Terenzio/Nota storica
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NOTA STORICA
Fin da giovane il Goldoni, scrivendo gli intermezzi buffi per il teatro di S. Samuele, folleggiò con Aristide e con Pisistrato; e già il pubblico veneziano, anche nei teatri di prosa, era solito ammirare lo scenario greco-romano nei melodrammi del Metastasio recitati dalle compagnie comiche. Tuttavia non fu piccola audacia quella del creatore di Mirandolina, quando nel settembre o nell’ottobre del ’54, guarito appena dell’ipocondria che lo tenne quasi nell’ozio per molti mesi, si diede a stendere il Terenzio. Piuttosto che all’Anfitrione (1668) di Moliere, ci avviene di pensare al Democrito (1700) di Regnard; ma la priorità di una commedia pseudo-storica di costume antico, in disegno almeno, rivendicò sul Goldoni il noto autore dei Liberi muratori, Francesco Griselini (v. Nota storica delle Donne curiose, vol. IX della presente ed.), nella prefazione del Socrate filosofo sapientissimo, tragicommedia martelliana dedicata a S. E. Niccolò Balbi (Ven., Deregni, 1755): «Dopo il favorevole accoglimento che ottenne dalle persone illuminate il Terenzio del Sig. Goldoni, io dovea certamente tralasciare di dar dietro ad un’Opera da me intrapresa sullo stesso gusto, primieramente attesa l’impossibilità ch’ella del medesimo regger potesse al paragone, e poi perchè nel prologo da lui fatto stampare e dispensare della sua Commedia Togata, prometteva l’Aristofane, Commedia Paliata, in cui egli doveva necessariamente trattare di molte cose, ch’eran intime all’argomento da me scelto eziandio. Ma siccome l’idea di comporre il mio Socrate non era nata in me dopo avere ammirato il Terenzio, ma gran tempo innanzi, come far ne possono testimonianza varj amici miei a cui l’avevo comunicata fin da’ principi della state passata, perciò anzi che perdermi di coraggio mi rianimai a condurlo a fine, non col vano pensiere di erigermi emulatore del celebre Riformatore del Teatro Italiano, per cui ho una particolare amicizia e rispetto, ma per il solo fine di darlo alla Compagnia de’ Commedianti del Teatro Grimani, con cui io ne teneva impegno».
Ho trascritto questo lungo frammento, perchè il bizzarro poligrafo accenna alla promessa fatta da Goldoni al pubblico di esporre in scena anche Aristofane (v. pure Stef. Sciugliaga nel Congresso di Parnaso, 1754), promessa che si trovava nel Prologo stampato in foglio volante, e che poi scomparve nella ristampa in testa alla commedia (ed. Pitteri, III, genn. 1758), perchè non fu mantenuta. Evidentemente il Goldoni era stato condotto a comporre un’altra commedia storica dal ricordo del buon successo ottenuto dal Moliere (v. pref.) e subito vagheggiava un Aristofane, parendogli in questa triade di onorare la commedia greca, latina, francese, cioè tutta la commedia nei tre grandi padri. Chissà che nel fondo dell’animo non ambisse di occupare il quarto posto nell’avvenire, come restauratore e principe della commedia italiana, se già gli adulatori e gli amici gli decretavano a chiare note il bell’onore?
Della preferenza di Terenzio a Plauto la ragione si potrebbe forse trovare nella scarsa familiarità cogli autori latini, che al Goldoni rendeva più difficile di penetrare nell’arte plautina, ma preferiamo crederla dovuta più che altro all’effetto drammatico (v. A. III, sc. 1) e alla maggior fama dell’Africano nel Settecento. Non bisogna dimenticare che nel giudizio d’uno scrittore la critica di allora concedeva larghissima parte alla moralità: e pesava sui sali di Plauto la severa condanna di Orazio. Il Rabany credette scoprire qualche affinità fra il Goldoni e Terenzio (C. G., Paris, 1896, p. 170), ma affinità di qualità negative. Vero è che più di una volta dai contemporanei e dai posteri udì il buon commediografo chiamarsi O Terenzio dell’Adria, come ripetè anche il Carducci («dimidiato Terenzio» dice sempre ne’ suoi opuscoli miscellanei del 1754 e 55 Stef. Sciugliaga): forse perchè lasciò al rivale abate Chiari il gusto di sbizzarrirsi e paragonarsi con Plauto. In fatti pochi mesi dopo l’abate bresciano raccoglieva la sfida lanciata dal parassito Lisca nella sc. I dell’atto III, e nel prologo della nuova commedia (Marco Accio Plauto, agosto 1 55) esclamava con estro acceso: «Fu Terenzio un artefice, ma Plauto un arsenale». Hanno la loro sorte anche le antonomasie.
Un viaggiatore francese, il Grosley, che fu a Venezia nella state del ’58 e vi conobbe il Goldoni, racconta: «Un Plaute, un Térence, un Molière composent toute sa bibliotheque» (Observations sur l’Italie etc, nuova ed., Londra, 1774, t. II, p. 4); ma queste parole, come fu osservato (v. Maria Ortiz, La cultura del G., estr. dal Giorn. St., 1906), vogliono dire che il Veneziano studiò l’uomo nella natura e non sui libri, e che solo i grandissimi autori ebbe a modello. Ricorda il Goldoni, nelle memorie premesse ai volumi dell’edizione Pasquali, che a Pavia nel ’22 lesse per la prima volta «Aristofane, Plauto e Terenzio» (voil. I, p. 25, della presente ed.): non già a Rimini, sui 13 anni (Mém.es I, ch. 4), poichè delle aggiunte introdotte dal vecchio autore nel testo delle memorie francesi è bene quasi sempre diffidare. Certo quando scrisse più tardi il Terenzio, egli aveva riletto almeno in parte l’autore latino, se non nella edizione francese di Anna Dacier (1713), in quelle veneziane di Luisa Bergalli (st.a dallo Zane tra il 1727 e il ’31, raccolta in un vol. nel ’33, rist. a fra il ’35 e il ’39) e di Nicolò Foruguerri (1748, Occhi: ristampa della superba ed. di Urbino, 1736), versione e originale a fronte. Le notizie biografiche, dalla fonte comune di Elio Donato, lesse in qualche dizionario storico; senza fallo nel Moreri (ed. del 1742-48, che a Venezia vendevasi dal Pitteri), di cui si giovò anche per il Tasso. Ma sopra tutto liberamente inventò, facendo centro del dramma la manomissione del commediografo e innestandovi l’amore per una schiava Creusa, contrastatagli dalla rivalità del suo stesso padrone e benefattore. Le notizie sui costumi del tempo attinse, com’era naturale, dal Lexicon antiquitatum romanarum (1713) del Pitisco (v. pref. alla commedia).
Dall’Introduzione che precedette alle recite autunnali del ’54 parrebbe che i comici fossero già in possesso del manoscritto (v. a pag. 211). Ai 2 novembre di quell’anno Gasparo Gozzi scriveva da Stra, dalla villa di Marco Foscarini, all’amica Marianna Mastraca a Venezia: «Unitamente a me vi ringrazia S. E. Procuratore delle notizie teatrali che qui ci servono di discorso, e massime il Prologo che con molta gentilezza m’avete spedito. Ho caro che il signor Goldoni si faccia onore e abbatta un poco la superbia mal fondata dell’audace N. N.». Intendesi il Chiari. «Già m’immaginava che la compagnia di S. Luca avrebbe recitato male: e tanto più cresce la lode dell’autore. Io, dopo la vostra lettera, sono tutto acceso di voglia di vedere il Terenzio». E tre giorni appresso: «Voi vedrete che non mi toccherà a vedere il Terenzio». — Che la commedia piacesse, non ostante la fiacca recitazione, ci conferma un sonetto anonimo del famoso codice Cicogna MDCCCLXXXII-2395 (già Swajer) del Museo Civico Correr di Venezia, che porta per titolo Li redivivi applausi del Sig. Dott. C. G. per la nuova Comedia il Terenzio; e comincia: «Ecco risorto qual novello Anteo - Vigoroso vieppiù dalle cadute, - Polisseno ecc.». Buon successo, ma non già un trionfo. «Per esempio osservemo, el so Terenzio e el Tasso - Compatie le xe stade, ma no le ha fatto chiasso» dice il Complimento fatto al popolo dalla prima donna (ed. Pitteri, IV, 347) l’ultima sera del carnovale 1755. E la lettera dei 5 aprile al conte Arconati: «Due sono state accette assaissimo alle persone dotte, cioè il Terenzio ed il Tasso». Quante erano le persone dotte?
Non tutti, si capisce, erano rimasti persuasi. Cert’altro anonimo, devoto all'abate bresciano, brontolava un po’ indispettito che quella produzione facevagli l’effetto d’una predica:
Ma quel gran bel 'Terenzio, che tanto se decanta,
no xela una Comedia da Settimana Santa.
I crede che consista a far una Comedia
far certi discorsoni che el popolo s’attedia.
Che i vaga ben o mal, purchè i possa mostrar
che i ha letto delle Istorie, no i pensa de seccar.
Guai se l’avesse fatto il Chiari! Tutti direbbero «che el xe una seccaria».
Se diria che l’Eunuco in aria di ruffiana
xe messo per dir cosse da dir in Carampana....
Che i altri personaggi i xe de mala razza
e che (ghe?) xe do episodi pettai colla spuazza.
Che nasse come un fongo quel Grego in t’un canton...
Si direbbe che Terenzio tradisce il padrone, si direbbe che il titolo è Terenzio e il protagonista è Lucano. Ma basta che non sia del Chiari, e tutto va bene.
Anche l’ineffabile Ecc. Zorzi Baffo volle sfogarsi, e fece le sue confidenze «al Sig. Anzolo Pasinello», al libraio, editore dei romanzi del Chiari:
Pasinello, vo’ darti in un sonetto
ragguaglio del Terenzio: veramente
ad un amico mio non spiacque niente,
diede a me qualche scena un gran diletto.
Nel restante provai noia e dispetto,
o perchè mal diceanla quella gente,
o perchè gli episodi intieramente
staccati son dal principal soggetto.
Mi spiacque di Terenzio poi l’azione
ch’essendo il suo signor ver lui sì umano
egli in cambio lo inganni da barone.
La commedia è il Terenzio, ed è Lucano
quello che in fatti vince ogni passione,
tal che di lor non so a chi dar la mano. (cod. cit.)
Ha S. E. tale un’aria di parentela con l’anonimo poeta martelliano da parer, più che due fratelli, una persona sola. Per si fatte critiche non so se dolesse l’animo al Goldoni: egli parve sempre contento del Terenzio, commedia erudita che lo faceva crescer nella stima dei letterati; e l’anno dopo ricordava non senza compiacimento la visita e i rallegramenti del nobiluomo Marcantonio Zorzi, la sera della prima recita (v. dedica dei Pettegolezzi delle donne, vol. VI della presente ed., p. 428). Non deve poi esser taciuto che il Goldoni nelle memorie francesi consacrò a questa composizione un larghissimo riassunto in un intero capitolo (Mém.es, P. II, ch. 25): ma non è niente affatto vero il racconto che il Terenzio fosse scritto per ingraziarsi i Bolognesi, seanche a Bologna fu rappresentato, come pare, dalla compagnia del teatro di S. Luca nella primavera del ’55 (v. Ricci, I teatri di Bol. ecc., Bol., 1888, p. 471). — Convien credere che la dotta città applaudisse con entusiasmo l’erudizione romana del lettore di Pitisco: i posteri invece non se ne contentarono. Si ha indizio d’una recita a Modena nel 1757 (Modena a C. G., Mod. 1907, p. 237), poi più nulla. Invano Stefano Sciugliaga, di Ragusa, che a Venezia commerciava di vino e sfoggiava in difesa del teatro goldoniano una mal digerita dottrina, aveva celebrato in un Congresso di Parnaso (1754: rist.o nelle Censure miscellanee, 1755) il «famoso» Terenzio «con felicità concepito e con felicità condotto»: lo scenario romano non allettò il pubblico nemmeno quando tutta Italia diventò repubblicana e democratica sulla fine del Settecento, o quando Napoleone sognò l’impero d’Augusto e fu cantato novello Giove.
Per questo conto il Terenzio fu molto men fortunato del Moliere e del Torquato Tasso. Di una recita a Firenze (teatro Alfieri) ai 28 luglio 1830, da parte della Società Filodrammatica, si trova cenno nei Teatri (Giorn. drammat.o, Milano, 1830, P. 2. a, p. 496): dove accanto ai nomi degli attori leggesi con lode quello del m.o Pelleschi, che musicò «la scena dell’emancipazione». Molti anni dopo, nel ’74, il capocomico Angelo Moro-Lin tentò di esumare la dimenticata commedia, ma la prova fallì. «Il Terenzio di G. non piacque nè a Torino, nè a Milano: il pubblico si è annoiato, mortalmente annoiato, e ne ha avute le sue buone ragioni»: scriveva il critico della Perseveranza (Milano, I ott. 1874). A ottener l’indulgenza del pubblico non valse un prologo martelliano del Moro-Lin, come sembra, che ripete in parte quello preposto dall’autore alla commedia. Ricorderemo infine che nella memorabile sera dei 26 febbr. 1875 in cui il teatro Apollo, a Venezia, già detto di S. Salvatore o di S. Luca, assunse il nome di Goldoni, fu sonato un inno scritto dal m.o Lauro Rossi per la scena finale del Terenzio (Gazzella di Ven., 27 febbr. 1875).
Che il Goethe lodasse la commedia, come fu affermato da G. Bertoni (Modena a Q., 1907, p. 416) non è vero (così mi comunica gentilmente il Maddalena). Carlo Gozzi la poneva in fascio col Filosofo inglese, col Moliere, col Tasso, con altre del Chiari, dichiarandole tutte noiose (Memorie inutili, P. II, Ven. 1797, p. 3). il giovane Luigi Carrer si lagnò di non trovarvi di romano che i nomi dei personaggi (Vita di C. G., Ven. 1824, I 124 e II 112). Anche Ignazio Ciampi credette scorgere nella Roma goldoniana «il costume del Settecento» quale si trova nel Metastasio: «non può» tuttavia «negarsi» che la commedia «non sia squisitamente condotta. Ma Terenzio tiene molto del carattere del Moliere» (La vita artistica di C. G., Roma 1860, p. 83). Con giustizia sommaria il Terenzio fu condannato, in compagnia del Moliere e del Tasso, dal Guerzoni (Il teatro ital. nel s. XVIII, Mil. 1876, p. 206) e, più di recente, da G. Ortolani (C. G. nella Vita e nell’arte, Ven. 1907, pp. 85 e 86) da G. Caprin (C. G., Mil. 1907. pp. 294 e 295) da V. Brocchi (C. G. e Ven. nel s. XVIII, Bol. 1907, p. 38). Non senza contraddizioni il Rabany afferma: l’erudizione di Goldoni apparisce di fresca data e non bene digerita; «la pièce, malgré son pretendu caractère antique, est surtout une comédie anecdotique»; «la pièce, assez languissante, ne s’anime que par instants»; l’episodio di Critone che si finge mercante di Tracia, contiene «un bout d’intrigue assez vive qui rappelle les tours du Phormion, l’original des Fourberies de Scapin»; i personaggi episodici si mostrano «assez conformes à ce que nous savons de l’histoire». La conclusione poi travolge nel medesimo giudizio l’intero teatro del grande commediografo: «En somme, Térence est une oeuvre un peu molle et sans traits caractériss, comme tout ce qua fait Goldoni, mais qui mette l’antiquité en scène avec une exactitude suffisante... Si Cesar a pu justement qualifier Térence de demi-Ménandre, Goldoni, malgré tout, serait encore apprécié au-dessus de sa valeur si on l’appelait demi-Térence» (C. Q. cit., 171 e 172). Meglio, e più brevemente, aveva scritto Alfonso Royer: «Quant aux cinq actes du Térence, ils contennient une mince action, qu’un seul acte aurait suffi à développer» (Hist. univ. du théàtre, t. IV, Paris, 1870, p. 301).
Non mancarono i pietosi e anche i benevoli, tanto sono vari i gusti e i cervelli umani: ne ci fa meraviglia che negli anni 1817-18 il ragionato udinese Franc. Rota si prendesse la briga di ridurre il Terenzio in prosa (v. cod. Cicogna 2601 al Museo Civico di Venezia; e Fr. Foffano, Due documenti goldon.i, in Nuovo Arch. Ven. XVIII, 1899, pp. 220-233); che il Terenzio nel ’22 ottenesse l’onore di una traduzione francese da parte di un accademico, Stef. Aignan (1773-1824), tra i Chefs-d’oeuvre du théàtre Italien (Paris, Ladvocat, 1822); che nel ’57 il triestino Franc. Cameroni l’accogliesse fra i sessanta Capolavori di C. G. (1.a serie, Trieste, Coen, 1857); e che l’anno prima Raff. Nocchi lo accettasse fra le sette Commedie scelte di C. G. edite a Firenze (Le Monnier, 1856). Ma convien subito avvertire che, nella notizia premessavi, il Nocchi vi trova insieme uniti «i pregi e i difetti di G., la buona natura del suo ingegno e il gusto vizioso de’ tempi suoi... Feconda e brillante n’è l’invenzione, il protagonista degno della memoria che ci tramanda la storia... Noti personaggi dell’antica società, il cliente, il parassito, l’eunuco, connessi al fatto quanto basta a sodisfare all’arte in cotesti accessorii, fanno buono effetto». Ma d’altro canto, mentre richiedevasi splendore di stile, non che purezza e venustà», non vi si incontra «garbo nemmen di rettorica, come, per es., dove descrive una tempesta»; alcuni «tratti sanno di abate Chiari»; e «vuole anche indulgenza quell’erudizione fuori del necessario, e poco pellegrina» (l. c., 59-60).
Pare che questa pagina avesse letto l’anonimo critico della Perseveranza (1 ott. 1874), il quale lodò la scelta del soggetto, la pittura della società romana, la tessitura della commedia, la «creazione dei caratteri anche quando sono una derivazione» dell’antico. «Quello dell’eunuco Damone è originalissimo ». Trovò per contro certa «sentimentalità un po’ preziosa» nel carattere del protagonista, e negli amori «un poco del moderno marivaudage». Per amore della verità storica, l’autore cade «talora in minuzie erudite e noiose». «Il G. scriveva male, ma con un’adorabile schiettezza e semplicità. Nel Terenzio invece gli scappano dizioni, metafore, esagerazioni degne dell’abate Chiari». La commedia non ha resistito al tempo: «non resiste nè alla rappresentazione, nè alla lettura».
Giudicò meno severamente, non direi più giustamente, Valentino Carrera: «Nel Ter., quando G. è padrone e donno di sé e si trova nella sua beva, getta a piene mani l’impreveduto, il brio, la vita, la giovinezza disinvolta e gioconda, ma appena si tratta di colorito del tempo, appena si tratta di lumeggiarvi cogli splendori dello stile la poesia della favola ed i costumi romani, ohimè, non sa più a qual santo raccomandarsi e finisce per pigliare la peggio, ma la più comoda delle scappatoie, la rettorica e che rettorica!» (C. G. a Torino, Tor. 1886, p. 27). Unico e solo a lodar tutto restò G. C. Molineri, che proclamò questa una delle cose migliori del Goldoni «nel genere che ha attinenza colla storia, e nella quale l’intento di critica e di apologia personale non toglie nulla alla vivacità dell’invenzione e del dialogo» (Storia della lett. ital., t. III, Torino ecc., 1898, p. 164).
Liberati da un tal guazzabuglio, è tempo ormai di concludere. — Come già innanzi nel Moliere, come subito dopo nel Tasso, ci trasporta il Goldoni in un mondo fittizio (poco ci importerebbe la infedeltà storica!), dove non fa muovere degli uomini veri, ma dei manichini. C'è anche nel Terenzio dell’abilità nell’invenzione e nella sceneggiatura, quanta bastava a salvare dal vicino naufragio la commedia: abilità di scrittore di teatro, che Goldoni possedette, sia per natura, sia per esperienza, in sommo grado. C'è inoltre, come nelle due composizioni ricordate, più di un’allusione ai casi stessi dell’autore (v. il critico della Persev. e Molineri), che commovevano il pubblico. C'è finalmente, come nel Tasso, come nelle tragicommedie del Chiari, del rimbombo frugoniano (v., per es., la sc. 6.a dell’ult. atto), che tanto serviva alla declamazione ed esaltava il pubblico del Settecento. Ahi, sciaguratissimi martelliani! Pur troppo il Terenzio non ha del Moliere e del Tasso la meccanica vivacità, che può anche scambiarsi per la vita; e movendosi lento e monotono, riuscì noioso ai posteri. Di qui le sorti diverse. S’aggiunga poi, se si voglia, il costume romano, insolito alla commedia moderna.
La lettera di dedica mette questa volta da vicino l’autore del Regolo e quello dei Rusteghi, i due maggiori rappresentanti dell’arte letteraria in Italia nei primi sei decenni del Settecento, considerati nel secolo seguente come precursori e annunziatori del rinnovamento delle nostre lettere: Pietro Metastasio, signore del melodramma, che invero apparisce nel breve periodo dalla morte di Pope al sorgere del Klopstock, come il solo poeta in Europa, e fu di gran lunga, mentre visse, il più popolare; Carlo Goldoni, creatore della commedia moderna italiana, uno dei più fecondi e spontanei e vivi scrittori di teatro in tutti i tempi. Sincera crediamo la reciproca ammirazione dei due grandi, che mai non s’incontrarono nella lunga vita, ma lasciarono indubbi segni di inclinazione e di stima. Del Goldoni ricorderemo come fin dal 1730, a Feltre, facesse recitare dai giovani dilettanti la Didone e il Siroe; e più tardi nel ’50, si lagnasse nel Teatro comico (A. III, sc. 3; cfr. anche il Frappatore, A. II, sc. 12) degli attori che guastavano i versi del poeta romano; e nel ’53 tanto si commovesse al vedere il nome del Metastasio tra gli associati all’edizione fiorentina delle sue commedie, che lo ringraziò per iscritto (v. a pag. 304); e nella dedica della Statira, tre anni dopo, alle nobilissime dame veneziane, proclamasse «inimitabile» l’autore dei melodrammi; e li leggesse in Francia all’augusta scolara Madama Elisabetta (Mémoires, P. III, c. 24); e in tarda vecchiezza, quand’era già morto il poeta cesareo, ripetesse in parte nelle Memorie le lodi prodigategli nella dedica del Terenzio (P. I, c. 41) e celebrasse la superba edizione delle sue opere, curata dal Pezzana a Parigi (P. III, e. 23). Del Metastasio accenneremo come nel ’53, non ostante l’amicizia per il Bettinelli di Venezia, primo stampatore riconosciuto dei suoi drammi, si associasse all’edizione di Firenze delle commedie goldoniane; e con quanta effusione, nel novembre di quell’anno medesimo, rispondesse da Vienna al Dottor veneziano:
«La gentilezza dell’impareggiabile signor Goldoni eguaglia la misura de’ felici suoi talenti, ed eccede considerabilmente quella del merito mio. Egli si reca a debito il diletto che ha saputo cagionarmi con le ingegnose e festive sue commedie. Lo compiango; se questo è debito, come potrà egli difendersi dalla folla de’ creditori? Ma senza rompermi il cervello fra questi calcoli di dare ed avere, io conto come acquisto da conservarsi gelosamente, a qualunque titolo ch’ei mi venga, quello della sua amicizia, e gli offro sinceramente in contraccambio la mia. — Il ciel mi guardi ch’egli soccomba alla tentazione di dedicarmi una delle sue leggiadre commedie: di questi incensi sono in possesso ab immemorabili i luminosi figli della fortuna fra’ quali, non so se per parzialità o per oltraggio, non è piaciuto alla Provvidenza di collocarmi; e provveduto, com’io sono, particolarmente su questo punto di somma rassegnazione, arrossirei troppo della taccia d’usurpatore. Se vuole onorarmi oltre misura e pienamente contentarmi, mi conservi il gentilissimo signor Goldoni l’offerto preziosissimo dono dell’amor suo, e mi somministri in contraccambio co’ suoi comandi le opportunità di dimostrargli la giusta e ossequiosa stima, con cui sono» (lett. dei 24 nov. 1753).
Ne è meno calorosa la lettera di ringraziamento scritta nel ’71 (30 die.) per il dono ricevuto del Bourru bienfaisant. - Notissima pure quella di risposta alla dedica del Terenzio, che ha la data degli 11 marzo 1758, da Vienna, e che qui riferiamo per solo comodo dei lettori: «Oh! che Dio vel perdoni, sig. Carlo riveritissimo, l’avete pur fatta malgrado tutte le mie rimostranze! Quale spinto seduttore vi ha mai persuaso a dedicarmi il vostro grazioso ed erudito Terenzio? Voi con questo incenso a me così poco dovuto, avete in primo luogo costretto un amico che vi ama sommamente e vi stima, a riflettere sulle rincrescevoli cagioni, per le quali ei sa di non meritarlo. In secondo luogo, con le tante e tante belle cose che vi è piaciuto dir di me nell’eloquentissima epistola dedicatoria, avete fornita la malignità d’un apparente pretesto, onde chiamare contraccambio o restituzione la giustizia ch’io rendo a’ felicissimi scritti vostri e a’ vostri invidiabili talenti: e avete finalmente umiliata la mia eloquenza, che in risposta della gentile offerta che vi piacque farmi di questa dedica, credeva avervi pienamente convinto che non mi conveniva, e persuaso di rimanervene. Tutti questi inconvenienti non crediate per altro, sig. Goldoni stimatissimo, che possano rendermi ingrato: anzi nella sproporzione istessa del dono io trovo la più sicura prova dell’amicizia che ha potuto allucinarvi. Quanto più la traveggola è sensibile, tanto più dee la cagione esserne stata efficace, ed io compro volentieri una sì cara sicurezza con un poco di rossore di qualche onore usurpato. — Vi rendo vive e sincere grazie de’ tre primi volumi del vostro nuovo teatro, all’impressione del quale sarei già stato associato, se non l’avessi ignorato. Gli ho trascorsi tutti, nel poco tempo che ne sono possessore, con quella impaziente avidità che tutte inspirano le opere vostre: ho ammirata la stupenda fecondità del vostro ingegno e la invidiabile fluidità che mai non vi abbandona non men nel verso che nella prosa; e li rileggo ora a bell’agio per osservarne l’artifizio e le bellezze, delle quali mi avrà defraudato la involontaria fretta. — Conservatevi, gentilissimo sig. Goldoni, al piacere e all’approvazione del pubblico, e cercate in me, se vi dà l’animo, qualche a me stesso incognita facoltà, onde realmente convincervi della riconoscenza, della stima e dell’affetto con cui sono».
Le tre lettere, già edite dall’ab. conte D’Ayala fra le Opere postume del Metastasio a Vienna, nel 1795, furono molte volte ristampate. — Dei due poeti toccarono brevemente, fra gli altri, T. G., Di Metastasio e del G., in Album. Giorn. lett. di belle arti, Roma, VII 1840 (comunicazione gentile del Maddalena); Martucci, C. G. e il suo soggiorno a Roma, in Rassegna nazion., 1 giugno 1886,; G. Mazzoni, nelle annotazioni ai Mémoires, Firenze, 1907, II, 368-9.
G. O.
Il Terenzio uscì stampato la prima volta in principio dell’anno 1758 nel t. III (1757) dell’ed. Pitteri di Venezia, e fu a Bologna ristampato nel ’65 (S. Tomaso d’Aquino), a Torino nel ’74 (Guibert e Orgeas XIII), a Venezia più volte (Savioli II, ’72; Pasquali XI, 73; Zatta cl. 3. IV, ’92), a Livorno (Masi III, ’88), a Lucca (Bonsignori VII, ’89) e forse altrove nel Settecento. — La presente ristampa seguì il testo del Pitteri, del Pasquali e dello Zatta.
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