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Vite dei filosofi/Libro Quarto/Vita di Bione

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Libro Quarto - Vita di Bione

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Diogene Laerzio - Vite dei filosofi (III secolo)
Traduzione dal greco di Luigi Lechi (1842)
Libro Quarto - Vita di Bione
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CAPO VII.


Bione.


I. Bione era di razza boristenite. Chi poi fossero i suoi genitori e per quai motivi s’avviasse alla filosofia, e’ lo disse apertamente ad Antigono. Imperocchè interrogato da lui:

     Chi se’ tu? Di qual gente? Ov’è la tua
     Cittade, e i genitori?

sapendo che prima era stato vituperato, risposegli: Il padre mio fu uno affrancato, che si puliva il naso colla manica — volea significare un venditore di salumi — razza boristenite, ch’ebbe non faccia, ma una scritta sulla faccia, segno della durezza del suo padrone; la madre, da bordello, quale sposar potea un uomo così fatto. In seguito il padre, avendo frodata, non so che gabella, fu meco con tutta la famiglia venduto; e me, più giovine ed aggraziato, compera un oratore, il quale morendo mi lascia tutto; ed io abbruciate le sue scritture, e raggranellata ogni cosa, venni in Atene e mi posi a filosofare.

     Questa è la schiatta e il sangue di che teco
     Esser mi vanto.

[p. 329 modifica]Ciò sul conto mio. Il perchè e Perseo e Filonide cessino di farne ricerca, e tu considera me da me stesso.

II. E per verità, Bione era nel resto artificioso e sottile sofista, e molte volte diede occasione, a chi volea, di andare spaziando nella filosofia. Alcune volte però era dolce, e poteva essere allettato dal fumo.

III. Lasciò molti commentarii ad anche apotemmi pieni di utile sottigliezza; come allorchè, essendo biasimato di non dare la caccia ad un giovinetto: Non si può, disse, prendere coll’amo il cacio molle. — Interrogato una volta, chi era l’uomo che avea maggiori inquietudini, rispose: Quello che vuol condurre a buon fine le cose grandissime. — Interrogato se si dovea menar donna — poichè a lui si attribuisce anche questo — rispose: Se la sposi brutta, avrai un castigo: se bella, l’avrai comune. — Diceva: Essere la vecchiezza il porto dei mali, perchè tutte le cose in quella rifuggono. — La gloria essere madre degli anni. — La bellezza un bene altrui.La ricchezza nerbo degli affari. — Ad uno che avea consumati i suoi poderi: La terra, disse, ha ingoiato Amfiarao, e tu la terra. — Gran male il non poter sopportare il male.Biasimava quelli che abbruciando gli uomini come insensibili, gli invocavano poi come sensibili. — Solea dire: Essere da preferirsi il compiacere altrui della propria bellezza al por la falce in quella degli altri; perocchè si fa oltraggiò all’anima ed al corpo. — Mordeva anche Socrate affermando: Che se potè usare di Alcibiade e s’astenne, fu pazzo, se non potè, nulla fece di straordinario. — Facile, diceva, la via [p. 330 modifica]dell’inferno, perchè vi si va a chiusi occhi. — A vitupero di Alcibiade narrava, che essendo fanciullo toglieva i mariti alle mogli, divenuto giovine, le mogli ai mariti. — In Rodi, agli Ateniesi, che studiavano rettorica, insegnava quistioni filosofiche: ad uno che gliene fece rimprovero, rispose: Ho portato frumento e vendo orzo. — Diceva, che i dannati sarebbero meglio puniti, se in vasi tutti interi e non traforati portassero l’acqua. — Ad un chiacchierone che instantemente gli chiedeva assistenza: Farò, disse, quanto basta per te, se manderai mediatori e non verrai tu stesso. — Navigando con alcuni scellerati, cadde ne’ ladri, e dicendo quelli, noi siamo spacciati se ci conoscono: Ed io, soggiunse, se non mi conoscono. — La presunzione chiamava un impedimento al progresso. — Di un ricco spilorcio ebbe a dire: Costui non possiede la roba, ma la roba lui. — Era solito ripetere: Che coloro che abbadano alle minuzie, hanno cura dei beni loro, come di cosa propria, ma come dalle cose altrui, non ne ritraggono utile.Chi è giovine, diceva, usa la forza, ma invecchiando vale per la prudenza.Tanto la prudenza vince l’altre virtù, quanto la vista gli altri sensi. — Diceva spesso: Non doversi vituperare la vecchiaia, alla quale, soggiugneva, desideriamo tutti di arrivare. — Ad un invidioso che avea l’aspetto melanconico: Non veggo, disse, dei due, se sia accaduto un male a te, o un bene ad un altro. — L’ignobiltà, asseriva, essere pessima compagna di casa del parlare con franchezza.

              — Chi domerebbe l’uomo,
     Sebbene ei fosse parlatore audace.

[p. 331 modifica]Gli amici, quali ch’ei sieno, doverti serbare, onde non paia che noi abbiamo praticati i cattivi, o rifiutati i buoni.

IV. Rigettò costui da prima le dottrine academiche, nel qual tempo fu uditore di Crantore; quindi scelse la scuola cinica, prendendo il mantello e la bisaccia. Imperocchè qual altra cosa, mutandolo, potea condurlo all’apatia? In seguito si trasferì alla teodorea, fattosi uditore di Teodoro l’ateo, sofista che esercitavasi in ogni maniera di deputazioni. Dopo costui udì il peripatetico Teofrasto.

V. Era pieno di enfasi ed atto assai a muovere il riso usando per le cose nomi spregevoli. Per la mescolanza ch’ei facea di ogni forma di discorso, si racconta Eratostene aver detto, che Bione avea rivestita la filosofia di fiorita eloquenza.

VI. Aveva anche una facilità naturale a far parodie, come queste che sono sue:

     O molle Archita, musica progenie,
     Beato fasto e tra i mortali tutti,'
     Nelle quistioni della corda bassa,
     Peritissimo.


VII. La musica e la geometria poneva al tutto in canzone.

VIII. Era magnifico, e per questo motivo si tramutava da città in città, inventando tratto tratto nuove ostentazioni. Come allorchè in Rodi persuase a’ marinai di vestire abito scolaresco e di seguitarlo; coi quali [p. 332 modifica]invadendo il ginnasio, si faceva oggetto di ammirazione.

IX. Solea fare adozione di alcuni giovanetti, e per abusarne, ed acciocchè per benivoglienza avessero cura di lui. Tutta volta però anche di sè stesso era amantissimo, e molto si fondava nell’adagio: Le cose degli amici, comuni. Per ciò, fra tanti che lo udirono, nessuno si diede titolo di suo scolaro. Alcuni trascinò sino all’impudenza. A tale che Bezione, uno de’ suoi mignoni, secondo che si racconta, disse a Menedemo una volta: Io per verità, o Menedemo, mi giaccio la notte con Bione, e credo di non fare nulla di sconcio. Di molte cose, e più empiamente, tenea discorso a coloro che conversavano seco, tratte dalla scuola teodorea.

X. Finalmente caduto un giorno malato, come raccontavano que’ di Calcide — dove anche trapassò — fu indotto a provvedersi di amuleti e a pentirsi delle colpe che avea commesso verso Dio. Ed ebbe anche molto a patire per la strettezza di chi avealo in cura, fin che Antigono gli mandò due servitori; ed ei si pose a seguitarlo in lettiga, come dice Favorino nella Varia istoria. — Ma del suo modo di trapassare, anche noi lo abbiamo accusato in questo modo:

     Bion boristenite, cui la terra
       Scitica generò, negare udimmo
       Ch’esistesser gli dei. Se in tal dottrina
       Fosse durato almen, poteasi a dritto
       Dir, ch’ei penseva come a lui parea;
       Sebben mal gli paresse. Ora caduto
       In grave morbo, e di morir temendo,

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       Quei che disse non essere gli dei,
       Che mai non vide un tempio, e che i mortali.
       Quando sagrificavano agli dei,
       Solea tanto deridere; non solo,
       Sul fuoco, sull’altar, sovra la mensa
       Adipe, fumo, incenso arse de’ numi
       Alle nari; non sol disse: Peccai,
       Del passato pietà! ma facilmente
       Die’ da incantare il collo ad una vecchia,
       E persuaso a cingersi fu il braccio
       Di pelle; e il bianco spino e il ramoscello
       Dello allor pose sulla porta. A tutto
       Fuor che a morir parato. E volta stolto
       Che la divinitade avesse un prezzo,
       Quasi fosser gli dei, quando a Bione
       Di volerli paresse! Invano adunque
       Saggio, se allor che tutto era carbone
       Tese, imbecil, le braccia, e press’a poco
       Così: Salve, sclamò, salve, Plutone.


XI. V’ ebbero dieci Bioni. — Il primo contemporaneo del siro Ferecide, di cui si hanno due libri. Egli è proconnesio. — Il secondo siracusano, che scrisse dell’arti rettoriche. — Il terzo, quest’esso. — Il quarto filosofo democriteo e matematico, abderitano; scrisse in lingua attica e ionica. Costui primo disse che vi erano alcuni luoghi abitati, dove la notte è di sei mesi, e di sei il giorno. — Il quinto da Soli, che scrisse delle cose etiopiche. — Il sesto, retore, del quale ci rimangono nove libri intitolati dalle Muse. — L’ottavo, statutario da Mileto, che è ricordato anche da Polemone. — Il nono, poeta da tragedie, di que’ che dicono Tarsici. — Il decimo, scultore, clazomenio o da Chio, di cui fa menzione Ipponace.