consalvi scrisse affettuosa lettera il re44 e più tardi rendea Luigi grazie al pontefice dell'aver collocata in esso la sua confidenza e fatta cessare la lunga vedovanza delle chiese di Francia. Vostra santità ha parlato, dicevagli, e la procella cessò: il tutto annunzia, che al presente stato interinale, che per se già è un bene, sarà al più presto possibile. sostituito uno stato definitivo più vantaggioso. A confermare la buona intelligenza fra la corte di Roma e di Francia e al trionfo della. chiesa contribuì potentemente la scelta dell'illustre prelato Vincenzo Macchi in quei tempi difficilissimi onorato dalla stima di Pio VII e di Luigi XVIII.

XVIII. Animato da pastorali sollecitudini nel lungo corso del suo pontificato, accomodandosi il papa ai variati bisogni della società ridusse alcune diocesi, creò nuove sedi, altre arricchì di titoli e di onorificenze maggiori. Fondò in America i vescovati di Chilopa, ampliò nel Messico la diocesi di Canaria, spedì vicari apostolici nel nuovo mondo. In virtù delle segnate convenzioni con le varie corti di Europa, circoscrisse diverse diocesi in Francia, in Prussia, in Baviera, in Piemonte, nel regno Lombardo Veneto: dichiarò sede arcivescovile Varsavia in Polonia, Smine in Natolia, Bramberga in Boemia, in Piemonte Vercelli, Chambery in Savoia, Friburgo nell’Elvezia, Spoleto negli stati della chiesa: eresse in sedi vescovili Sandomir, Poelachia, Seyna, Esperies, san Cristoforo, Rottemburgo, Limburgo, Cincinnati: ristabilì la diocesi di Caltagirone, sede episcopale stabilì in Nicosia di Sicilia: tutto il mondo esperimentò i benefici effetti dello zelo, della carità paterna di Pio quando la mano dell'onnipotente riportò l'universo ai piedi di Roma. Duolse al pontefice la morte del [p. 176 modifica]marchese Patrizi e disse senatore il principe don Tommaso Corsini, che prese in campidoglio solenne possesso, quindi emise la sua rinunzia alla carica luminosa, cui fu chiamato il principe don Paluzzo Altieri. A premiare le virtù altrui e i servizi resi alla chiesa e allo stato aggiunse nuovi cardinali al sacro collegio: Camillo Simnoni vescovo Sutrino. 45 Giovanni Battista Quarantotti segretario di Propaganda Fide. 46 Giorgio Doria maestro di camera. 47 ascritti all'ordine dei preti: a quello dei diaconi Luigi Hercolani tesoriere generale della camera. 48 Stanislao Sanseverino pro-governatore di Roma. 49 Assicurato il bene della chiesa, provvide alla prosperità dello stato, al decoro di Roma. Per lodate leggi imposte da Pio, da Consalvi emanate, senza aggravar di debiti l'erario, e parve prodigio, si diminuì di annui scudi quattrocento mila la dativa; si ordinò un catasto rustico e urbano, interessante oggetto, dal tempo e dalle cure assidue di chi modera quel dicastero, ai dì nostri perfezionato; si diedero regolamenti di strade urbane e consolari per facilitare il commercio e agevolare i rapporti delle provincie: si crearono i fondi destinati alla manutenzione degli acquedotti, per i quali fluiscono in Roma fiumi di acque potabili: si creò la milizia a decoro del principato; si stabilirono savie norme per la navigazione sul tevere: Lago eseuro, emporio del commercio sul Pò, si dichiarò porto franco. Informato il papa di una iniqua prestanza praticata a danno dei coltivatori delle terre da coloro, che somministrando grano a questa classe di uomini, tanto [p. 177 modifica]utili alla società quanto negletti, emanò severa legge atta a porre un freno alla cupidigia dei sovventori. Intanto a render durevole la pace e la tranquillità dello stato, creava congregazioni prelatizie di vario titolo, tutte dirette a superare gli ostacoli, a riparare i danni recati dal soldatesco regime. Senza spaventarsi dei movimenti che si manifestavano nella provincia Maceratese, prontamente repressi; senza dar peso alle voci, che correvano per Roma: minacciar l'Austria i dominî della santa sede, nutrir la Toscana disegni d'ingrandimento nelle legazioni, vagheggiar Napoli il possesso della marca anconitana, incaricava Pio i più cospicui giureconsulti di Roma della formazione dei codici. Davasi al civile Bartolucci, Tavecchi, Tinelli, Franci avvocati, Vaselli causidico: alla formazione del codice criminale presiedeva Barbèri: stavano con esso Cristaldi, Bartolucci, Amici e Trambusti. Incaricati del codice commerciale furono Bartolucci, Isola, Gian Gherardo de Rossi, Brancadori, Bavaglia. I sudditi ansiosamente aspettavano gli effetti di tanti consigli: alla gran macchina, che dovea regolare uno stato testè uscito da tante incertezze, imprimeva il moto Consalvi. Stabilire l'emolumento assegnato agl'impiegati; regolare le pensioni dovute alle vedove e ai figli non ancora maggiori, fa una delle prime saggie provvidenze di Pio.50

XIX. Per le pubbliche voci e per varî dispacci di Metternich seppe la corte pontificia che l'imperatore d'Austria [p. 178 modifica]avea deciso di visitare la capitale del mondo cattolico, quindi Napoli e Firenze. Dovea farsi all’ospite augusto accoglienza degna di Roma e di lui. Non venne meno la solerzia romana e l’operosità di Consalvi. Nel breve intervallo che corse dall’avviso all’arrivo fu tutto nobilmente disposto: si scelsero nel quirinale gli appartamenti destinati all'imperatore, all’augusta consorte, alla loro figlia l'arciduchessa Carolina. Ai grandi, che seguivano la corte si apprestò stanza nel palazzo della consulta. Dissero, e fu errore, che la visita imperiale costò al governo del papa quattrocento mila scudi: a tanta pompa ne bastaròno ottanta mila. Un editto del governatore di Roma ne annunciava al popolo l'arrivo imminente; il direttore delle poste marchese Massimo partiva da Roma per riceverlo alla frontiera: il prelato Riario, maestro di camera, recavasi a Viterbo per complimentarlo da parte del papa. Tutto era disposto quando il dì primo aprile un corriere recò la notizia, che Francesco I sarebbe giunto alle tre pomeridiane. Mossero allora dalle scuderie pontificie otto mute di carrozze destinate all'imperiale servizio: in un ricco padiglione, innalzato al di là del ponte milvio per riposo degli augusti viaggiatori, li attendeva Consalvi. Tre prelati palatini, Mancurti, Calderini, Ginnasi, quattro camerieri di spada e cappa erano là convenuti col foriere maggiore marchese Sacchetti, col cavallerizzo baron Piccolomini e il capitano della guardia svizzera Pyffer per corteggiarlo. Stavano le milizie pontificie schierate lungo la via quando il cannone della torre sul ponte milvio salutò l’imperatore che dopo breve sosta, entrato nella carrozza palatina con la consorte e la figlia, volle seco il cardinale segretario di stato. Preceduto il convoglio dal principe Kaunitz ambasciatore cesareo, giunse alla porta flaminia al rimbombo delle artiglîerie, che traevano a festa dal forte sant'angelo e dalle alture del Pincio. Aprivano il corteggio quattro corrieri pontificî; quindi a breve distanza due carabinieri, due dragoni, due guardie nobili a cavallo: allo sportello della carrozza imperiale era un esente, immediatamente un plutone di guardie nobili pontificie: stavano nelle altre [p. 179 modifica]carrozze i grandi ufficiali della corte austriaca, le dame del seguito della imperatrice, il prelato Leardi nunzio apostolico, i camerieri segreti, gli ufficiali di palazzo. Ultime erano le carrozze di viaggio e quella del cardinale, seguite da numeroso drappello di dragoni e carabinieri.51 La porta del popolo, la piazza colonna, sciarra, di Venezia, dei santi apostoli erano guarnite di truppe per rendere gli onori militari a Francesco I. Un battaglione di granatieri, comandato da ufficiale superiore, stava schierato innanzi al quartiere sulla piazza del quirinale. Frosini maggiordomo, avente al fianco Riario maestro di camera, apriva lo sportello della carrozza. Primi ad ossequiare l'imperatore trovaronsi sul limitare della scala i vescovi assistenti al soglio pontificale, i protonotari apostolici, l'anticamera segreta, i prelati domestici, i principi, le principesse destinate ai servigi di onore presso gli ospiti imperiali, che attendevano l’augusta comitiva e la seguivano. Erano nelle sale adunati Metternick, la principessa Esterhazy, Kaunitz ed altri signori alemanni. Avvisato il papa che, accompagnato dal segretario di stato, avvicinavasi l'imperatore con la consorte e la figlia, recavasi ad incontrarli nell’anticamera. Manifestavano quelli la riverenza e il rispetto, questi esprimeva la tenerezza e l'amore. Dopo aver parlato a lungo fra loro, soddisfatti a vicenda e di nuovo accompagnati dal papa sino all'anticamera, Francesco I gli presentò [p. 180 modifica]i cavalieri e lo dame che erano al seguito, entrò nel contiguo appartamento a lui preparato.

XX. Roma era piena di forestieri, il quirinale di reali principi o dimoranti fra noi o venuti ad ossequiare il pontefice e l'imperatore: la duchessa di Chablais sorella di Carlo Felice re di Sardegna, l'infante di Spagna duchessa di Lucca col suo figlio già re d'Etruria, Michele gran duca di Russia, Antonio principe di Sassonia con l’arciduchessa sua sposa e l'augusta nepote, l'arciduca palatino di Ungheria, la duchessa di Wurtemberga e le figlie, il giovane principe ereditario di Toscana, non che gli ambasciatori delle corti d'Europa accreditati presso l'imperatore. La nobiltà romana, il sacro collegio, i reali principi, i ministri delle potenze straniere presso la santa sede ossequiarono in diversi giorni l'austriaco monarca. Imploravano da Metternich un eguale favore Paolina principessa Borghese, Luciano principe di Canino: il gran cancelliere della corte rispondeva loro: vietargli i patti segnati in Vienna, entrare in rapporti con la famiglia Bonaparte: l'imperatore per altro facea noto ad essi non esser loro negato il presentarsi all’udienza uniti ai principi e alle principesse romane: condizione troppo umile a chi s'ebbe parte di sovrana grandezza e perciò rifiutata. Affrettavasi l'accorto Consalvi ad offrire agli ospiti augusti le più care e le più liete distrazioni: sperava quell'uomo di stato avrebbe l'imperatore parlato al pontefice degli affari della chiesa ancora disordinati in Germania. Divenuta tradizionale nel gabinetto austriaco la politica di Giuseppe II, tacque Francesco I e tenne Metternich, suo potente ministro, profondo silenzio intorno agli affari religiosi e politici dell'impero. Dirò prima delle feste civili, quindi delle religiose. L'illuminazione della cupola di san Pietro, l'incendio dei fuochi artificiali in castel sant'Angelo sorpresero. L'imponente aspetto delle opere monumentali di Roma destò meraviglia nell'animo dell'imperatore, che vedea la prima volta la città eterna. Le chiese, i musei, i palagi ricordavano all'augusto viaggiatore e ai principi ch'erano seco, il coraggio e la magnanimità dei pontefici, autori di opere tanto stupende: le [p. 181 modifica]colonne, gli obelischi, i templi, gli archi, le terme l’antico fasto della dominatrice del mondo. Francesco I che erasi fatta una legge di rifiutare l'invito alle feste particolari, fece ringraziare dal suo gran ciamberlano conte di Wrbna l'ambasciatore francese, che preparavagli magnifica festa: accettò per altro quella che splendidissima, a nome del santo padre, offrivagli il senato e il popolo romano nelle aule capitoline. Lo sfarzo, la magnificenza, il buon ordine resero più magnifica e più bella la dimostrazione rispettosa dalla città tributata all'imperatore. I capo lavori che arricchiscono il museo, vedevansi vagamente disposti nell'interno degli appartamenti aperti alla festa. I cardinali, gli ambasciatori delle due corti, i principi stranieri, la nobiltà romana, la municipale rappresentanza corteggiavano Francesco I che, dopo aver assistito al’un fuoco artificiale, incendiato sulla piazza del campidoglio e ad una cantata solenne eseguita a suo onore passò, sovra un ponte appositamente costruito, all'appartamento dei conservatori di Roma ove erano disposte le mense. L'augusto monarca invitò i cardinali e gli ambasciatori che, entrando seco lui nella sala, videro nel bel mezzo della tavola grandeggiare, come in trionfo, l'antica lupa di bronzo che alcuni dissero colpita dal fulmine il giorno in cui Giulio Cesare fu pugnalato. A mille commensali aprendosi le altre sale, tanta folla ingombrò i vasti ambienti, che fu difficile serbar l'ordine, impossibile disporre i posti, secondo il grado dei convitati. Soddisfatto Francesco I delle accoglienze, incaricò Consalvi a rendere in suo nome le dovute grazie al pontefice. L'ambasciatore austriaco Kaunitz offrì nel palazzo Braschi sontuosa festa al sovrano che, visitando Roma, volle onorare di sua presenza gli studi artistici di Canova, Landi, Camuccini, Wiear, Torwaldsen, Fabris, Alvarez e Scholler. Nel palazzo di Venezia vide l'esposizione dei pensionati lombardo-veneti divenuti suoi sudditi, in quello dei Caffarelli degli artisti tedeschi: grazioso pensiero che torna sempre a gloria di Roma riguardata come l'educatrice dei buoni ingegni, l'ateneo dell Europa. Due feste di ballo date nel teatro Alibert e nell’anfiteatro Corea, la corsa del fantino [p. 182 modifica]Sulla piazza agonale ed altri divertimenti contribuirono a render più liete le accoglienze del pontefice, più grata l'ospitalità dei romani. Visitando i paesi suburbani, dal palazzo dei Cesarini in Genzano ammirò il lago di Nemi, che un tempo dissero di Diana: osservò con interesse la valle della Riccia, le albanesi antichità: vide la stupenda collezione di terre cotte nel casino dei Carnevali in Albano e tornato in Roma si recò a far visita a Carlo Emmanuele IV, chiuso a vita tutta religiosa nel noviziato dei gesuiti e a donna Elena Chiaramonti sorella di Pio VII nel monistero che chiamano delle Barberine: quindi per volontà del pontefice trasferita in quello delle benedettine in campo marzio. Queste le feste civiche: le funzioni di chiesa, che rendono Roma città unica al mondo, furono quelle della settimana santa e di pasqua: circostanza solenne, in cui nella basilica vaticana tutta si spiega la sacra pompa delle ecclesiastiche ceremonie. Nel giovedì e venerdì l'imperatore con ventisette principi e principesse di case sovrane, dopo aver assistito in separate tribune ai sacri riti, pranzò nell'appartamento del segretario di stato, mentre desinavano in altre stanze i cardinali, gli ambasciatori e i più ragguardevoli personaggi che trovavansi in Roma. La Gerusalemme liberata, sacro oratorio posto in musica da Zingarelli amico a Consalvi, venne eseguito la sera nelle stanze del Vaticano. Lo stato di debolezza, in cui trovavasi Pio VII non gli permise celebrare la messa solenne nel dì della pasqua: prestò solamente assistenza dal trono alla messa pontificata dal decano del sacro collegio Mattei, quindi, assiso in sedia gestatoria, dalla gran loggia della basilica benedì l'immenso popolo accorso sulla piazza del Vaticano. Rimanevano quattro giorni al compimento di un mese, dacchè Francesco I trovavasi in Roma, quando in compagnia dell'augusta consorte e della figlia recavasi per un mese a diporto in Napoli, seguito in quel ridente soggiorno dal principe di Metternich e dai personaggi venuti seco lui da Vienna.

XXI. L'imperatore che avea promesso al pontefice [p. 183 modifica]di non tornare nei suoi stati, senza aver prima riveduta Roma, mantenne la sua parola. A dargli prova di benevolenza, due giorni dopo il suo ritorno, intimò Pio VII il concistoro, nel quale conferì la porpora al fratello dell’imperatore; arciduca Rodolfo Ranieri, sino dal mille ottocento cinque eletto coadiutore all'arcivescovo di Olmutz cardinal Colloredo, alunno un tempo del nostra collegio del Nazareno: diritto di cui l'arciduca non volle valersi quando sei anni dopo vacò quella sede, alla quale fu promosso il porporato Maria Taddeo conte di Trautmannsdorf Weinsberg. Mancato anche questi ai vivi fu dal pontefice destinato il principe Ranieri al governo di quella chiesa. Nell'allocuzione, pronunciata alla presenza di Francesco I, ricordò che un eguale dignità concesse Gregorio XIII ad Andrea arciduca d'Austria e disse quali vantaggi dovea sperare il clero germanico dalla bontà del principe imperante, dalla mediazione fraterna. Quantunque assente da Roma, Pio gli accordò il titolo di san Pietro in Montorio e Carlo Odescaichi allora prelato, quindi cardinale arcivescovo e in ultimo splendido ornamento della compagnia di Gesù, implorò ai piedi del santo padre il pallio pel nuovo eletto. La promozione del principe austriaco fu annunciata dalle artiglierie del castello, dalla campana della curia Innocenziana: le congratulazioni del sacro collegio, dei prelati, dei principi romani furono ricevute dal principe Kaunitz ambasciatore di Cesare: latore del berretto cardinalizio partiva da Roma il marchese Domenico Capranica guardia nobile pontificia. Parve più maestosa, perchè decorata dalla presenza di quattro sovrani, la solenne processione del corpus Domini, dopo la quale l'imperatore decise di riprendere la via di Vienna. Stabilita la partenza pel giorno undici giugno, andò il papa nell'imperiale appartamento ad augurare a Francesco I e alla sposa prosperoso viaggio e questi poco dopo recavansi da lui per dare al venerando vegliardo novella prova di devozione e di affetto. Il forte sant'Angelo e le alture pinciane col trarre delle artiglierie annunciarono ai romani l’allontanarsi degli ospiti augusti che, [p. 184 modifica]preceduti di un giorno dall'arciduchessa Carolina, si diressero a Terni. Giunto a notizia del cardinal Consalvi che la figlia dell'imperatore cadde inferma in Perugia, partendo immediatamente da Roma, recavasi in quella città, perchè le più sollecite cure fossero prodigate alla giovane principessa. Tanta sollecitudine piacque a Francesco I, non meno che ai romani, i quali s'interessavano d'un principe sovrano di cui aveano ammirata l’affabilità e la grandezza.

  1. Tanto dopo le sofferte vicende erano scarsi i mezzi del sacro collegio, che fu mestieri accordar sussidi ad alcuni cardinali, perchè potessero sostenere le spese del viaggio da Roma a Genova.
  2. L'imperatore scriveva a Pio VII « Nel corso dell'ultimo mese vostra santità avrà saputo il mio ritorno sul suolo francese, il mio ingresso in Parigi, e la partenza della famiglia dei borboni. La vera natura di questi avvenimenti debbe essere ora fatta palese a vostra santità da me stesso. Questi sono l'opera di una possanza irresistibile, l'opera della volontà unanime di una grande nazione che conosce i suoi doveri e i suoi diritti. La dinastia, dalla forza non ha guari ridonata al popolo francese, non era più fatta per lui. I borboni non hanno voluto associarsi ai suoi sentimenti, nè ai suoi costumi; e quindi la Francia ha dovuto separarsi da essi. La sua voce alto chiamava un liberatore. L’aspettazione, che mi aveva determinato al più grande dei sacrifici era stata delusa; io mi sono mosso, e dal momento in sui ho tocco il suolo francese l'amore dei miei popoli mi ha portato sino nel seno della mia capitale. Il primo bisogno del mio cuore consiste nel corrispondere a tanto affetto col mantenimento di una onorevole quiete. Il ristabilimento del trono imperiale era necessario per la felicità dei francesi. Il mio più dolce pensiero al presente è di rendermi nel medesimo tempo utile a tutta l’Europa. La gloria illustrò abbastanza a vicenda le bandiere delle diverse nazioni , ed abbastanza le vicissitudini della sorte hanno fatto succedere grandi rovesci a grandi trionfi. Una più bella arena si apre oggidì ai sovrani, ed io sono il primo a discendervi. Dopo avere presentato al mondo lo spettacolo di guerre crudeli ed accanite, quanto non debbe esser più caro il non conoscere d'ora innanzi altre rivalità se non quella, che tende a rendere maggiori i vantaggi della pace, altra lotta che la santa lotta rivolta a procurare la felicità dei popoli! La Francia si compiace nel proclamare solennemente e francamente questo nobile scopo di tutti i suoi voti; gelosa della propria indipendenza, il principio invariabile della sua politica consisterà nel più assoluto rispetto della indipendenza delle altre nazioni. Se tali sono, come ne ho la più certa fiducia, i sentimenti paterni di vostra beatitudine, la calma generale è per lungo tempo assicurata e la giustizia, assisa ai confini dei diversi stati, basterà essa sola a custodirne le frontiere. Io supplico vostra beatitudine a credere che mi troverà dispostissimo sempre a darle prove non dubbie del rispetto filiale, con cui sono, beatissimo padre, il suo devotissimo figlio Napoleone »
  3. Gl’imperatori Francesco e Alessandro, in forza della dichiarazione emessa il giorno itedici marzo, concordemente si rifiutarono dallo scendere a trattative con Napoleone, a cui non rimaneva aperta altra via, che quella delle armi, e questa tentò inviando venti mila uomini nella Vandea a reprimere una sollevazione, altri nelle Fiandre, sul Varo e nei pirenei.
  4. Correa per le mani di tutti il seguente programma, a cui non prestarono fede gl'Italiani « Suonò l’ora in cui debbono compiersi gli alti destini d’Italia. La provvidenza vi chiama ad essere una nazione indipendente. Dalle Alpi allo stretto di Messina odasi un grido solo - L’indipendenza d’Italia - Ed a qual titolo popoli stranieri pretendono togliervi questa indipendenza, primo diritto e primo bene di ogni popolo? A qual titolo signoreggiano essi le vostre più bella contrade? Invano dunque innalzò per voi la natura la barriera delle Alpi! No: sgombri dal suolo italiano ogni dominazione straniera. Padroni una volta del mondo espiaste questa gloria con venti secoli di oppressioni e di stragi ». Conchiueva « Italiani, stringetevi in salda unione, ed un governo di vostra scelta, una rappresentanza veramente nazionale, una costituzione degna del secolo e di voi garantiscano la vostra libertà e prosperità interna tosto che il vostro coraggio ne avrà garantita l'indipendenza.» Non prestò fede l’Italia ad un programma, che al nome di Murat francese aggiungea l'altro del francese Millet.
  5. Chi muove da Savona pel santuario incontra sulla via nove piccole cappellette dedicate alla Vergine. Erano queste illuminate ed abbellite di damaschi e di fregi.
  6. Il primo decreto emanato da Lione nel marzo mille ottocento quindici da Napoleone fuggito dall'isola dell'Elba invitava i collegi elettorali dei dipartimenti della Francia ad assistere alla solenne coronazione dell'imperatrice dei francesi nel maggio. Volle Dio che nell'epoca designata da Napoleone, Pio VII incoronasse imperatrice dei cieli Maria.
  7. Narra un testimonio di vista che al passaggio del papa per l anticamera si vide svolgere improvvisamente una portiera e uscire da quella specie d’involucro una donna di civile condizione che, temendo di esser congedata dalla sala vi sì era nascosta. Così le fu dato di soddisfare al suo pio desiderio e di esser benedetta dal papa, che amabilmente sorrise a tanta prova
  8. Prendea riposo nella villa dei Lomellini, ove il conte Mario al pontefice e alla corte offrì lautissimo pranzo. Qui si congedò dal cardinale arcivescovo di Genova, che lo avea seguito sino al confine della diocesi: lasciò all’arbitrio dei prelati la scelta o di seguirlo a Torino , o di attenderlo a Modena. Per dare un attestato di affetto alla corte austriaca inviò a Milano il cardinal Litta, incaricato di ossequiare a suo nome l'arciduca d'Austria che tenea il governo di Lombardia.
  9. La raccolta delle ritrattazioni, delle difese e delle dichiarazioni emesse dai prelati, dai capitoli delle varie chiese d’Italia con le quali confessano che nella loro mente, come nel loro cuore, non entrarono mai i sentimenti strappati dal terrore, dalla prepotenza governativa, fu a cura del governo pubblicata in Roma dalla tipografia camerale pel Lazzarini l’anno 1816.
  10. Trovata nell’albergo di Radicofani la povera fantesca che nella deportazione avea al papa, circondato dai gendarmi, date indubie prove di carità cristiana, ordinò che fosse dato generoso sussidio.
  11. Questo avviso interessante precedeva l'arrivo del prelato Mazio per le cure di un diplomatico francese. Il signore di Talleyrand, ministro degli esteri alla corte di Luigi XVIII, avea prima del ritorno in Roma del cardinal Consalvi, inviato all’ambasciatore di Francia presso la santa sede monsignore di Pressigny l'articolo 105 del congresso del seguente tenore « Le Marche con Camerino e sue dipendenze, il ducato di Benevento ed il principato di Pontecorvo sono restituiti alla santa sede. La medesima riacquista il possesso delle legazioni di Ravenna, di Bologna e di Ferrara, eccettuata quella parte di Ferrara che è posta sulla riva sinistra del Po. Sua maestà imperiale e reale apostolica ed i suoi successori avranno il diritto di tenere una guarnigione nei forti di Ferrara e di Comacchio. »
  12. Esultò il cuore di Pio all’annunzio della ottenuta onorificenza e parlando nel pubblico concistoro ai cardinali dicea « che nel decretare che il primo posto fra i rappresentanti delle corti sovrane fosse dovuto ai nunzi della santa sede, si era reso un omaggio non al principe temporale di gran lunga agli altri inferiore, ma alla dignità del sacerdozio supremo. »
  13. Alcuni deputati cattolici di Germania, i quali avevano fatto ricorso al congresso, visto che non era possibile l’ottenere quanto desideravano, limitarono le loro domande a chiedere un concordato uniforme, alcuni diritti riconosciuti dalla costituzione e la restituzione dei beni non alienati.
  14. In questo maestoso palazzo liberamente donato e venduto a profitto del luogo pio fu stabilito il monte di pietà e la cassa di risparmio.
  15. Il trattato di Tolentino, che equivale ad uno spoglio violento, era imposto a Pio VII dall'esercito repubblicano, sceso dalle Alpi a rovina d'Italia. I ministri di Luigi XVIII trinceravansi dietro un alto, del quale non si tenne conto a Parigi e a Vienna, ove nessuno dei trattati napoleonidi fu rispettato. Sarebbe stata manifesta ingiustizia il non secondare le domande di Pio, e le giuste speranze di Roma.
  16. Il duca di Wellington scrivea: « Secondo la mia opinione sarebbe un'ingiustizia se i sovrani annuissero ai desideri manifestati dai francesi. Il sacrificio che questi permetterebbero sarebbe al tulto impolitico e toglierebbe loro l'occasione di dare alla Francia una grande lezione morale. »
    Giucci. Vita di Pio VII — II
  17. Il signore di Pradel diriggeva la seguente lettera a Canova « Signore. Il segretario generale del museo mi significa, che nel numero degli oggetti d'arte, che voi siete incaricato di ritirare dal detto museo, siccome proprietà della santa sede e della città di Roma, ve ne sono molti, di cui siete disposto a farci un dono e questa cortesia riesce sommamente gradita a sua maestà. Ogni atto di moderazione, che ha per risultamento il rendere meno gravoso lo spogliamento del reale Museo, non può tornare indifferente al re, ed io mi affretto a farvi conoscere i suoi sentimenti a questo riguardo. » Canova ebbe sempre carissimo questo dispaccio, e il dicea dal re istesso dettato.
  18. Patrizio Spoletino nato alla Genga, feudo di sua famiglia il 2 agosto 1760
  19. Nacque in Monte Vago diocesi di Girgenti in Sicilia il giorno 26 dicembre 1749.
  20. Patrizio Fermano nato in quella città del Piceno il 2 marzo 1739.
  21. Questo porporato, da Pio VI inviato a Tolentino in occasione del trattato imposto alla santa sede dalla repubblica francese nacque in Cervia il dì 29 aprile 1741.
  22. Nato in Faenza il 28 febraro 1757. L’esclusiva data dalla corte austriaca gl’impedì d’ascendere al trono.
  23. Nacque in Torino il 12 marzo 1756.
  24. Questo prelato, che fu arcivescovo di Seleucia, nacque in Orbetello il 17 dicembre 1756
  25. Chiamato in Roma da Pio VII poco dopo il suo ritorno, fu nominato vescovo di Cesena, quindi creato cardinale. Era penitenziere maggiore quando fu assunto al pontificato col nome di Pio VIII. Nacque in Cingoli il 20 novembre 1761.
  26. Cittadino e patrizio fermano nacque in Roma il di 30 marzo 1747.
  27. Nato in Roma da famiglia coscritta il dì 26 luglio 1744.
  28. Spagnolo, nato in Bilbao diocesi di Colaborra il di 9 ottobre 1747.
  29. Nacque nella diocesi di Barbastro in Espagna il giorno 9 ottobre 1760
  30. Patrizio bolognese nacque in Cento il giorno 15 giugno 1743.
  31. Patrizio beneventano nacque in Napoli il giorno 18 dicembre 1758
  32. Nacque in Faenza il dì 23 novembre 1743
  33. Nacque in Molfetta il giorno 25 marzo 1744.
  34. Patrizio bolognese nato in quella città il giorno 26 aprile 1748.
  35. Nato in Casalmaggiore di Piemonte il 27 agosto 1750.
  36. Piemontese nato in Novara il giorno 18 marzo 1784
  37. Nacque in Roma da famiglia coscritta il giorno 27 novembre 1793
  38. Nacque da illustre famiglia lombarda in Cremona il dì 27 novembre 1762
  39. Titolari alla cattedra di medicina chiamava De Mattheis e Tagliabò: a quella di chirurgia Sisco: consulenti, Lupi e Morichini, Vennero queste scuole aggiunte alla romana università.
  40. E qui è opportuno il ricordare che quando l'avvocato fiscale della R C. A. Barberi protestò solennemente alla presenza del santo padre per la chinea non soddisfatta dal re, il pontefice per temperare in qualche modo l’amarezza di quell’atto si compiacque rispondere ch'egli non dubitava doversi quella mancanza anzi che a mal’animo o a poca volontà, ascrivere alle angustie dei tempi, alle sopportate sciagure, aggiungea: esser convinte che la pietà di quel monarca avrebbe quanto prima soddisfatto a questo dovere. Ecco le sue parole « Ferdinandus rex, temporis fortasse angustia retardatus, praestare haud potuit minime dubitamus. »
  41. Furono questi Alessandro de Perigord arcivescovo di Reims, Cesare Guglielmo de la Luzerne vescovo di Langres, Luigi Francesco di Beausset vescovo di Alois nella Linguadoca, proposti dal gabinetto delle Tuilleries e conosciuti personalmente in Francia dal papa.
  42. I giuramento che domandavasi ai vescovi era il seguente
    « Io giuro e prometto sopra i santi evangeli obbedienza e fedeltà alla reale maestà; parimenti prometto che io non avrò alcuna comunicazione, nè interverrò ad alcuna adunanza, nè conserverò dentro o fuori del regno alcuna sospetta unione che noccia alla pubblica tranquillità e se tanto nella mia diocesi che altrove saprò che alcuna cosa si tratti in danno dello stato, lo manifesterò a sua maestà. »
  43. Il cardinal Fesch proponeva il sacerdote Felici, ma le informazioni che si presero su questo acclesiastico non furono soddisfacenti. Si preferì l'abate Bonavita cappellano della famiglia Borghese.
  44. È notabile una espressione della lettera di Luigi XVII e la ricordo perchè torna a gioria di questo eminente uomo di stato. « Il giudizio che, or saranno ventiquattro anni, ho pronunziato intorno a monsignor Consalvi, trovasi oggidì pienamente giustificato dal cardinale segretario di stato. »
  45. Patrizio beneventano nato in quella città il giorno 13 dicembre 1753.
  46. Nato in Roma il 27 settembre 1753.
  47. Di famiglia coscritta Romana, e patrizia di Genova, ove tennero autorità suprema nacque in Roma il giorno 1772.
  48. Nacque in Foligno il giorno 17 ottobre 1758 Secolare avea sostenuto con lode l’ufficio di Pro-tesoriere quando fu dichiarato prelato.
  49. Nato da illustre casato in Napoli il di 13 luglio 1758
  50. Torna a gloria di Pio VI l'aver gettate le basi di questa disposizione benefica. Le sopraggiunte vicende gl’impedirono di portarle ad effetto. Eseguì Pio VII quello, che il suo antecessore avea disposto. Per la vedova dell’impiegato, che prestò i suoi servigi al governo per venti anni, la pensione vitalizia ascendeva alla metà del soldo: dal ventano al trenta due terzi, dall’anno trentesimo al quarantesimo tre quarti: quando l’impiegato avea per oltre a quarant'anni disimpegnato il suo officio, percepiva la vedova l’intero stipendio. Apposita legge proporzionava al soldo il rilascio imposto agl'impiegati per assicurare i vantaggi delle proprie famiglie. Giucci. Vita di Pio VII
  51. Erano al seguito dell'imperatore ragguardevoli personaggi. Il conte di Wrbna gran ciamberlano di corte, il barone del duca generale di artiglieria, il barone di Stift medico consigliere di stato e delle conferenze, l'aiutante generale dell'imperatore, colonnello di Echharni: il segretario intimo di gabinetto de Varady, il chirurgo di palazzo Samlitsch, con altri membri appartenenti alla imperiale cancelleria. Al seguito della imperatrice era la gran maggiordoma contessa de Laszansky, le dame di corte baronessa di Hohenegg e contessa di Cavisani. Eranvi altri personaggi, che formavano un seguito separato: in tutto novant'uno individui costituivano la corte imperiale. Al disimpegno del servizio di posta per trentadue carrozze si tennero in pronto in ogni stazione cento sessanta due cavalli.