Una tragedia inedita di Giacomo Leopardi - La virtù indiana
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UNA TRAGEDIA INEDITA
DI GIACOMO LEOPARDI
“LA VIRTÙ INDIANA„
Fino al 1900 non era noto che Giacomo Leopardi avesse scritto una tragedia intitolata La virtù indiana.
Non ne aveva parlato Antonio Ranieri nella prefazione alla raccolta delle opere del suo grande amico; non ne aveva parlato Prospero Viani che intorno alla vita e alle opere di Giacomo aveva assunto le testimonianze del fratello Carlo e di altri. Anzi il Viani escludeva che si avesse notizia di tragedie leopardiane all’infuori di quella intitolata Pompeo in Egitto.
Nella lunga e pregevole prefazione al volume Appendice all’epistolario e agli scritti giovanili di Giacomo Leopardi a compimento dell’edizione fiorentina1 il Viani, fra i Ricordi attinti da varii, riproduce a pag. XLV:
«Francesco Puccinotti al conte Monaldo Leopardi, 5 dicembre 1837: ... Quando io fui a Recanati, egli (Giacomo), che mi riguardava con singolare amore, me le mostrò tutte (le sue opere) in quella umile scansia della sua camera, ed io ne presi l’elenco. Il quale, veduto dal cav. Curzio Corboli, restò presso di lui, ed ora non mi sarebbe facile riaverlo. Mi ricordo però di alcune, e sono le seguenti:
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«Alcune tragedie».
A questo punto il Viani così annota:
«Della tragedia non si ebbe mai notizia, se non d’una men che giovanile, Pompeo in Egitto, bensì di alcune del padre, viste anche da me.»
Ma l’esistenza di un’altra tragedia leopardiana, La virtù indiana, non potè più essere dubbia da quando uscì il volume Scritti rari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane2. Com’è noto, dopo la pubblicazione dei sette volumi di Pensieri, avvenuta tra il 1898 e il 1900, «rimanevano inediti alcuni scritti, nella massima parte frammenti ed abbozzi», che la Commissione pubblicò appunto nel volume Scritti vari, ecc., dividendoli in tre sezioni: Poesie, Prose, Lettere. Nella prefazione a questa raccolta è detto:
«Abbiamo in fine di essa sezione (Prose) aggiunto tre Indici delle opere del Leopardi compilati da lui stesso, e per ultimo i documenti della nomina del Leopardi a deputato di Recanati.
«Il primo dei tre Indici non è tratto dalle carte napoletane alle quali appartengono gli altri due con le date 16 novembre 1816 e 25 febbraio 1826.
«Mentre la Commissione stava attendendo alla pubblicazione di questo volume, le furono offerti in vendita alcuni autografi del Leopardi, fra i quali diverse lettere e questo Indice, che raccoglie gli scritti fanciulleschi di Giacomo dal 1809 al 1812. La Commissione acquistò gli autografi col proposito di riunirli alle altre carte napoletane, che sono proprietà della biblioteca nazionale di Napoli, e stimò conveniente aggiungere, nella stampa di questo volume, quell’indice agli altri due.»
L’intestazione del primo Indice, scritto di mano del Leopardi, è la seguente:
Indice delle produzioni
di me Giacomo Leopardi
dall’anno 1809 in poi.
Recanati
Segue senz’altro l’elenco delle opere.
Al n. 39 dell’Indice è scritto:
La Virtù Indiana
Tragedia - 1811
vol. I, pag. 57
Ma finora di questa tragedia, scritta dal Leopardi all’età di tredici anni, non si sapeva nulla di più. Non si era rinvenuto il manoscritto.
A me è toccata la fortuna di rinvenirlo ed identificarlo.
⁂
È opportuna qualche notizia sul possesso del prezioso manoscritto, anche perché essa confermerebbe l’autenticità di questo, se di conferma vi fosse bisogno.
Come ricorda Camillo Antona-Traversi in Paolina Leopardi, note biografiche condotte su documenti inediti recanatesi3, la sorella di Giacomo, rimasta al governo della famiglia Leopardi dopo una serie di lutti, conservò la consuetudine vigente nella sua aristocratica famiglia, dove la volontà dei genitori Monaldo e Adelaide aveva imperato, e «tenne un precettore per i nepoti, cui dava 12 scudi il mese, più la casa, il trattamento e altri 6 scudi per le messe» (pag. 171). L’Antona-Traversi annota: «Prima D. Emidio Galanti e poi l’abate Dalla Vecchia».
I nepoti di Paolina erano i figli del fratello di lei, Pier Francesco, cioè: Virginia, Giacomo e Luigi. Di un altro Luigi, figlio anch’esso di Pier Francesco, non occorre parlare, perché visse poco più di tre anni.
Primo precettore di questi ragazzi, nati tutti dopo la morte del Poeta, fu, dunque, il sacerdote don Emidio (e non Emilio) Galanti, nato in Ascoli Piceno e morto a Roma nel 1868.
Gli eredi di questo don Emidio Galanti, che aveva fama di persona fornita di solida coltura e di specchiata rettitudine, conservarono fra le altre carte di lui il manoscritto leopardiano La virtù indiana. Le signorine Maria e Vincenzina Galanti, pronipoti di don Emidio Galanti che fu fratello del loro avo, e cultrici esimie di letteratura ed anime squisite di artiste, ebbero specialmente cura dell’autografo; e di tale cura reverente e affettuosa va loro data pubblica lode.
L’autenticità del manoscritto è data da queste prove:
1. La perfetta identità della scrittura con quella di altri manoscritti del Leopardi stesso, fanciullo e giovinetto, conservati nella biblioteca Leopardi a Recanati.
2. Le correzioni apposte su alcune parole del manoscritto, fatte evidentemente dalla stessa mano che vergò il testo e tali da non poter essere fatte da un copista, essendo variazioni sostanziali, di concetto.
Come don Emidio Galanti ebbe il manoscritto della tragedia?
È da supporre che, mentre era a Recanati come precettore in casa Leopardi, lo avesse in dono dalla contessa Paolina. È noto che, dopo la morte di Giacomo, ella fu stretta da molte richieste di autografi e di ricordi del Poeta, ed accondiscese facilmente ad esse; del che le fu poi fatta censura, senza che per questo si mettessero in dubbio il suo fervido affetto per Giacomo e la venerazione di cui circondò la memoria di lui estinto.
⁂
Il manoscritto della tragedia La virtù indiana è un fascicoletto di cm. 19 per 13, che reca sulla copertina, ornata di un grazioso fregio a penna (interessante perchè dimostra la cura che Giacomo fin da allora dedicava ai suoi lavori, primizie del genio), il titolo così disposto:
La
Virtù Indiana
Tragedia
di
Giacomo Leopardi
1811
I foglietti sono rigati a matita. La scrittura, fatta a penna d’oca, è rotonda e chiarissima.
II fascicoletto, legato in cucitura di filo bianco, è composto di 56 pagine non numerate. Manca, in fine, qualche pagina; probabilmente, una sola, stando all’indicazione data dallo stesso Leopardi nell’Indice, secondo la quale la tragedia era composta di 57 pagine.
Le prime tre pagine del fascicoletto e sette righe della quarta pagina contengono la seguente prefazione:
«Se non è nuovo l’intreccio di questa Tragedia, giova almeno il credere, che nuovo ne sia il soggetto. Un Monarca Indiano sbalzato dal suo trono vacillante, ed ucciso per mano di un traditore; un principe, che ad onta de’ Regicidi ascende sul soglio paterno e giunge perfino a conciliarsi gli animi istessi dei suoi nemici: ecco lo scopo, a cui si diriggono le parti di questa Tragedia. Vedesi, chi ella è tratta in parte dal Serse del P. Saverio Bettinelli. Ella non è che fondata sul vero; e adorna nel restante di quanto può esser atto a maggiormente rilevare l’empietà del traditore, o la virtù del Protagonista dell’azione. In essa cercai di seguire religiosamente il precetto di Orazio
..... Sit quod vis simplex duntaxat, et unum.
Non la formai per tal cagione che di tre soli atti. Se alcuno perciò dar mi volesse la taccia d’importuno Novatore io non apporterei per liberarmene, che le parole poste dal celebre Algarotti in una sua lettera, e son le seguenti «Ognuno sa a mente quei versi della Poetica Latina,
Neve minor neu sit quinto productior actu
Fabula, quae posci vult, et spectata reponi,
Precetto, che viene da Orazio prescritto non meno per la Commedia, che per la Tragedia. Ora se pur vi ha delle Commedie di Moliere di tre atti, e non più, e che ciò non ostante sono tenute buone; non so perchè non vi possa ancora esser una buona Tragedia che sia di tre atti, e non di cinque.
· · · · · · · · · · · Quid autem |
E forse non sarebbe del tutto fuor di ragione, che una gran parte delle moderne Tragedie si riducessero a tre atti solamente; mentre si vede, che per arrivare ai cinque i più degli autori vi appiccano degli Episodi, che allungano il componimento, e ne tolgon l’unità. E però l’istesso Racine non volle distendere la sua Ester più là di tre atti. Che se i Greci nelle loro Tragedie benché semplicissime ritennero costantemente la divisione in cinque atti, bisogna far considerazione, che ciò non sempre torna bene al nostro Teatro, non tanto perchè nostro costume è il fare gli atti più lunghi, quanto perché tra noi non ha luogo il coro, che appresso di loro occupava una grandissima parte del Dramma.»
Fu composta questa Tragedia senza l’intervento di donne perchè tale è il modello che in essa si è preso a seguire, ed affinchè ella sia esente dal rimprovero fatto da Voltaire alla Francia «Il linguaggio puramente amoroso ha sempre disonorato il teatro Francese». Spero, che non sarà discaro all’Italia, che si applichi alle sue scene ciò, che il Filosofo di Ferney scrisse di quelle della Nazione Francese; specialmente essendo elleno debitrici di una gran parte della loro corruzione a quello, che solo tra i Drammatici suoi Poeti è capace di contrastare la palma ai Comelii, e ai Racine, che vanta la Francia.»
Alla prefazione, che rivela la prodigiosa coltura e l’originalità di pensiero del tredicenne, seguono l’Argomento e l’elenco degli Interlocutori.
La tragedia — come s’è visto — è in tre atti. Al testo sono apposte, qua e là, alcune note. La scena è a Delly, capitale del Mogol, nel palazzo imperiale.
Quanto al non voluto intervento di donne nella tragedia, è da ricordare il delizioso episodio della vita di Giacomo fanciullo, che fu riferito da suo fratello Carlo: quello dei racconti imaginosi che Giacomo faceva ai fratellini durante la notte, stando a letto insieme con essi. Erano racconti lunghi, pieni di intrecci, che duravano più notti (come fossero romanzi a puntate) e che incuriosivano molto i piccini, confermando nel fratello, maggiore di qualche anno, il predominio rumoroso e superbetto da lui esercitato anche durante i giuochi. Anche in quei racconti — ha narrato Carlo Leopardi al Viani — Giacomo non faceva mai intervenire le donne. Perciò è da ritenere che questa fanciullesca esclusione di un elemento narrativo o drammatico che egli ancora non conosceva (solo più tardi Giacomo doveva sentire il tremendo desiderio di amore) derivasse anche dall’educazione religiosa ricevuta e dal concetto molto rigido che s’era formato della moralità dei costumi.
⁂
Non oso dare giudizi sull’opera del Poeta, la quale, pur essendo frutto così precoce, ha notevole importanza per chi intende studiare la preparazione e lo sviluppo del genio leopardiano. I versi sono di ottima fattura. Non è esagerato affermare che è già in essi alcunché di quel che sarà poi il cantore del Sabato del villaggio e della Ginestra.
A me basti — almeno per ora — dare, con venerazione e con gioia, notizia di questo rinvenimento prezioso. Non si riterrà — credo — inutile o irriverente la prossima pubblicazione della tragedia. Tutt’altro. Ben disse la Commissione incaricata di curare le opere postume del Leopardi: «Nè la pubblicazione degli studi giovanili fatta dal Giordani, dal Pellegrini, dal Viani, dal Cugnoni e dal Piergili giovò poco al giusto apprezzamento di tutta l’opera letteraria dello scrittore recanatese; e niuno disse che quella pubblicazione, la quale comprende alcuni scritti fanciulleschi, fosse inutile ed inopportuna».
Degli uomini come Giacomo Leopardi giova sapere tutto; e non v’è forse cosa che maggiormente attragga gli studiosi, quanto questi primi battiti di ale che preannunziavano i grandi voli.
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