Perdita di fiato

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Edgar Allan Poe 1832 1922 A.C. Rossi Indice:Poe - Perdita di fiato, traduzione di A.C. Rossi, Bottega di Poesia, Milano, 1922.djvu Racconti Perdita di fiato Intestazione 13 giugno 2023 75% Da definire

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Perdita di fiato.




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Anche la fortuna più notoriamente avversa è d’uopo che ceda infine le armi di fronte all’irriducibile coraggio della filosofia, come la più ostinata fortezza innanzi alla vigilanza non interrotta d’un esercito nemico.

Salmanazer, si legge nella Sacra Scrittura, strinse per tre anni d’assedio la città di Samaria: che infine cadde. Sardanapalo (vedi Diodoro) resistette in Ninive per ben sette anni: ma senza frutto. Troia cedette alla fine del secondo lustro; e Azoto, secondo quanto afferma Aristeo sul suo onore di gentiluomo, aperse infine le porte a Psammitico, dopo averle tenute sbarrate per un quinto di secolo...


«Carogna! Strega! megera!» dissi a mia moglie l’indomani mattina del nostro matrimonio: «vecchia arpia! o essere spregevole! abisso di iniquità! o mostruosa quintessenza di ogni [p. 16 modifica]cosa abbominevole! o... o... e qui sollevandomi in punta di piedi, afferrandola alla gola, e avvicinando le labbra al suo orecchio, mi preparavo a scagliare un nuovo e più decisivo epiteto di obbrobrio, che non avrebbe potuto mancare, se lanciato, di convincerla della propria nullità, quando, con mio estremo orrore e stupefazione, mi accorsi che avevo perduto il fiato.

Le frasi: «Non ho più fiato» «Ho perduto il fiato» ecc. ricorrono abbastanza spesso nell’ordinaria conversazione; ma non avrei mai seriamente pensato che quel terribile accidente di cui sto parlando potesse succedere fuor di metafora, in realtà! Immaginate — se tuttavia siete di natura fantasiosa — immaginate, dico, la mia meraviglia, la mia costernazione, la mia disperazione!

V’è, tuttavia, un buon genio, che non mi ha mai del tutto abbandonato. Nei più ingovernabili momenti, conservo ancora un certo senso delle convenienze, «et le chemin des passions me conduit» come Lord Edoardo dice di se stesso nella Julie «à la philosophie vèritable.

Sebbene da principio non sapessi rendermi conto a quale esatto grado l’accidente mi avesse colpito, decisi per ogni evenienza di tenere nascosta la cosa a mia moglie, sin quando una [p. 17 modifica]ulteriore esperienza mi avesse rivelato l’estensione di questa mia inaudita calamità. Modificando dunque il mio aspetto, in un momento, dalla sua apparenza tumefatta e contorta in una espressione di graziosa e civettuola benignità, diedi alla mia signora una carezza su di una guancia, un bacio sull’altra, e senza pronunziare una sola sillaba, (o Furie! non lo potevo) la lasciai stupefatta per la mia bizzarria mentre piroettavo fuori dalla stanza in un pas de zéphir.

Consideratemi, dunque, nascosto bene al sicuro nel mio salotto privato, uno spaventoso esempio delle cattive conseguenze dell’irascibilità; vivo, nelle condizioni di un morto: morto, con tutte le inclinazioni di un vivo; una anomalia sulla faccia della terra, estremamente calmo, e tuttavia senza fiato.

Sicuro! Senza fiato. Affermo con perfetta serietà che il mio fiato era interamente scomparso. Ne fosse dipesa la mia vita, non avrei potuto per mezzo suo muovere una piuma, e nemmeno appannare la delicatezza di uno specchio.

Duro destino! Ma tuttavia trovai qualche sollievo al primo insopportabile paressimo del mio dolore. Mi avvidi alla prova che le mie facoltà di eloquio, da me supposte totalmente distrutte, a cagione della mia incapacità a procedere [p. 18 modifica]nella conversazione con mia moglie, erano in realtà impedite solo in modo parziale; e mi accorsi che se io, al momento di quella interessante crisi, avessi abbassato la voce sino a un profondo tono gutturale, mi sarebbe stato possibile continuare nella espressione dei miei sentimenti: questo tono di voce (il gutturale) trovandosi a dipendere, come rilevai, non dalla corrente del respiro, ma da una certa azione spastica dei muscoli della gola.

Gettandomi su di una seggiola, restai per qualche tempo assorto e meditabondo. Le mie riflessioni, per il vero, non erano di un genere molto consolatorio. Mille vaghe e lacrimevoli fantasie presero possesso del mio animo, e persino l’idea del suicidio traversò il mio cervello; ma è un tratto ben singolare della perversità dell’umana natura il respingere ciò che è pronto e a portata di mano per ciò che è remoto ed equivoco. Così io abbrividii all’idea del suicidio come alla più efferata tra le atrocità, mentre il mio gatto faceva vigorosamente le fusa sul tappeto, e persino il mio cane da padule ansimava con assiduità sotto il tavolo, tutt’e due coll’aria di darsi molto merito per la forza dei loro polmoni, e il tutto evidentemente inteso a derisione della mia incapacità respiratoria. [p. 19 modifica]

Oppresso da un tumulto di vaghe speranze e timori udii infine i passi di mia moglie che scendeva le scale. Sicuro adunque della sua assenza tornai con cuore palpitante sulla scena del mio disastro.

Serrata accuratamente la porta dal di dentro, iniziai vigorosamente le ricerche. Era possibile, pensavo, che nascosto in qualche angolo oscuro, o appiattato in qualche armadio o cassetto, mi venisse fatto di scoprire l’oggetto delle mie indagini: perchè non avrebbe avuto una forma vaporosa, o magari anche concreta? Moltissimi filosofi, su molti punti della filosofia, son tutt’altro che filosofici: William Godwin, tuttavia, dice nel suo «Mandeville» che le cose invisibili sono la sola realtà, e questo, tutti ne converranno, fa proprio al caso mio. Vorrei che il giudizioso lettore riflettesse alquanto prima di accusare tali osservazioni di contenere una illecita percentuale di assurdo — Anassagora, come ognuno ricorda, sosteneva che la neve è nera, e m’è in seguito accaduto di constatare che aveva ragione.

Lungamente e attentamente proseguii nelle mie investigazioni; ma la spregevole ricompensa di tutta la mia attività ed industria non fu altro che una dentiera, due paia dì fianchi, un occhio, e un certo numero di biglietti galanti [p. 20 modifica]del Sign. Fiatassai a mia moglie. Potrei qui osservare che questa conferma della parzialità della mia signora pel Sig. F. non mi turbò affatto. Che la signora Senzafiato dovesse ammirare una persona tanto differente da me era un male naturale e necessario. Io sono, come infatti tutti sanno, di un aspetto robusto e corpulento, e nello stesso tempo alquanto basso di statura. Qual meraviglia, dunque, che la tenuità di giunco di quel mio conoscente e la sua altezza, che è diventata proverbiale, dovesse incontrare tutta la dovuta stima agli occhi della Sign. Senzafiato? Ma torniamo all’argomento.

I miei sforzi, come ho detto prima, risultarono inutili. Armadio dopo armadio, cassetto dopo cassetto, angolo dopo angolo, vennero da me frugati senza risultato. Ad un certo momento, tuttavia, mi credetti sicuro della mia ricompensa, avendo, nel rovistare in un cestello da lavoro, accidentalmente demolita una bottiglia d’olio degli arcangeli di Grandjean, che mi prendo la libertà di raccomandarvi pel suo gradevole profumo.

Con cuore pesante io tornai nel mio salotto, onde meditare quivi su qualche metodo adatto a eludere la penetrazione di mia moglie sino al momento in cui, sistemate in qualche modo le cose mie, mi fosse possibile di abbando[p. 21 modifica]nare quei luoghi, poichè a questo ero ben deciso. Sotto un clima straniero, e sconosciuto, avrei potuto tentare con qualche probabilità di successo di nascondere la mia sventurata calamità, una calamità fatta apposta, più ancora che l’estrema miseria, per alienare le simpatie della moltitudine e per attirare sullo sciagurato la meritatissima indignazione dei virtuosi e felici. Non esitai a lungo. Colla mia facilità naturale, mandai a memoria l’intera tragedia del Matamoro.

Ebbi la fortuna di ricordarmi che nell’accentuazione di questo dramma, o almeno di quella parte che è assegnata all’eroe, i toni di voce dei quali mi trovavo a mancare erano perfettamente inutili, e che il gutturale profondo doveva monotonamente regnare dal principio alla fine.

Mi esercitai per qualche tempo lungo le rive di una palude ben frequentata; non già, tuttavia, riferendomi a un simile procedimento di Demostene, ma con un piano peculiariamente e coscienziosamente mio. Armato così di tutto punto, decisi di far credere a mia moglie di esser improvvisamente colpito da una passione per la scena. E la mia riuscita fu veramente miracolosa; ad ogni domanda o insinuazione mi trovai libero di rispondere, nei miei toni di voce più chiocci e sepolcrali, con qualche [p. 22 modifica]passaggio della tragedia, ogni parte della quale, come presto osservai con grandissimo piacere, si poteva applicare con uguale opportunità a qualsiasi soggetto. Non bisogna supporre, tuttavia, che nel declamare io omettessi di guardar losco, di scoprire i denti, di scuotere i ginocchi, di strascicare i piedi, o alcuna di quelle ineffabili grazie che sono ai nostri tempi considerate a ragione le caratteristiche di un buon attore popolare. Non v’è dubbio che si parlò di confinarmi in una camicia di forza; ma, per Iddio! nessuno sospettò mai che io avessi perduto il fiato.

Dato alla fine ordine ai miei affari, presi posto di buon mattino nella diligenza di X, lasciando voce fra i miei conoscenti che un affare d’estrema importanza esigeva la mia presenza in quella città.

La diligenza era affollata all’eccesso; ma nell’incerto crepuscolo non potevo distinguere le fattezze dei miei compagni di viaggio. Senza opporre resistenza io sopportai di esser situato tra due signori di dimensioni colossali; mentre un terzo, di corporatura ancor maggiore, scusandosi per la libertà che stava per permettersi, si gettò sul mio corpo con tutta la sua persona, e addormentatosi all’istante, soffocò tutte le mie gutturali implorazioni di soccorso in un russa[p. 23 modifica]re che avrebbe fatto arrossire di vergogna i muggiti del Toro di Falaride. Fortunatamente lo stato delle mie facoltà respiratorie rendeva la soffocazione un accidente affatto impossibile. Allorchè, tuttavia, il giorno cominciò ad aprirsi più chiaro nel nostro avvicinarci ai sobborghi della città, il mio tormentatore, alzandosi e accomodandosi il colletto, mi ringraziò in tono estremamente amichevole per la mia cortesia. Vedendo che io restavo immobile (tutte le mie membra erano slogate e il mio capo torto da un lato) le sue apprensioni cominciarono a destarsi; e svegliando il resto dei passeggeri, egli manifestò recisamente la sua opinione che un cadavere era stato imposto alla loro compagnia durante la notte in luogo di un viaggiatore vivo e responsabile: e qui mi diede una botta nell’occhio destro, come a dimostrare la verità della sua asserzione.

A questo punto, tutti, l’un dopo l’altro, (erano nove nella compagnia) si credettero in dovere di tirarmi le orecchie. Quando poi un giovane medico ebbe applicato uno specchietto tascabile innanzi alla mia bocca, e mi trovò senza fiato, l’asserzione del mio persecutore fu proclamata esatta; e tutta l’assemblea espresse la sua determinazione di non tollerare mai più pacificamente nel futuro simili imposizioni, e [p. 24 modifica]di non procedere oltre, pel momento, in compagnia di una carogna del genere.

Di conseguenza, fui gettato fuori dalla vettura all’insegna del «Corvo» (presso la qual taverna la diligenza si trovava a passare) senza ulteriori accidenti che la rottura delle mie braccia sotto la ruota posteriore sinistra del veicolo. Devo, d’altra parte rendere giustizia al postiglione, che egli non mancò di gettarmi appresso il più grosso dei miei bauli, il quale sfortunatamente, cadendo sul mio capo, fratturò la mia calotta cranica in una maniera interessante insieme e straordinaria.

L’oste del «Corvo» che è un uomo ospitale, trovando che il mio baule conteneva abbastanza da indennizzarlo per tutti i piccoli disturbi che si fosse presi a mia cagione, mandò subito alla ricerca d’un chirurgo di sua conoscenza e mi consegnò alle sue cure insieme ad una ricevuta per dieci dollari.

L’acquirente mi trasportò nei suoi appartamenti e cominciò immediatamente le operazioni. Avendomi tagliate le orecchie, tuttavia, egli si avvide di certi segni di animazione. Suonò immediatamente il campanello, e mandò a chiamare un apoticario del vicinato, onde consultarsi con lui in quell’emergenza. Pel caso che i suoi sospetti in quanto aveva riguardo alla mia [p. 25 modifica]esistenza dovessero dimostrarsi alla fine esatti, egli nel frattempo praticò un’incisione nel mio stomaco, e asportò parecchi dei miei visceri per una dissezione in privato.

L’apoticario era d’opinione che io fossi realmente morto. Opinione che io mi sforzai di confutare, tirando calci e sussultando a tutta possa e dandomi ai più furiosi contorcimenti poichè le operazioni del chirurgo mi avevano, in una certa misura, restituito nel possesso delle mie facoltà. Ma tutto, tuttavia, fu attribuito all’effetto di una nuova batteria galvanica colla quale l’apoticario, che è realmente un uomo molto al corrente, eseguì parecchi curiosi esperimenti, ai quali, per la parte personale che assumevo nella loro riuscita, non seppi trattenermi dal prendere un profondo interesse. Non di meno, era per me motivo di mortificazione il fatto che, malgrado ripetuti sforzi per conversare, i miei poteri vocali restavano così perfettamente assenti che non riuscii nemmeno ad aprire la bocca; e tanto meno, dunque, a replicare a certe ingegnose ma fantastiche teorie che, in tutt’altre circostanze, la mia minuta conoscenza della patologia ippocratica mi avrebbe permesso di confutare prontamente.

Incapaci di giungere ad una conclusione, i due uomini dell’arte mi rimandarono ad un’ul[p. 26 modifica]teriore disamina. Fui trascinato in una soffitta, e la signora del chirurgo avendomi fornito di calzoni e mutande, il chirurgo stesso assicurò le mie mani e fasciò le mie mascelle con un fazzoletto da tasca, quindi mise il catenaccio alla porta dal di fuori e se ne andò di gran fretta a pranzo, abbandonandomi al silenzio ed alla meditazione.

Scopersi allora con una immensa gioia che avrei potuto parlare se la mia bocca non fosse stata legata col fazzoletto. Consolandomi di questa riflessione stavo ripetendo mentalmente alcuni passaggi della Onnipresenza della Divinità come è sempre mio costume prima di abbandonarmi al sonno, quando due gatti di natura rapace e vituperosa, entrando da un buco nel muro, balzarono in aria con una capriola alla Catalani, e piombando l’uno di fronte all’altro sul mio viso, si diedero ad una indecorosa contesa, pel meschino obbietto del mio naso.

Ma al modo che la perdita delle orecchie fu il mezzo che elevò Cirò al trono di Persia, e così come Zopiro entrò in possesso di Babilonia per il fatto che gli era stato tagliato il naso, la perdita di alcune oncie del mio viso si rivelò la salvezza del mio corpo. Aizzato dal dolore, e acceso di indignazione, strappai, con un solo sforzo i miei legami ed il bavaglio. Tra[p. 27 modifica]versando a gran passi la camera buttai uno sguardo di sprezzo sui belligeranti, e spalancando l’impannata, con loro estremo orrore e disappunto, mi precipitai con singolare destrezza dalla finestra.

W, lo svaligiatore di diligenze, al quale io somigliavo in strano modo, veniva in qual momento condotto dalle prigioni della cittadella alla forca eretta per la sua esecuzione. La sua estrema debolezza, e la sua salute da lunga pezza rovinata gli avevan valso il privilegio di andare senza manette; e, abbigliato del suo costume da condannato — estremamente simile al mio, — egli giaceva disteso in fondo al carretto del boia (che si trovava a passare proprio sotto le finestre del chirurgo al momento in cui mi precipitavo) senz’altra guardia che quella del conducente, che dormiva, e di due coscritti del sesto fanteria, che erano ubbriachi.

Come sciagura volle, caddi sui miei piedi dentro al veicolo. W., che era un individuo molto astuto, si avvide dell’occasione favorevole. Balzando su immediatamente, egli si lanciò fuori e scantonando per un viale scomparve dalla vista in un batter d’occhi. I due coscritti, svegliati dal trambusto, non afferrarono con esattezza il significato degli avvenimenti. Vedendo tuttavia un uomo, che era l’esatta copia del [p. 28 modifica]fellone, diritto in piedi nel carro sotto i loro occhi, furono d’opinione che quel furfante (pensando a W.) stava certamente per darsi alla fuga (così essi si espressero), e, essendosi comunicata reciprocamente questa loro opinione, bevvero prima un sorso e poi mi stramazzarono col calcio dei loro moschetti.

Non andò guari che arrivammo al luogo destinato. Naturalmente non v’era nulla da dire a mia difesa. L’impiccagione era il mio inevitabile fato. E mi rassegnai con un sentimento mezzo di istupidimento, e mezzo di acrimonia. Senza essere gran che cinico, provai i sentimenti di un cane. Il boia, tuttavia, m’accomodò il laccio al collo: l’assicella cadde.

Mi astengo dal descrivere le mie senzazioni sulla forca; sebbene su questo punto non v’ha dubbio che potrei parlare con conoscenza di causa; e si tratta di un soggetto sul quale nulla che valga è stato detto ancora. In verità, per poter assolvere a un simile assunto, è necessario d’esser stato impiccato. Ogni autore dovrebbe limitarsi al campo della propria esperienza. Così, ad esempio. Marco Antonio compose un trattato sull’ubbriachezza.

Accennerò tuttavia al fatto che io non morii. Il mio corpo fu impiccato, ma io non avevo fiato per esserlo; e non fosse stato il nodo sot[p. 29 modifica]to il mio orecchio sinistro, (che mi dava la sensazione di un collare di forza) oso dire che fui ben poco incomodato.

Quanto allo strappo patito dal mio collo al cadere dell’assicella, si trovò ad essere un correttivo della storta procuratami dal signore grasso nella diligenza.

Per mie buone ragioni, tuttavia, feci del mio meglio per ripagare la folla del suo disturbo. Le mie convulsioni vennero trovate straordinarie. I miei spasimi sarebbero stati difficilmente superabili. Il popolino chiedeva il bis. Parecchi signori svennero; e una moltitudine di signore fu portata a casa in un accesso d’isterismo. Pinxit si valse dell’occasione per ritoccare, da uno schizzo preso sul luogo, il suo ammirevole quadro di Marsia spellato vivo.

Allorchè ebbi offerto sufficiente divertimento, si credette opportuno di staccare il mio corpo dalla forca; e specialmente pel fatto che nel frattempo il vero colpevole era stato catturato e riconosciuto, cosa della quale io disgraziatamente non ero informato.

Moltissime simpatie, naturalmente, si manifestarono in mio favore e come nessuno reclamava il mio corpo, venne deciso che io sarei seppellito in una pubblica cella mortuaria. [p. 30 modifica]

Ivi, dopo un conveniente intervallo, venni deposto. Il becchino scomparve, ed io restai solo. Un verso del «Malcontento» di Marston:

«La morte è un’allegra comare e tiene casa aperta»

mi colpì in quel momento come una palpabile menzogna.

Tuttavia io feci saltare il coperchio della bara e uscii fuori. Il luogo era terribilmente umido e tetro, e mi sentii invadere dal tedio. A guisa di divertimento, cercai di farmi strada tra le numerose bare che erano disposte ordinatamente all’intorno. Una a una, le tiravo giù sul pavimento, e rompendo il coperchio, mi immergevo in speculazioni sulla mortalità che v’era dentro.

«Costui, monologavo inciampando in un carcame enorme, gonfio, e tondeggiante «costui è stato senza dubbio, in ogni senso della parola, un uomo infelice, sventurato. Il suo terribile destino fu, non di camminare, ma di andare innanzi barillando; di passare traverso la vita non come un’essere umano, ma come un elefante: non come un uomo, ma come un rinoceronte. I suoi tentativi di avanzare non furono che degli aborti, i suoi procedimenti aggiranti degli evidentissimi fiaschi. Per fare un passo innan[p. 31 modifica]zi, fu sua disgrazia di doverne fare due a destra e tre a sinistra. I suoi studi furono limitati alla poesia di Crabbe 1. Egli non potè aver idea della meraviglia di una piroetta. Per lui un pas de papillon fu una concezione astratta. Egli non ascese mai al sommo di un colle. Non ha mai contemplato dall’alto d’un campanile le glorie di una metropoli. Il calore fu suo nemico mortale. Durante la canicola egli ha passato dei giorni veramente da cane. Egli ha sognato allora di fiamme e di soffocazione, di montagne sopra alle montagne, di Pelion sovrapposto all’Ossa. Egli era corto di fiato; per dire tutto in una parola, egli era corto di fiato. Gli sembrava cosa stravagante il suonare degli strumenti a fiato. Egli fu l’inventore dei ventagli automatici, delle bocche d’aria e dei ventilatori. Egli proteggeva Dupont il fabbricatore di mantici, e morì miseramente tentando di fumare un sigaro. Fu un caso il suo al quale io prendo profondo interesse, un fato che risveglia in me la più sincera simpatia.

«Ma questo», dissi, «questo» e trassi fuori con dispetto dal suo ricettacolo una forma scarna, allungata e dall’aspetto singolare, la cui singolare apparenza mi colpì con un senso dì sgradevole familiarità, «questo è un misera[p. 32 modifica]bile che non ha diritto a nessuna commiserazione sulla terra». Così dicendo, allo scopo di ottenere una vista più chiara del soggetto, applicai il pollice e l’indice al suo naso, e traendolo a sedere con uno strattone, lo tenni così, all’estremità del mio braccio teso, mentre continuavo il mio soliloquio. «Senza diritto» ripetei, «ad alcuna commiserazione sulla terra. E chi, in verità, potrebbe pensare di aver compassione per un’ombra? D’altronde, non ha egli avuto la sua piena parte delle gioie della vita mortale? Da lui ebbero origine i monumenti elevati, le torri a freccia, i parafulmini, e i pioppi di Lombardia. Il suo trattato Delle Ombre lo ha immortalato. Egli curò con notevole abilità l’ultima edizione del «Scirocco nelle ossa». Molto per tempo andò all’Università, e studiò la pneumatica. Tornato a casa, parlava eternamente, e suonava il corno francese. Egli proteggeva i suonatori di cornamusa. 2 Egli morì gloriosamente nell’atto di aspirare del gas — levique flatu corrumpitur, come la fama pudicitiae secondo Ieronimo. 3. Egli era senza dubbio un.... [p. 33 modifica]

«Come? come potete?» interruppe l’oggetto della mia animosità, cercando di prender fiato, e strappando, con disperato sforzo, la benda che gli fasciava le mascelle: «come potete, sig. Senzafiato, esser tanto crudele da stringermi il naso a questo modo. Non avete visto come mi avevano imbavagliato? E voi dovete sapere, seppur sapete qualche cosa, di quale vasta superfluità di fiato mi è dato disporre! Se tuttavia non lo sapete, sedetevi, e vedrete.

Nella mia situazione è veramente un gran sollievo di poter infine aprire la bocca, di potermi espandere, di poter comunicare con una persona come voi, che non vi sentite obbligato ad ogni periodo di rompere a un gentiluomo il filo del discorso. Le interruzioni sono seccanti e dovrebbero senza dubbio venir abolite — non vi pare? — non rispondete, vi prego, è meglio parlare una persona alla volta. Io avrò presto finito, e allora potrete incominciare. Come diavolo mai, signore, siete venuto a finire in questo luogo? Non una parola ve ne supplico! Son qui da qualche tempo anch’io — un terribile accidente! — ne avrete udito parlare, suppongo? — spaventosa calamità! passeggiando sotto le vostre finestre — or non è molto — in quel tempo in cui andavate pazzo per la scena — un orri[p. 34 modifica]bile incidente! — avete udito la frase «trattenere il fiato» eh.. — silenzio, vi dico! — io, ho trattenuto quello di un’altro! — ne ho sempre avuto di troppo del mio — incontrai Blab all’angolo della strada — non mi diede modo di pronunciare una sola parola — non riuscii a insinuare una sola sillaba nemmeno di traverso — ebbi un attacco di epilessia — Blab si eclissò — al diavolo tutti gli imbecilli! — mi credettero morto, e mi confinarono qui — bel modo di trattare! — ho udito tutto quel che avete detto di me — ogni parola una bugia — orribile! — stupefacente! oltraggioso! — ignobile! — incomprensibile! eccetera, eccetera, eccetera, eccetera».

È impossibile avere idea del mio stupore a un discorso tanto inatteso, o della mia gioia quando mi potei grado a grado convincere che il fiato così opportunamente acchiappato da quel signore, che riconobbi presto pel mio vicino Fiatassai, era in realtà quella identica espirazione da me smarrita durante la conversazione con mia moglie. Il tempo, il luogo e le circostanze rendevano la cosa certa fuor d’ogni dubbio. Tuttavia, io non lasciai subito la mia presa sulla proboscide del Sig. Fiatassai, o per lo meno, per il periodo abbastanza lungo durante il quale l’inventore dei pioppi di Lombardia continuò a gratificarmi delle sue spiegazioni. [p. 35 modifica]

A questo procedere io ero condotto da quella abituale prudenza che fu sempre il mio tratto più caratteristico. Riflettei che molte difficoltà potevano ancora giacere sulla via della mia salvezza, e che soltanto con un estremo sforzo mi sarebbe dato di superarle. Molte persone, riflettei, inclinano a stimare dei beni in loro possesso, per quanto a loro perfettamente inutili, per quanto imbarazzanti o magari pericolosi, in ragione diretta dei vantaggi che altri potrebbe trarre dall’ottenerli, o essi stessi dall’abbandonarli.

Non poteva esser questo il caso pel sig. Fiatassai? Lasciandogli vedere la mia ansietà per quel fiato del quale egli aveva tanta voglia di sbarazzarsi, non mi esponevo forse alle esigenze della sua avarizia? Ci sono dei furfanti a questo mondo, mi ricordai con un sospiro, che non avrebbero nessun scrupolo a prendere dei vantaggi sleali persino col loro più prossimo vicino, e (questa osservazione è di Epitteto) appunto quando l’uomo è più ansioso di sbarazzarsi del fardello delle proprie calamità, egli è meno che mai desideroso di alleviare quelle altrui.

Fu dunque a delle considerazioni di questo genere, e tenendo ben salda la mia presa sul [p. 36 modifica]naso del Sig. F., che io stimai opportuno di informare la mia risposta.

«Mostro!» io cominciai nel tono di voce della più profonda indignazione «mostro e idiota dal fiato doppio! forse, o tu che per le tue iniquità il Cielo si è compiaciuto di maledire con una duplice respirazione — forse tu presumi di indirizzarti a me nel linguaggio famigliare d’un antico conoscente? «Io mento!» ma davvero! e «state zitto!» ma proprio! — un bel discorso, in verità, da tenere a un gentiluomo con un fiato solo! — e tutto questo poi, mentre sarebbe in mio potere di sollevarti dalla calamità che ti fa tanto giustamente soffrire, di tagliar corto alle superfluità della tua sciagurata respirazione».

Sull’esempio di Bruto, qui mi arrestai in attesa di una replica, colla quale il Sig. Fiatassai, a modo di un ciclone, mi sopraffece immediatamente. Protestazioni seguirono a protestazioni, e scuse a scuse. Nessuna condizione cui egli non fosse disposto a sottoscrivere volentieri, e di nessuna io trascurai di avvantaggiarmi quanto era in mio potere.

Convenuti infine i preliminari, il mio conoscente mi consegnò infine la mia respirazione; della quale (dopo averla esaminata con cura) gli rilasciai ricevuta. [p. 37 modifica]

Non mi nascondo che molti mi biasimeranno per aver parlato in modo così sommario d’una transazione tanto immateriale. Si penserà che avrei dovuto addentrarmi nei più minuti particolari d’un evento che — è verissimo — potrebbe gettare molta luce su un ramo altamente interessante della filosofia naturale.

A tutto questo sono veramente spiacente di non poter dare risposta. Un’accenno è il solo schiarimento che mi sia concesso di dare. Vi furono delle circostanze.. ma, io credo, riflettendo, che val molto meglio di dire il meno possibile di un affare tanto delicato: — tanto delicato, ripeto, e nello stesso tempo implicante gli interessi di un terzo nei cui sulfurei risentimenti non ho il minimo desiderio, pel momento, di incorrere.

Non tardammo molto, dopo questa necessaria transazione, a effettuare la nostra fuga dai sotterranei del sepolcro. La forza sommata delle nostre voci risciuscitate si manifestò presto in modo evidente. Forbici, l’editore liberale, pubblicò una nuova edizione d’un trattato sulla natura ed origine dei rumori sotterranei. Una risposta, replica, confutazione seguì subito, nelle colonne d’una gazzetta democratica. Soltanto all’apertura del sepolcro, allo scopo di decidere la controversia, l’apparizione mia e del [p. 38 modifica]Sig. Fiatassai provò che ambo le parti erano decisamente nell’errore.

Non so conchiudere questi particolari concernenti alcuni singolarissimi passaggi di una vita che fu in ogni suo momento alquanto fortunosa, senza richiamare ancora una volta l’attenzione del lettore sui meriti di quella impassibile filosofia che è un’egida pronta e sicura contro gli strali di certe calamità che non si possono vedere, sentire, nè perfettamente comprendere. Fu nello spirito di questa saggezza che, tra gli antichi Ebrei, si credeva che le porte del cielo si aprirebbero inevitabilmente a quel peccatore o a quel Santo che con dei buoni polmoni e una implicita confidenza, avesse saputo vociferare la parola «Amen!» Fu pure nello spirito di questa saggezza che, allorquando una terribile pestilenza infierì in Atene, e tutti i mezzi erano stati tentati per allontanarla, Epimenide, come Laerzio ci riferisce, nel secondo libro di quel filosofo, consigliò l’erezione di un altare e di un tempio «al Dio più confacente».

Note

  1. Crab = granchio.
  2. Sopprimiamo due righe di giuochi di parole assolutamente intraducìbili. (N. d. T.).
  3. Tenera res in feminis fama pudicitiae est, et qualis flos pulcherrimus, cito ad levem marcescit auram, levique flatu corrumpitur, maxime, etc. Hieronimus ad Salvìnam. (Nota dell’autore).